lunedì 19 dicembre 2011

Melhores votos a todos!

Queridos amigos,
                           eu espero que voces possam passar boas festas. Por isso, eu lhes-desejo um Natal sereno e muita prosperidade tambem!

Bom 2012 para todos!

La Notte Santa, di Guido Gozzano

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe.

Il campanile scocca
lentamente le sette.

- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

domenica 18 dicembre 2011

Guardami negli occhi, di Nada


The show must go on, di Milva


Pe' dispietto, della Nuova Compagnia di Canto Popolare


Luna in piena, di Nada e Cristina Donà


Quell'incontro con un galantuomo nel suo castello da presidente, di Beppe Severgnini

La genesi dell'intervista con Vaclav Havel per «Il Giornale di Montanelli» nel 1990

Il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale

Ho conosciuto Vaclav Havel quand’era dissidente, alla fine degli anni Ottanta. Andare a trovarlo nell’appartamento lungo la Moldava – dove riceveva volentieri i giornalisti occidentali – poteva significare guai. Per «il Giornale» di Montanelli, da Praga, ho seguito tutta la «rivoluzione di velluto» del 1989, forse la più elegante ed entusiasmante tra quelle che hanno deposto il comunismo nell’Europa centro-orientale. Vaclav Havel se ne ricordava, e una volta salito al Castello come Presidente, da galantuomo, ha mantenuto la promessa di concedermi un’intervista. La prima in Italia, credo. Questa non è la riproduzione di quell’intervista (pubblicata il 10 maggio 1990), ma la genesi – davvero bizzarra – di quell’incontro. Spero dia il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale. Beppe Severgnini, 18.12.2011
 
Vaclav Havel nella sua Praga nel 1990 (Ap)Vaclav Havel nella sua Praga nel 1990 (Ap)
Praga, maggio 1990 – Fino a qualche tempo fa l'Europa orientale era un luogo tranquillo e triste, dove gli italiani andavano a cercare il socialismo e le ragazze. Non scoprivano mai il primo, ma trovavano quasi sempre le seconde. Ora è una fiera, un teatro dove va in scena un lungo dopoguerra. Difficile raccapezzarsi: gli ex-agenti segreti fanno gli steward sugli aerei, i comunisti fanno i socialdemocratici, i socialdemocratici fanno i liberali e i liberali fanno confusione. È un mondo caotico, dove tutti sono stati promossi, o rimossi, o sono in attesa di una promozione, o sono in ansia per una rimozione. I dissidenti sono diventati ministri: a Varsavia, un anno fa, l'ex-carcerato Jacek Kuron chiedeva una bottiglia di Johnny Walker per un'intervista; oggi è ministro del lavoro, e forse avrà cambiato marca. I ministri sono diventati dissidenti: a Budapest Imre Pozsgay, stella spenta socialista, è all'opposizione, praticamente solo. A Bucarest, nella chiesa italiana sul bulevard Balcescu - finalmente aperta: il conducator Ceausescu permetteva soltanto due funzioni all'anno, Pasqua e Natale - padre Molinari celebra la messa con una bellissima sedicenne romena al fianco, vestita come una novizia: riccioli biondi che sbucano dal copricapo, occhi azzurri e guance appena arrossate. Al termine tutti corrono a complimentarsi. «Cara, sei stata deliziosa - sussurra una signora italiana in visita - Sarai una meravigliosa piccola suora». La ragazza con i riccioli biondi spalanca gli occhi: «Ma io non voglio fare la suora. Io voglio fare l'attrice.» A Praga - tra tutte le città dell'est, la più educata - non si capisce molto di più, e non si fatica molto di meno. Cercare i protagonisti della rivoluzione di novembre è più che un lavoro. Più che un dovere. Più che una necessità professionale. È diventato uno sport.
Fino a sei mesi fa i dissidenti (giornalisti senza giornali, attori senza scritture e professori senza cattedre) erano a disposizione: qualcuno implorava un'intervista, qualcun altro si accontentava di una copia di Newsweek. In novembre, durante la rivoluzione, tutti ridevano in compagnia, bevendo birra chiara al caffè Slavia. In gennaio gli stessi dissidenti, diventati ministri e parlamentari, rispondevano ancora al telefono, ma le voci erano diventate improvvisamente fredde. In marzo hanno smesso di rispondere al telefono. Al loro posto parlava una moglie, una segretaria, un'amica: «Il ministro non c'è. Si rivolga all' ufficio stampa del ministero». Inutile dire «Guardi che io il ministro lo conosco. Guardi che quand'era dissidente gli portavamo tutti le sigarette». La voce a quel punto si fa annoiata, come se tutti quelli che telefonano dicessero la stessa cosa, come se tutti, un giorno, avessero portato sigarette al ministro: «Mi spiace. Si rivolga all'ufficio stampa.»
Hanno ragione i ministri di oggi, dissidenti di ieri. I giornalisti sono troppi, vogliono troppe interviste, fanno troppe domande. Abbiamo ragione anche noi però, che in dicembre incontravamo il signor Václav Klaus nel guardaroba di un teatro, e ce ne andavamo con un indirizzo scritto su un foglietto fotocopiato e ritagliato. Václav Klaus è diventato ministro delle finanze, l'uomo che dovrebbe portare il paese nell'economia di mercato: ora avrà un vero biglietto da visita, ma prima era più simpatico. La difficoltà ad orientarmi in un mondo capovolto mi ha spinto verso la nuova sede del «Forum dei cittadini» in piazza Jungamannovo, con il vecchio taccuino in mano. Adesso qualcuno si siede qui, ho gridato, e mi dice che fine hanno fatto tutti gli amici, tutta la gente che regalava il numero di telefono, tutti quelli che al caffè Slavia bevevano in compagnia.
Un funzionario si è commosso. Gentilmente, ha preso un lungo foglio uscito dalla stampante di un computer. «Prenda nota. Jiri Dienstbier, giornalista, ex bruciatorista: ora è ministro degli esteri, e questo lei lo sa. Eda Kriseova, scrittrice, autrice di «La clavicola del pipistrello»: consigliere personale del presidente. Vera Cáslavská, ginnasta olimpica: consigliere del presidente; Michal Kocab, cantante rock - sì quello che girava con gli occhiali neri e il giubbotto di cuoio. Anche lui è consigliere del presidente, e capogruppo del «Forum Civico» in Parlamento. Rita Klimova, quella che traduceva dal ceko all'inglese seduta di fianco a Havel: ambasciatore a Washington. Serve altro?». Senza più conoscenze - o meglio: le conoscenze ci sono ancora, ma sono rinchiuse nei loro uffici, difese dalle loro segretarie - sembrava impossibile arrivare fino a Václav Havel. Pur avendo il suo numero di telefono. Pur essendo stati a casa sua.
Da quando è presidente, vive braccato da giornalisti, diplomatici, politici e questuanti; tutti, rigorosamente, con il suo numero di telefono. Ma nella fiera dell'est c'è sempre una sorpresa in agguato. La mia si chiamava – pensate un po’ - Milan. Niente a che fare con il calcio. Il signor Milan Matous, che viaggia impettito verso i settanta, fuggì dalla Cecoslovacchia nel 1948 perché non voleva vivere agli ordini del comunista Gottwald. Era un atleta (nazionale di hockey su ghiaccio e componente della squadra di coppa Davis), aveva sposato un'atleta e ha una figlia atleta (Elena Matous, campionessa di sci), la quale ha sposato un altro atleta: Fausto Radici, sciatore non boemo, ma bergamasco. Negli anni Cinquanta Matous allenò la nazionale italiana di hockey su ghiaccio. Oggi vive in montagna, a Cortina d'Ampezzo, dove ha fatto amicizia con Giorgio Soavi. Questo - lo ammetto - avrebbe dovuto mettermi in allarme. Quando è tornato in patria dopo quarantadue anni - orgoglioso, con il suo vecchio passaporto - il signor Matous voleva rendersi utile. Utile con tutta la passione, il trasporto e l'irragionevolezza di un boemo che ha deciso di rendersi utile. Utilissimo, insomma. Ci siamo conosciuti per caso.
Matous aveva saputo che volevo incontrare Václav Havel, e ha detto: «Ci penso io». Ho spiegato allora che ottenere un'intervista era complicato. Milan Matous ha ascoltato, poi ha comunicato la sua decisione: sarebbe salito al castello e avrebbe convinto il presidente. Ho ringraziato, ho ripetuto che sarebbe stata una passeggiata inutile. Milan Matous ha sorriso. Il sorriso paziente di chi vive sulle Dolomiti, e sente dire a un milanese che qualcosa è impossibile. Penso che si ricorderanno per un pezzo di Milan Matous a Hradcany, dimora dei re di Boemia, residenza dei presidenti. Dopo essere arrivato fino alla segreteria di Havel, aver abbracciato la ginnasta Vera Cáslavská, aver salutato le guardie del corpo e le dattilografe, Matous ha spiegato a tutti che Havel era un uomo morale, e aveva perciò il dovere morale di concedere un'intervista al «Giornale» di Montanelli, che aveva sempre parlato bene di lui, e male dei comunisti.
Poiché gli ardimentosi sono anche fortunati, Havel è uscito in corridoio. Milan Matous è partito all'attacco: «Presidente, sul muro della sua camera, quand'era bambino, c'erano dipinti alberelli e coniglietti. » Václav Havel, che è abituato a sentirsi dire di tutto, ma non che è cresciuto tra alberelli e coniglietti, si è fermato di colpo: «È vero. Ma lei come lo sa?» «Perché li ha dipinti mia moglie, che era buona amica di sua madre», ha spiegato Matous con la logica rigorosa di chi vive sulle Dolomiti. «E adesso - ha aggiunto con un gran sorriso - lei deve dare un'intervista al Giornale, che su di lei ha scritto tante belle cose». Poiché gli Havel sono estrosi almeno quanto i Matous, l'intervista è stata concessa, e l'abbiamo pubblicata. Oggi volevamo soltanto ringraziare l'amico di Soavi, e i coniglietti del presidente.

