sabato 25 maggio 2013

Basta lagna, e avanti con quel po’ di “giungla mercatista” che vi serve, di Marco Valerio Lo Prete


Datti una mossa, Italia

Roma deve risolvere i suoi problemi da sola, e guardare ben oltre Berlino. Parla Dadush, Carnegie Endowment

La Germania durante questa lunga crisi dell’economia non avrà brillato per leadership e inventiva, l’architettura istituzionale dell’euro sarà pure deficitaria e gestita da capi di governo che sembrano dei “sonnambuli”, come li dipinge la copertina dell’Economist di oggi, ma l’Italia non deve cercare scuse al di là dei suoi confini. Deve aggredire i propri problemi da sola, ripensando le sue “istituzioni” e alcune sue abitudini “culturali”. In sintesi, secondo Uri Dadush, direttore del programma di Economia internazionale al Carnegie Endowment for International Peace di Washington, si tratta di ammettere che è meglio “un po’ di giungla” oggi, cioè drastiche riforme pro libero mercato qui e ora, invece che una stagnazione garantita per i prossimi anni.
Attento conoscitore delle vicende europee, Dadush ci parla nel suo ufficio al quarto piano della palazzina del Carnegie a Washington, alternando senza problemi risposte in italiano e in inglese (conosce anche francese ed ebraico): “Non credo alla vulgata secondo la quale tutti i punti di forza europei sarebbero d’un tratto andati persi – esordisce –. Certo, l’Italia ha fatto meno passi avanti sul fronte della competitività, che è alla base di questa crisi europea, rispetto a Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo”. Tasso di cambio effettivo e costo unitario del lavoro, per esempio, sono migliorati di poco o nulla nel nostro paese. “In compenso Roma ha fatto più di altri sul fronte dell’aggiustamento fiscale. In Europa c’è stata a lungo un’enfasi eccessiva sul rigore dei conti; complice la pressione dei mercati internazionali, la questione fiscale è diventata più urgente, anche se in realtà sarebbe stato più importante recuperare competitività”.
Dadush, già direttore per il commercio internazionale e poi per la politica economica alla Banca mondiale, ricorda che in quell’organizzazione internazionale si distingue tra riforme di “prima” e “seconda generazione”: “Le prime si fanno con un tratto di penna, come l’aumento delle tasse o la liberalizzazione del commercio con l’estero. Le seconde comportano la liberalizzazione del mercato interno e sono più difficili da portare a termine perché colpiscono interessi specifici e concentrati che si oppongono duramente”. L’economista fa l’esempio dei notai in Italia, o della riforma del mercato del lavoro. Poi suggerisce che i nostri leader dovrebbero, per superare questo tipo di veti, offrire uno “scambio” all’opinione pubblica: “Più flessibilità dell’economia nel breve termine, pure a costo di subire un significativo impatto sociale delle riforme, in cambio di risultati nel medio e lungo periodo”.
Tale scambio non sarà facile “in paesi come l’Italia o la Francia, dove ci sono resistenze anche culturali – dice Dadush – Per voi oggi sarebbe impossibile rispondere alla crisi con la velocità con cui lo hanno fatto gli Stati Uniti. Quella americana è ancora l’economia più flessibile che conosca al mondo”. E non è un caso che negli Stati Uniti lo sviluppo sia tornato a farsi vedere prima. In America le regole del mercato del lavoro sono “di fatto inesistenti. Se il mio capo domani mi vuole licenziare – dice Dadush indicando la porta – mi può mandare via senza dare spiegazioni. E ciò non è dovuto soltanto al ruolo limitato dei sindacati”.
E’ invece questione di istituzioni e norme che facilitano il processo di “distruzione creatrice” del capitalismo: “Il mercato immobiliare americano sta subendo un rapido processo di aggiustamento, dopo essere affondato e aver generato la crisi del 2007-2008, grazie a regole chiare e semplici. Qui, se un cittadino non riesce a pagare il mutuo sulla sua casa, magari perché d’un tratto l’immobile vale meno del debito contratto con la banca, l’istituto di credito può rivalersi soltanto sull’immobile e non può aggredire tutto il patrimonio dell’individuo. Così da una parte le banche ritornano facilmente in possesso della casa, che comunque vale meno di prima, senza le lungaggini tipiche dell’Europa, dall’altra parte le persone possono tentare di ricominciare un’altra vita”.
Subentra dunque un fattore culturale: “Gli individui, semplicemente, si muovono più rapidamente, sono pronti a farlo. Questa è una giungla, un posto che può essere freddo e inospitale ma nel quale il più ‘adatto’ può sopravvivere. Non è un modello perfetto, ma l’Italia ha bisogno di farsi contagiare un po’ da tutto ciò”.
Nel dibattito pubblico italiano e – seppure per motivi spesso diversi – anglosassone si rafforzano però le voci critiche verso l’Unione europea e il suo paese leader, la Germania. “Dividerei la responsabilità della situazione attuale al 50 per cento tra cause di origine domestica e debolezze della governance europea – replica Dadush – Se non contasse la situazione interna ai singoli paesi, non si spiegherebbe perché l’Italia non cresce da prima della crisi, la Germania sta resistendo così bene e la Spagna sia affondata in breve tempo. Detto ciò, l’architettura istituzionale dell’euro conta eccome. L’Europa non attraversava una crisi dei debiti sovrani da quasi un secolo, dunque pesano l’assenza di un governo politico ed economico centrale, la mancanza di trasferimenti fiscali automatici ai paesi in difficoltà, le debolezze della Banca centrale europea e l’inesistenza di un’Unione bancaria”.
Dadush, in uno studio del 2012 intitolato “Club Med vs. Sun Belt”, ha osservato che Florida, Arizona e Nevada (gli stati americani della “Cintura del sole”) sono passati attraverso l’esplosione di un’enorme bolla immobiliare proprio come Grecia, Irlanda e Portogallo, soltanto che i primi ne sono usciti rapidamente, facendosi forti dei meccanismi federalisti di quella unione monetaria che sono gli Stati Uniti. “Alla Germania nel complesso darei un sei e mezzo per la gestione della crisi. Ha fatto passi verso l’integrazione che oggi sottovalutiamo: si pensi all’istituzione dei Fondi salva stati, al via libera all’operato della Bce. Certo, Berlino poteva e doveva essere più aggressiva, anche lasciando aumentare l’inflazione interna, ma il paese più forte ha sempre meno incentivi a muoversi come gli chiedono di fare i più deboli”, conclude Dadush. E così si torna alla ineludibile sfida riformatrice da combattere nei nostri confini.

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