giovedì 18 settembre 2014

Se strappi il cuore a uno scozzese, di Paola Peduzzi

La Scozia si sente come una moglie menata, con il marito che nega tutto. Il fronte del “no” non l’ha capito, e s’è messo gli abiti del ragioniere. Ora corre ai ripari, sperando che alla fine, il 18 settembre, prevalga la ragione


Foto Ap
Cuore e ragione litigano, in Scozia, il cuore porta verso l’orgoglio e l’indipendenza, la ragione impone cautela e compromesso: c’è da stare attenti, quando ci si separa, si sogna tanto la solitudine e poi non si sa stare da soli un minuto. Il referendum che si terrà il 18 settembre in tutta la Scozia è una battaglia tra il cuore e la ragione, un “wrestling”, come tuitta Rupert Murdoch, fornendo in pochi caratteri la sintesi dello show che si concluderà nelle urne: cuore e ragione dovranno infine andare nella stessa direzione. Che per Murdoch è verso il “sì”, se è vero come sostengono molti (al Foglio lo dice anche Andrew Sparrow, cronista politico del Guardian spostato al volo da Westminster a Edimburgo visto lo stato d’emergenza) che il Sun edizione scozzese, tabloid numero uno, sta per fare l’endorsement per l’indipendenza – e in questi giorni se la ride, sguaiato, vedendo il via vai dei politici londinesi per le piazze scozzesi finora disertate: che cosa credete, chiedono i commentatori beffardi, di essere capaci di spostare qualche voto? Il Sun sì che li sposta, lo sanno tutti. Ma anche dentro al quotidiano popolare cuore e mente litigano – a Murdoch non piace sbagliare: se si schiera è per vincere – perché, diciamolo, l’indipendenza con il portafoglio vuoto non la vuole nessuno. E il punto, alla fine, è tutto qui: conviene staccarsi dal resto del Regno?

Per rispondere, però, per iniziare a ragionare di convenienza economica, numeri alla mano e ricavi da petrolio e forecast sul medio-lungo periodo, bisogna prima passare sul cuore degli scozzesi che è forte, coraggioso, sfrontato, pazzo e soprattutto si sente vittima di un’ingiustizia. Un’ingiustizia storica, che risale a secoli fa, ma che è stata tramandata di generazione in generazione, come ha raccontato lo scozzese AA Gill sul Sunday Times, in un articolo meraviglioso che da solo spiega quasi tutto quel che c’è da capire: “Gli inglesi alzano gli occhi al cielo quando si parla del passato e dicono agli scozzesi: ‘Su forza, fatevene una ragione, passate oltre. Basta con questo vittimismo’, che è quel che i mariti che picchiano le mogli dicono alle loro vittime”. Mogli menate, si sentono gli scozzesi, e i lividi non passano mai, fanno male ogni volta che diventa chiaro che l’unione non ha portato a un matrimonio paritario, né socialmente né economicamente. Così ogni motivo è buono per una ripicca contro gli inglesi, ed è per questo che, da quando è iniziata la campagna per il referendum, il fronte del “no” ha scoperto di avere un grande problema: nessuno può andare in Scozia a parlare dell’unione se proviene dall’unione. Chi ci prova fa l’effetto, come dicono gli scozzesi, di “uno che ti piscia nella zuppa”.

Li avete visti i politici londinesi accorsi al nord questa settimana dopo che il Sunday Times ha pubblicato il primo (e unico) sondaggio che dava il fronte del “sì” in vantaggio? David Cameron, premier conservatore, è riuscito a dire: votate per quel che è giusto per voi, non per dare un calcio agli “effing Tory”, dove effen è un modo più elegante per dire “fucking”, e il significato non cambia. Ha semi-insultato il suo partito, geniale, in una terra in cui i Tory non esistono da tempo, hanno un unico parlamentare. E’ uno dei lati oscuri dell’eredità thatcheriana: basta nominare i conservatori al di sopra del fiume Tweed ed è subito chiaro che non sono più un partito nazionale. Ed Miliband, leader del Labour, nel tour emergenziale che è stato seguito dall’arrivo del “Save the Union Express”, il treno dei laburisti per il “no” (“arrivano gli imperialisti!”, dicono i sostenitori del “sì”), ha fatto un appello con “mente, cuore e anima”, cercando di iniettare un po’ di passione laddove finora la campagna “Better Together” è stata tutta numeri e niente empatia: ma mente, cuore e anima si potranno (forse) muovere insieme per un laburista londinese, non certo per uno scozzese, che è, per sua natura, diviso. Nick Clegg, leader dei Lib-Dem e vicepremier, si è appiattito sulla linea Gordon Brown, ex premier laburista di scarso successo tramutatosi in salvatore della patria: avrete più indipendenza se non votate “yes”, la devolution sarà molto più ampia di come è oggi, sarà cioè un’indipendenza di fatto, senza che la Scozia diventi una nazione.