http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_18/severgnini-havel_66d3f71c-2978-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml

Con te partirò, di Andrea Bocelli




http://www.youtube.com/watch?v=cBT_4G9twzg

venerdì 16 dicembre 2011

Beppe Grillo su Napoli e i Borbone


Matilde Serao sulla morte del re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone

Napoli apprese la notizia della morte del re Francesco II di Borbone dalle
colonne de "Il Mattino". Matilde Serao scrisse in prima pagina un articolo
dal titolo «Il Re di Napoli», in cui fra l'altro diceva:

«Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino,
rendendo a Dio l'anima tribolata ma serena.
Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza
silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era
parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità,
colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva
una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re,
questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che
tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza
lamentarsi; ed ha preso la via dell'esilio e vi è restato trentaquattro
anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato,
impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la
bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo...
Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il
ritratto di Don Francesco di Borbone».

La salma di Francesco II, vestita con abiti civili su cui spiccavano le
decorazioni e fra queste la medaglia al valore militare per la difesa di
Gaeta, restò esposta nella camera ardente fino alla sera del 29
dicembre.

http://www.albertoboccalatte.it/documenti/Francesco%20II.pdf 

Ninco nanco, di Eugenio Bennato



Inno di libertà


Sullivan e Hitchens, i bastiancontrari che hanno vinto la guerra delle opinioni, di Christian Rocca

Ci sono due persone che hanno vinto la guerra, o meglio il dibattito americano sulla guerra. Uno è Andrew Sullivan, l’altro è Christopher Hitchens. Sono due intellettuali raffinati e giornalisti bastiancontrari, uno difficilmente etichettabile, ma diciamo di simpatie conservatrici; e l’altro di estrema sinistra. Le loro voci sono state le più ascoltate e le più influenti nei rispettivi campi. Ovvio, non sono stati i soli. Anche altri come Thomas Friedman e William Safire hanno scritto cose importanti sull’11 settembre e sul suo significato, ma come scrive il New York Observer, Sullivan è stato abile a sfidare la sua parte sul pericolo che si nasconde in tutti i fondamentalismi religiosi, e forse nel cuore della religione stessa, non solo nell’Islam quindi.
Hitchens, detto Hitch, invece ha preso per la collottola la sinistra e gli ha imposto di trattare i terroristi come oppressori dei derelitti del mondo, e non come i portavoce un po’ svitati di chi lotta contro le ingiustizie. Li ha chiamati "Islamo-fascists". E la definizione ha preso piega tra i liberal e i leftist d’America.
Ed è curioso che entrambi siano Brits expatriate, cioè inglesi che vivono in America. Così come è curioso che tutti e due prendano esempio da un altro inglese, George Orwell. A Sullivan e Hitch, il post undici settembre è apparso simile a quello che l’autore di "1984" dovette fronteggiare nel 1940, quando fu uno dei pochi a prendere di petto il disfattismo della destra e della sinistra europea nei confronti di Adolf Hitler e del nazismo. E alla fine ebbe ragione, così come sembrano aver avuto ragione Sullivan e Hitch, almeno fino a questo momento.
I due sono partiti da posizioni opposte, ma le conclusioni sono simili. Sullivan è cattolico e ha ricondotto l’undici settembre al potere oscuro della religione, mentre Hitchens, che è un duro di sinistra, non ha perso tempo a processare l’impero americano. Non c’entra niente, ha detto. Almeno in questo caso, perché Hitchens non è certo uno che si tira indietro quando c’è da criticare l’America.
Andrew Sullivan ha 39 anni e scrive sul Wall Street Journal, sul Sunday Times e sul settimanale The New Republic (che ha diretto tra il 1991 e il 1996) ma l’articolo più importante in questa crisi l’ha pubblicato sul magazine del New York Times, il 7 di ottobre. Il titolo era chiarissimo: "Questa è una guerra di religione". Sullivan ha spiegato che è troppo facile attribuire l’undici settembre esclusivamente al fanatismo religioso. E’ necessario, piuttosto, chiedersi se non è il credo religioso stesso – e in particolare quello monoteista e basato sulle Scritture – a contenere al suo interno la tentazione terrorista. Il riferimento è ai fondamentalisti cristiani d’America, a quel blocco conservatore e bacchettone che Sullivan mette sullo stesso piano dei seguaci di bin Laden: "C’è un legame tra i fondamentalismi occidentali e quelli mediorientali. Se fondi il tuo credo su libri scritti più di mille anni fa e ci credi letteralmente, il mondo non può che apparirti orribile. Se credi che le donne debbano stare in un harem e vivere in stato servile, allora è ovvio che Manhattan ti sembri Gomorra. Ma allo stesso modo se pensi che l’omosessualità sia un crimine punibile con la morte, il mondo non può che apparirti come Sodoma. E da qui a pensare che queste centrali del male debbano essere distrutte, come ha fatto bin Laden, è un attimo". E infatti Jerry Falwell, che è il leader dei cristiani fondamentalisti americani, crede che la distruzione di Lower Manhattan sia in qualche modo una conseguenza dei peccati commessi a New York dai pagani, dagli abortisti, dai gay e dalle lesbiche e dalle femministe. "Certo, poi si è scusato per la mancanza di tatto – ha scritto Sullivan – ma non ha ripudiato l’essenza teologica dell’affermazione. Il punto è che i fondamentalisti americani sanno che stanno perdendo la battaglia culturale, sono terrorizzati da un mondo senza fede religiosa e temono la dannazione per un’America che ha perso di vista la nozione di Dio".
La forza dell’argomentazione di Sullivan sta nel suo essere profondamente cattolico. Ma è un cattolico un po’ particolare, perché è anche omosessuale. E per di più con il virus Hiv nel corpo: "Ma non posso combattere contro la guerra e contro l’Hiv contemporaneamente", dice. E nonostante la Chiesa abbia condannato la sua omosessualità, Sullivan le è rimasto devoto e combatte per essere accettato.
Allo stesso modo la forza di Hitchens sta nell’essere sempre stato un liberal radicale. Da anni, per esempio, conduce una battaglia contro Henry Kissinger, che considera come uno dei più atroci criminali del secolo ("è l’uomo che ha devastato la Cambogia, Cipro, il Cile e Timor Est"). Ha scritto centinaia di articoli sull’argomento e all’ex segretario di Stato che qualche giorno fa è stato nominato "miglior cervello d’America" ha fatto un processo con un libro ("The trial of Henry Kissinger"). Ha irriso Madre Teresa di Calcutta e la sua holding della carità con un’inchiesta dal titolo blasfemo: "La posizione del missionario: Madre Teresa in teoria e in pratica". Scrive per la bibbia del progressismo inglese, e cioè per il Guardian, ma anche per The Nation, il settimanale della sinistra newyorchese, e per il mensile radical chic, Vanity Fair. Un "antiamericano" di professione come Gore Vidal dice che se un giorno dovesse nominare un delfino, ebbene questo sarebbe proprio Hitchens. Che è amico di Edward Said, i cui articoli in Italia vengono pubblicati dal Manifesto, e di Susan Sontag, cioè di altre due colonne dei leftist d’America.