E’ l’argomentazione più saggia fornita agli elettori indecisi, che sono ancora tanti, ma arriva dopo mesi in cui la strategia londinese è stata ispirata alla minaccia e a quello che gli esponenti dello Scottish National Party (Snp, e che nessuno si sbagli con quella “n”: non sta per “nationalism”) chiamano “bullismo”. Vi togliamo la sterlina, vi togliamo la partnership con l’Europa – che in Scozia, a differenza di quanto accade in buona parte del Regno, non è vista così male: sono arrivati tanti fondi da Bruxelles, e sono stati utili, perché con la gestione dei soldi i leader scozzesi non sono credibili, basta dare un occhio al nuovo palazzo del Parlamento, un orrore costato una fortuna – vi togliamo il Sistema sanitario, vi togliamo persino la Bbc, resterete soli e isolati, lassù, a pigliarvi il vostro insopportabile vento in faccia. Non appena la paura di una secessione reale è diventata concreta – sempre per via di quell’unico sondaggio, e se si sta alle rilevazioni, il trend è già tornato dove era sempre stato: verso gli unionisti, ma “too close to call” – i mercati sono crollati, Cameron ha chiamato i businessman più importanti del paese per convincerli a fare di tutto per evitare la vittoria del “sì”, mentre stando alle dichiarazioni di “Better Together”, cinque banche – Tesco Bank, Tsb, Lloyds, Rbs e Clydesdale Bank – hanno già deciso di spostare la loro sede a Londra se al referendum gli indipendentisti dovessero avere la meglio. Il messaggio arrivato da parte degli unionisti è stato: siete troppo deboli, troppo poveri, troppo insignificanti per stare da soli. Ed è evidente che così Alex Salmond, che alla pratica dell’indipendenza ha dedicato la sua carriera e che è dotato di un carisma e di un’ironia che i suoi colleghi londinesi si sognano, ha avuto gioco facile nel parlare al cuore degli scozzesi, da moglie menata: ci meritiamo di più, e anche se sarà doloroso, meglio soli che con un marito così.

Il bullismo del governo centrale è dettato dal fatto che il voto del 18 settembre non impatterà soltanto sui cinque milioni di scozzesi che possono dare il loro voto (il 97 per cento degli aventi diritto si è registrato per andare alle urne) ma anche sugli altri 58 milioni di cittadini del Regno (compresi gli scozzesi che vivono fuori dalla Scozia che non hanno diritto di voto): la Gran Bretagna perderebbe molta della sua influenza a livello internazionale, molto del suo prestigio, potrebbe diventare più fragile, appunto, più insignificante, per non parlare delle conseguenze tecniche sulla sterlina, sulla finanza, sui meccanismi politici (nel paese e nelle sedi esterne, prima fra tutte quella a Bruxelles), sulla bandiera stessa, che dovrebbe capire come trasformarsi una volta rimasta senza il suo blu, e sui sottomarini nucleari che di base stanno nel mare scozzese.

A questo punto, propongono gli inglesi, compreso l’Economist in edicola da ieri, dovremmo votare tutti, perché il nostro destino è comune, e non possono determinarlo soltanto quelli del nord, che rappresentano il 7 per cento della popolazione nazionale. Che paradosso: l’origine del “Better Together” è proprio questa, il destino comune, insieme siamo più forti, siamo quello “splendid mess of a union”, il casino splendido dell’unione, che ha magistralmente tratteggiato lo storico inglese Simon Schama in un articolo sul Financial Times. Eppure, al posto di valorizzare i benefici dell’unione, ricordando tutto quel che è stato fatto insieme, gli Adam Smith e i David Hume che andavano al Select Club di Edimburgo e rivoluzionavano l’economia e la filosofia scendendo a sud, il fronte del “no” ha scelto di buttarsi esclusivamente sui calcoli: quanto perdi di pensione se vince l’indipendenza e che cure dovrai pagarti con i tuoi soldi (pochi) se sei tanto scriteriato da schierarti con Salmond.

Ci stanno pensando adesso, gli unionisti, al cuore. Lo Spectator, magazine conservatore che sostiene che la vittoria del “sì” sia la fine della carriera politica di Cameron, è in edicola con una copertina blu e la preghiera: “Scotland, please stay” e raccoglie i contributi dei lettori che spiegano perché l’unione non si deve spezzare. Lo Statesman, magazine di sinistra, pubblica un lungo articolo di Tom Holland che spiega, dalla Magna Charta in poi, come inglesi e scozzesi si siano spesso specchiati gli uni negli altri, con rabbia, ma anche trovando ispirazioni. Proprio quando stava per scadere il tempo, il fronte del “no” ha scoperto la nostalgia, quello strazio che è alla base dei tanti e bei pianti funebri che escono dalle cornamuse. Non si possono condividere il sangue e la fierezza e la storia (l’ingiustizia storica ancora meno), ma la sofferenza per paura dell’addio, quella sì. Stando sempre all’erta, perché al fondo resta che la Scozia si sente un posto a sé, e che forse vincerà la ragione, nelle urne, i calcoli della spesa e la convenienza, ma la divisione non sarà colmata. Non è nella storia degli scozzesi, non è nella loro natura. Provate a rileggere in questi giorni “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, quando dice: “Per quanto io fossi preso da un profondo dualismo, le due nature in me coesistevano in perfetta buona fede, ed ero ugualmente me stesso sia quando, sciolto ogni freno, ero immerso nella vergogna, sia quando mi affaticavo a lavorare per il progresso della scienza o per dare sollievo al dolore e alla sofferenza”. Non è un caso che sia stato scritto a Edimburgo.