Hitchens è anticonvenzionale, sempre. E nel suo ultimo libro ("Letters to a young contrarian", sul modello delle lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke) dispensa consigli di anticonformismo a un immaginario allievo di radicalismo. Il Guardian ha scritto che dire "Hitch è un bastiancontrario, è come sostenere che Napoleone era un semplice soldato". Anche uno dei suoi più grandi amici, lo scrittore Martin Amis, nel suo libro autobiografico "Experience" ha scritto che Hitch è così furioso che spesso non riesce a trattenersi, e forse si è ricordato di quando gli presentò il grande scrittore Saul Bellow, che è ebreo, e Hitch cominciò a parlargli male d’Israele, cioè dell’altra sua grande fissazione.
Quanto sia duro Hitch, se ne è accorto Noam Chomsky, alfiere della sinistra più radicale e fierissimo oppositore dell’intervento americano in Afghanistan. Scrivono entrambi per The Nation, e quando Chomsky si è arrischiato a criticare la colonna di Hitchens è stato sommerso da decine di articoli. Hitch irride i pacifisti (un suo articolo sul Guardian è stato titolato "Ha, Ha, Ha to the pacifists") e il suo disprezzo per il fanatismo islamico nasce con Khomeini e con la fatwa nei confronti del suo amico Salman Rushdie. "Sono fascisti travestiti da musulmani" scrive, e questi "poveri stupidi" che invocano la pace non se ne accorgono: "Dicono che l’Afghanistan è il luogo dove il paese più ricco del mondo bombarda il più povero, ma a questo giochetto retorico non mi battono. Cari pacifisti, che ne dite di questa: l’Afghanistan è il posto dove la società più aperta del mondo si confronta con quella più chiusa. Oppure: è il posto dove piloti d’aereo donne uccidono uomini che schiavizzano le donne. Non vi basta? Eccone altre due: l’Afghanistan è il luogo in cui chi bombarda indiscriminatamente viene colpito in modo chirurgico e accurato. Oppure: è il luogo dove il più grande numero di povera gente applaude chi bombarda il proprio governo".
Hitchens, che ha 53 anni, scrisse le stesse cose ai tempi delle operazioni militari in Kosovo, anzi aveva criticato Washington per aver aspettato troppo tempo a intervenire. E ai pacifisti di oggi dice: "Perché non ripensate a quando dicevate che il bombardamento del Kosovo avrebbe definitivamente consegnato i serbi a Milosevic?". Oltre a Chomsky, uno dei grandi avversari di Hitchens è il regista Oliver Stone, uno che ama scovare un complotto capitalista dietro ogni angolo. E non contento, poi ne fa anche un film. Hitch non gli perdona di propagandare la tesi del legame tra l’attacco all’America e il riconteggio dei voti presidenziali in Florida. A lui e alla sinistra che segue Chomsky scrive: "C’è una profonda similitudine tra questo vostro modo di vedere le cose e quello di quei conservatori che salutano l’11 settembre come un giudizio divino su un mondo di peccatori".
Insomma, Hitchens e Sullivan sono due eretici. E se il primo sa di essere stato scomunicato dalla sinistra "perché mi accusano di essermi spostato al centro, anzi più a destra della destra e con un punto di approdo ancora da determinare", Sullivan ha il suo bel da fare con chi, a destra, non sopporta l’approccio libertario sui diritti civili e la disinvoltura con cui affronta temi teologici, analisi sui talebani e rapporti con il proprio fidanzato. Ora scrive 24 ore su 24 sul suo sito (andrewsullivan.com), commentando e discettando su guerra, fede, religione e omosessualità, ed è davvero un bell’esempio di come fare giornalismo su Internet.
Sullivan e Hitchens su una cosa divergono, il giudizio su Bill Clinton. O meglio entrambi lo odiano, ma da due sponde opposte. Così se Sullivan non fa passare giorno senza imputare alla negligenza clintoniana l’undici settembre, specie ora che si è scoperto la Casa Bianca ha avuto modo e tempo per fermare gli uomini di bin Laden, Hitchens sostiene caparbiamente che il bombardamento contro il laboratorio farmaceutico in Sudan nel 1998, che per l’Amministrazione nascondeva un deposito di gas nervino, in realtà è stato un orribile crimine di guerra.
Il New York Observer fa notare che i due hanno ancora qualcos’altro in comune, e di nuovo un altro punto di contatto con Orwell. Tutti e tre hanno affrontato piccoli scandali privati e politici. Hitchens per aver deposto contro il suo (ex) caro amico Sidney Blumenthal, consigliere del presidente nel caso Lewinsky, per rafforzare le ragioni dell’impeachment a Clinton; e Orwell per aver fornito i nomi dei sospetti comunisti alle autorità inglesi. Due bei tipini. E che dire di Sullivan? Lui fu scoperto mentre frequentava con pseudonimo un sito pornografico alla ricerca di rapporti "barebacking", che è il modo in cui i gay americani definiscono il sesso non protetto. Seguì uno scandalo sui giornali newyorchesi, specie quelli gay oriented e di sinistra che mal sopportano lo strano conservatorismo di Sullivan.

http://www.camilloblog.it/archivio/2002/01/23/sullivan-e-hitchens-i-bastiancontrari-che-hanno-vinto-la-guerra-delle-opinioni/

Portami con te, di Loredana bertè


Grande Sud, di Eugenio Bennato


Ballando al buio, degli Stadio


Ricordati che devi morire da "Non ci resta che piangere"


martedì 13 dicembre 2011

L’aborto imposto di Trento e l’“educazione all’affettività”, di Giorgio Israel

Come si è arrivati a una scuola che propone una visione dell’amore solo come rischio di gravidanza indesiderata

Una ragazza di sedici anni, a Trento, è stata indotta ad abortire su pressione dei genitori, che si erano addirittura rivolti al giudice per costringerla a farlo. Più che chiedersi come si sia giunti a tale sordità morale nei confronti dell’aborto e alla riduzione della gravidanza a una via di mezzo tra un incidente e una malattia, occorre chiedersi quali sono i meccanismi che alimentano questa tendenza.
Ecco un piccolo esempio segnalatomi da una lettrice. Nel “Corso di Scienze per la scuola secondaria di primo grado” (autori Bruna Negrino e Daniela Rondano, edizioni il Capitello) nel capitolo sull’“educazione all’affettività” un paragrafo spiega: “Sin dall’antichità l’uomo e la donna si sono posti il problema di evitare le gravidanze non desiderate; un tempo si cercavano soluzioni a ciò ricorrendo a metodi rudimentali di scarso valore scientifico e spesso di altrettanto scarsa efficacia. Al giorno d’oggi, grazie alle conoscenze anatomiche e funzionali dell’apparato riproduttore e alle scoperte in campo chimico-farmaceutico, è possibile esercitare un controllo sulle nascite con metodi efficaci e sicuri”.
Il paragrafo è intitolato: “I molti motivi per non iniziare una gravidanza” e questi motivi sono riportati entro tanti dischetti azzurri che galleggiano attorno al titolo. Vale la pena leggerli: “Non voglio figli”, “Non ho l’età”, “Ho paura dei miei”, “E’ un passo molto importante”, “Non me la sento”, “Sarà vero amore?”, “Non so…”, “Sono troppo giovane”, “Prima finisco gli studi”, “Boh!”, “Il pianeta è già troppo pieno”.
Ammetto di trovare superfluo ogni commento. Mi sorprenderei piuttosto che qualcuno lo possa ritenere necessario. Né me la sento di prendermela in particolare con questo libro: ve ne sono tanti così; anzi, sono quasi tutti così. E perché? Perché si è imposto il principio che l’affettività debba essere appresa a scuola al pari del teorema di Pitagora. Con una differenza, si dirà: nessuno si sogna di affermare che il quadrato costruito sull’ipotenusa sia metà della somma dei quadrati costruiti sui cateti, ma l’affettività sarà tema delle opinioni più disparate. Fosse solo questo il problema…Dietro l’affettività, l’amore, la sessualità vi è la morale. Quindi, se si pretende di fare dell’affettività una materia curricolare e di insegnarla come le leggi della chimica, l’esito è inevitabile: la materia diventerà “scientifica” e non sarà tanto l’esposizione di vedute differenti quanto l’educazione alle tecniche per conseguire il massimo “benessere”, con relativa sparizione della questione morale.
Consideriamo, per esempio, le indicazioni nazionali della legge Moratti per i licei. Nella sezione dedicata all’educazione all’affettività, uno degli obiettivi è l’acquisizione del linguaggio dei sentimenti e delle emozioni, per affrontare i temi dell’innamoramento, dell’amore, del matrimonio e della famiglia. E come si realizzerà questo obiettivo? “Analizzando le mappe linguistiche relative alla vita affettiva”; facendo ricerche e documentandosi “sull’evoluzione della famiglia nella società italiana e nel proprio contesto di riferimento”. Altro tema di apprendimento: “La vita affettiva e sessuale secondo diverse scuole di pensiero, le caratteristiche di una sessualità responsabile, le relazioni affettive e sessuali nell’adolescenza e nell’età adulta”.
Esso dovrà condurre alla capacità di “distinguere nella discussione sulle problematiche sessuali tra dati di costume di tipo antropologico e sociologico, norme e suggerimenti di tipo igienico e norme giuridiche”. Ancora: “Riconoscere il rapporto tra affettività, sessualità e moralità in diverse situazioni sociali. Fecondazione, gestazione e nascita. Regolazione della fertilità e metodi contraccettivi”. Qui si tratterà di acquisire la “competenza” di “distinguere fra metodi naturali di regolazione della fertilità, contraccettivi chimici e meccanici, e riconoscere di ciascuno, efficacia e limiti”.
Questa riduzione dell’autentica dimensione dell’affettività a una miscela di tecnica sanitaria e di sociologismo è il prodotto del connubio di ideologie pedagogiche diffuse non solo in ambito laico ma anche, e largamente, nel mondo cattolico e, più in generale, religioso. Ci si chiede che senso abbia proclamare l’intoccabilità dei valori non negoziabili (in primis, la vita), il valore della morale, della famiglia, dell’educazione libera, e poi chiudere gli occhi di fronte a forme di costruttivismo degne di uno stato totalitario, alla riduzione dell’affettività a disciplina di stato.
Sono stato talora accusato di intervenire troppo sul tema dell’istruzione, quando ben altri mali affliggono la nostra epoca. Ma è qui che questi mali si alimentano. E’  qui che stiamo educando generazioni di giovani a una sordità morale che equipara il levarsi un figlio dal seno al taglio di un’unghia incarnita, a considerare ogni “dovere” come impaccio alla “libertà”. Ed è il terreno su cui si misura il fallimento di un certo mondo religioso che crede di salvare la propria ragione di esistere riducendo la morale a tecniche socio-pedagogico-sanitarie.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/11522

Le scelte da fare e i pericoli reali, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA

Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno. Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo.

La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.

L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra.

Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale.

Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci.

Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?).

Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro.

Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti.

Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati.

http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml

Chi po' dicere, di Pino Daniele


lunedì 12 dicembre 2011

I soliti accordi, di Enzo Jannacci e Paolo Rossi


Fora Savoia, di Mimmo Cavallo


La fotografia, di Enzo Jannacci


Una vita difficile, di Enzo Jannacci


Sfiorisci bel fiore, di Enzo Jannacci


Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure, di Fabio Cutri

«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»

Enzo Jannacci (Foto Rai)
Enzo Jannacci
MILANO - Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».
È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo? «Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».
Sono considerazioni di un genitore o di un medico? «Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».
Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro?
«Bisogna stare molto vicini a questo padre».
Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte?
«Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza?
«Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».
Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo?
«Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».
Che cosa?
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».


http://www.corriere.it/cronache/09_febbraio_06/jannacci_eluana_fabio_cutri_1fd6ba3e-f41a-11dd-952a-00144f02aabc.shtml 

L'uomo a metà, di Enzo Jannacci


La disperazione della pietà, di Enzo Jannacci


Se me lo dicevi prima, di Enzo Jannacci


I ghiacci si sciolgono. E la Groenlandia si innalza

Misurazioni accurate tramite la rete Gps

Nelle zone meridionali nel 2010 si sono sciolte 100 miliardi di tonnellate di ghiaccio: il suolo si è alzato di 2 cm in 5 mesi

In rosso le aree che si sono innalzate maggiormente (da Ohio State University) 
In rosso le aree che si sono innalzate maggiormente (da Ohio State University)
 
L'estate supercalda del 2010 ha fatto sciogliere qualcosa come 100 miliardi di tonnellate di ghiaccio nella Groenlandia meridionale. Senza il peso del ghiaccio, il terreno si è innalzato in alcune località di 2 centimetri in soli cinque mesi. I dati, rilevati dalla rete Gps groenlandese Gnet, sono stati resi noti il 9 dicembre da Michael Bevis di Ohio State University nel corso dell'annuale convegno dell'Unione geofisica americana che si è svolta a San Francisco.
ISOSTASIA - Il fenomeno dell'innalzamento del terreno, una volta che non viene più compresso dal peso di una massa ghiacciata, è ben noto ai geologi e viene definito isostasia. Anche la Scandinavia, per esempio, si sta innalzando dalla fine dell'ultima glaciazione avvenuta circa 15 mila anni fa.
INNALZAMENTO - Anche le zone più lontane dalle regioni meridionali della Groenlandia che hanno subito nel 2010 la maggiore perdita di massa ghiacciata, hanno avuto un innalzamanto del suolo pari a circa 5 millimetri, solo le stazioni di misurazione dell'estremo nord sono rimaste stabili.

http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/11_dicembre_11/groenlandia-ghiaccio-innalzamento_9f21940e-23f0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml

domenica 11 dicembre 2011

Di Natale e Basta: colpi di testa per spedire l'Udinese in vetta, di Valerio Clari

Chievo battuto 2-1: la squadra di Guidolin in attesa della Juve è sola in cima alla classifica di A. Decidono nella ripresa il numero 10, capocannoniere con Denis e l'esterno serbo. Non basta il gol di Paloschi.


Il gol dell'1-0 di Di Natale. LaPresse
Il gol dell'1-0 di Di Natale

Di nuovo prima, stavolta da sola, almeno per una notte. Sette vittorie su sette in casa, dieci gol per Totò Di Natale: i mesi passano e l'Udinese resta lassù. Il Chievo infila la quinta sconfitta su sette uscite, non "sbraca" mai, ma nemmeno prende punti. L'Udinese è un diesel che ti addormenta e poi ti "trita" grazie a un'accellerazione, un cross una giocata. Se Di Natale e Basta trovano gratificazione di una gran partita nel tabellino marcatori, il simbolo del primato fiulano può essere Mauricio Isla. Il cileno è uomo ovunque, corre più di tutti e ci aggiunge qualità. Se ne va fra gli applausi del Friuli: salutato Sanchez, approdato ad altri placoscenici, Mauricio ne ha raccolto in parte, a suo modo, l'eredità.

Di Natale ringrazia Mauricio Isla per l'assist. Ansa
Di Natale ringrazia Mauricio Isla per l'assist


Partenza lenta — Guidolin è senza Ferronetti (a sua volta sostituto di Domizzi) e Pinzi: sceglie Ekstrand e Badu, con Floro Flores preferito a Torje. Cambiano alcuni interpreti, non il copione della squadra, che anche in casa, anche contro il Chievo, tende a lasciare campo agli avversari per ripartire in velocità. Al momento di verticalizzare, però, inizialmente l'Udinese interpreta lo spartito con disattenzione: qualche errore di troppo, qualche palla recuperata di meno. Antonio Di Natale sbaglia persino qualche controllo, evento raro, specie in casa.

Dusan Basta festeggia la terza rete in questo torneo. LaPresse
Dusan Basta festeggia la terza rete in questo torneo

Due colpi di testa — Non impressiona, la squadra di Guidolin, ma si capisce che piano piano sta carburando: Floro Flores rientra e lancia i centrocampisti, con Armero e Asamoah che devono registrare la mira. Poi iniziano i salvataggi del Chievo: nel primo tempo è Sorrentino a dire di no d'istinto a Benatia, poi nella ripresa tocca a Dramé e Frey stoppare Di Natale. Dramé, preferito a Jokic, salva in tackle quando Totò stava spingendo a porta vuota una palla che danzava sul limite dell'area piccola dopo un tiro di Isla. Frey cancella in recupero una magia di Di Natale, che aveva deviato di tacco su un cross di Basta. Porta stregata? Macché: basta insistere, e l'Udinese insiste sempre. Al 23' su un cross di prima di Isla Di Natale trova il colpo di testa e il decimo centro in questa Serie A. Al 34' la chiude Basta, su angolo del numero 10, ancora di testa, sacrificando anche un zigomo alla scarpata di Dramé.

Alberto Ploschi segna il gol del 2-1. Ap
Alberto Paloschi segna il gol del 2-1

Chievo, lampo Paloschi — Il Chievo se ne va dal Friuli senza punti nonostante si sia fatto in quattro per provare a chiudere ogni possibile corridoio di ripartenza: non c'è riuscito sempre, ma il problema maggiore, più che la difesa, resta l'attacco. Quello di Di Carlo è il secondo peggiore della A per gol segnati (11): un po' sono i limiti degli uomini a disposizione, un po' pare anche la tendenza a pensare prima ad altro, tipo "non prenderle". Fra Pellissier, Moscardelli e Thereau nessuno è in forma realizzativa, per cui può essere un bel segnale il gran gol trovato nel finale da Paloschi, uno che aspetta ancora la definitiva "esplosione". Per innescarlo servirà qualcosa di più di Sammarco, che oggi fornisce una sola palla buona, sui piedi di Luciano: palla fuori sul tiro di prima. Il brasiliano, 36 anni, è ancora il più pericoloso dei centrocampisti. Con tutto il rispetto, pare un problema.

Andrea's Version, di Andrea Marcenaro

Mica per dire, o perché me ne intenda. Ma un capitalismo dove gli anticapitalisti stanno dalla parte dei capitalisti, un capitalismo dove i capitali, invece che da privati individui, vengono gestiti da un pugno di tizi che hanno fatto un paio di master, dove il modo di produzione orientale bagna il naso a quell’occidente dove il capitalismo nacque, un capitalismo che se ne sbatte mica male della salvaguardia delle libertà individuali, se ne sbatte mica male se l’intervento pubblico interferisce nella libera competizione dei soggetti economici e dove le borse, invece che fare un po’ su e un po’ giù, un giorno vanno giù e il giorno dopo ancor più giù, un capitalismo la cui colonna sonora è affidata Jean Paul Fitoussi e dove l’Inghilterra (che Marx l’ha sepolto) resta fuori, che si rifiuta di votare, di stampare moneta, si rifiuta di fare debiti e abolisce il segreto bancario, bisogna ancora chiamarlo capitalismo, un capitalismo così, o non sarebbe meglio chiamarlo incularella?

http://www.ilfoglio.it/andreasversion/760

Inflammare necesse est, di Alessandro Giuli

La perfetta bellezza del Numero d’oro nella Divina Proporzione. Da Pitagora a Musmeci-ignis

Métron àriston” insegna Pitagora: in ogni cosa la misura è aristocratica, in quanto avvicina all’archetipo divino. Ogni eccesso è corruzione dell’anima, allontana dalla conoscenza che è visione di forme perfette. Quando l’uomo primevo della civiltà mediterranea non ebbe più la facoltà del contatto immediato con il sacro, prese a figurarsi la Natura degli Dei sotto sembianze antropomorfe: con la potenza della parola, con il ritmo del carme, evocò le forze abissali del Cosmo per racchiuderle in un cerchio magico; le trasfuse nel legno scolpito (accumulatore solare), nel marmo (accumulatore di luce), nel bronzo (accumulatore di fuoco), affinché l’armonia del Gran Tutto trovasse luoghi prescelti ove manifestarsi. Nacque così il Bello: un coro di linee luminescenti e serene composte in euritmia, equilibrio delle parti, calma nobiltà statuaria. Poiché “la virtù, la salute, ogni bene e Dio sono altrettante armonie; perciò ogni cosa consiste di armonie” (Diogene Laertio). Gli Elleni hanno costruito su questa base una Scienza del Bello, un culto ideale fondato sull’equivalenza della bellezza e della virtù (kalokagathia) secondo il quale il dato estetico, l’opera d’arte così come la grazia nelle proporzioni umane, non è altro che il riflesso di un fatto psichico. Secondo Platone, come la mancanza di grazia, di numero e di armonia è il contrassegno di un cattivo spirito e d’un cattivo cuore, così le qualità opposte sono l’immagine e l’espressione d’un cuore ben nato. Il filosofo ateniese sapeva che nessuno poté (e può) accedere al primo sodalizio pitagorico senza aver prima superato un rigido esame fisiognomico, giacché le forme parlano anche nella loro muta espressione.
Ma i Greci, ingenui e sensuali, avrebbero finito per trasformare l’intuito originale del Bello in astratta teoria, in postulato filosofico e in commercio carnale; troppo presto dimentichi della dottrina secreta che si cela dietro il canone della bellezza: “Il Dio tutto geometrizza” (Platone). La stirpe etrusco-romana ha invece eternato questo insegnamento sotto il segno della virtù e della disciplina: dalla quadratura del cerchio operata con l’aratro di Romolo alla marcia delle quadrate legioni ordinate secondo la decade e i suoi multipli, in Roma tutto è cratofania, forza formatrice e di dominio sul caos. Sicché davvero i suoi templi erano case divine del Nume, e dei suoi duci si poté affermare che parevano statue di bronzo appena discese dai loro piedistalli. Pathos della distanza, nulla oltre misura e concordia di forme. Virtù apollinee assegnate a Roma dalla legge di “analogia fra cielo e terra, fra intellegibile e sensibile, fra corporeo e incorporeo, fra visibile e invisibile”: “Quelle corrispondenze specifiche fra macrocosmo e microcosmo” cui “le tradizioni magiche hanno associato il simbolo del Pentagramma” (Julius Evola); luogo fisico ove l’uomo integrale partecipa delle energie cosmiche e si fa costruttore di ponti metafisici (pontifex), secondo l’insegnamento pratico che il pitagorico Domenico Angherà riassunse in una frase sola: “Il Geometra dimostra, non declama”.
Con il declino del mondo antico, nel dilagare di ateismo e barbarie, la disarmonia prese il sopravvento e il canone del Bello si occultò. Il nitore impersonale dell’optimus vir cedette all’introspezione morbosa di un io scisso; la pax deorum smarrì il suo statuto di legge sacra e santa che collega umano e divino; si affermarono culti di salvezza esasperati, evasionistici, rabbiosamente ossessivi; i templi rovinarono, al canone di Policleto e ai capolavori di Fidia, Prassitele e Alcamene succedettero immagini di una fissità malata, buia e senza prospettiva. Il mondo s’imbruttì fino a collassare nel Medioevo. Si dovette aspettare l’età dell’Umanesimo e la Rinascenza per assistere al ritorno palese della Dea Armonia fra i mortali. Luca Pacioli, Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Sandro Botticelli rappresentarono soltanto l’epifenomeno vorticoso di una corrente misterica le cui acque sorgive sgorgano dall’antro delle Ninfe di cui ci parlano Omero e Porfirio: lì dove si generano anime d’oro e alti destini. Ma anche questa stagione rorida, con la fioritura di scienze e arti che ne derivò, ebbe in sorte una vita limitata. Sopraggiunsero i roghi controriformisti, i fondali oscuri del Caravaggio e le nebbie dei fiamminghi contro i quali poco o nulla poté la sensibilità faunesca di un Nicolas Poussin.
Il dio Vertumno avrebbe dovuto volgere ancora la sua ruota per donare alla civiltà occidentale la pallida eco del neoclassicismo, fino a che il mito di Roma Eterna non si prese carico di guidare le rivoluzioni europee e sopra ogni cosa di restaurare l’Unità dell’Italia secondo gli immutabili confini augustei. Fu dunque sul finire dell’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo che le “daimoniche sorti” (Pitagora) consentirono il riaffiorare della antichissima sapienza italica sopravvissuta ai cataclismi della storia. In un clima di eroismo trionfale, germogliarono dall’immanifestato figure insigni di condottieri, artisti, archeologi e sapienti il cui volto “gianiforme” proiettava luce sulla futura, rinascente grandezza italiana nel mentre lo sguardo retrostante ammirava come sua stella polare il modello di virtù prisca; quella virtù che faceva esclamare a Cicerone essere più vicino agli Dei ciò che rimonta ai tempi più antichi.
Fra costoro è Ruggero Musmeci Ferrari Bravo, uomo d’arme e artista multiforme, cantore di Roma e propugnatore del suo primato; ma sopra tutto continuatore degli studi pitagorici applicati al mistero della suprema Bellezza: la Divina Proporzione. Come lui, accanto a lui, agirono studiosi quali Evelino Leonardi e il daco-romano Matila C. Ghyka, accomunati dalla volontà di disvelare, nel nome di Roma, la legge superiore che informa l’unità della natura. Fu anche grazie a loro che trovò risposta il monito di un altro scienziato pitagorico dell’epoca, Enrico Caporali: “L’opera di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi non potrà dirsi compiuta se non allorché le classi dirigenti sapranno pensare italicamente”.
Pensare italicamente, per Musmeci Ferrari Bravo, significò entrare in contatto con la forza sottile del Genio Italico issandosi sulla verticale del magistero antico secondo il quale la comunicazione con il mistero ineffabile di Roma può avvenire per via d’intuizione folgorante: “Poca favilla gran fiamma seconda”, suggeriva Dante. Fu così che Musmeci, già medico e giurista versato nelle arti figurative, guidato da ambienti esoterici della Capitale e accompagnato dalla Fortuna romana che sorregge il Fato, divenne ignis: poeta e tragediografo delle origini di Roma (il suo Rumon risale al 1914 ev), combattente nella Grande Guerra, cultore del Bello e scopritore del canone invisibile che ne attrae la manifestazione visibile. In due parole: Divina Proporzione, un mistero esemplificabile attraverso due frasi di origine neoplatonica. “L’occhio non vedrebbe mai il Sole se non fosse simile al Sole, né l’anima vedrebbe il Bello se non fosse bella”, è l’insegnamento del filosofo Plotino. Mentre il teurgo Proclo ci ha lasciato un frammento analogo risalente ai così detti Oracoli Caldaici: “Il noûs paterno inseminò simboli attraverso il cosmo, lui che intuisce gli intuibili, quelli che sono detti bellezze ineffabili”.
L’intuizione è come fiamma che si specchia nel Sole, da essa deriva l’antica scienza cultuale del Bello tale da ricondurre all’archetipo primigenio dell’Uomo-assoluto iscritto nel Pentalfa. Mentre “il simbolo inseminato nel mondo è l’Intuibile che si lascia cogliere come bellezza indicibile, cioè come idea, immagine, che dimora alla radice del cosmo e traspare in alcune sue forme, senza coincidere con esse. I simboli sono intuizione del Padre, e partecipano della natura connettiva di Eros, che è una emanazione del noûs paterno” (Angelo Tonelli). Se dunque la Natura non è altro che un insieme di accordi numerici intonati secondo una metrica divina, dalla decrittazione di questi accordi ignis intuì che l’armonia delle forme visibili deve obbedire a una legge radicata nell’immanifestato: ciò che abita il regno della percezione sensibile è la proiezione di una pura essenza radiante, immutabile ed eterna. Esiste infatti un modulo secreto al quale hanno mirato, ma senza attingere alla radice del “formidabile problema”, sia il canone egiziano sia quello greco-romano, sia i magi rinascimentali. Questo modello, che sancisce la “totalità ed universalità delle legge di costruzione del corpo umano e dei vertebrati”, venne scoperto sperimentalmente da ignis e designato con la formula alfa-numerologica del “Ap-ro-fo”.
Dalla scoperta dell’aureo modulo, ignis fece discendere un’architettura iero-fisio-logica composta di LV proposizioni, fra assiomi e corollari, le così dette ignisleges, la prima delle quali recita: “L’ap – oppure ro – oppure fo – è il modulo del canone di misura per il corpo umano prescelto dal Divino Architetto nella costruzione del corpo nostro – su cui si giunge con lo stesso principio – salendo l’intera scala zoologica”. La seconda precisa: “Tutta l’umanità – nelle infinite ed imprecisabili sue variazioni individuali – è costituita secondo l’archetipo o prototipo ideale del Divino Architetto”. La quarta sviluppa: “Ogni individuo umano tende – nei due sessi per una forza divina-ignota-misteriosa – a raggiungere l’Archetipo (unico) pur restandone più, o meno, lontano sempre”. Ne segue che “Natura e arte, con reciproco controllo, tendono all’Archetipo mai totalmente e coscientemente raggiunto, fino ad oggi, ed oggi svelato nel mio ap=ro=fo” (VII). Sicché “all’umanità l’arte è necessaria, per poter vivere, quanto l’aria da respirare”.
In questa estrema istanza umana di vita, che al tempo stesso è natura ed è arte, si condensa il progetto di un’esistenza intera protesa verso l’unità primigenia dell’uomo antico. “Filosoficamente, e scientificamente”, scriverà Musmeci nei suoi “Appunti sulla Divina Proporzione”, “l’Uomo è Uno”: quel Re-bis (res bina) il quale, pel tramite di Eros (il metaxù del Simposio platonico, strumento della legge d’attrazione universale custodita da Venere), ha finalmente ricongiunto in sé medesimo la doppia natura maschile e femminile: “Teoricamente, a priori, non si dovrebbe negare la possibilità di un Ermafrodito perfetto” (XVI), poiché “in ogni accoppiamento riproduttivo vi è una oscura, ma sicura aspirazione ad un prodotto che, sommando le qualità individuali dei due elementi della fecondazione, riesca somaticamente ed esteticamente superiore ai genitori” (XXX). Il risultato di tale pre-tensione del “nostro innato senso della bellezza” essendo la scoperta di “leggi cui non si può giungere affatto con il raziocinio, leggi che solo si sentono” (XLII), ignis si mise dunque all’opera nel suo studio romano di via del Vantaggio.
Dall’autofecondazione, entro lo stesso ingegno, di una volontà possente penetrata nella corrente astrale dell’immaginazione creatrice, nacquero le due opere immense di ignis: il busto di “Romolo” e quello della “Venere delle Perle”. Demiurgo dei suoi tempi (Inflammare è il suo motto e la fiamma il suo sigillo), l’8 giugno del 1928 ev, davanti a colleghi, artisti e scienziati, Musmeci offrì una prova empirica della sua “opera che onora il genio italiano”, mostrando agli sguardi ammirati le sue sculture: il “Romi Caput” e il “Veneris Caput”, modellati sulla base dell’autentico canone aureo. Nei busti – scolpiti con “identici punti di misura” – è racchiuso l’Arcano: Romolo è l’eroe solare disceso dal fuoco di Marte; Venere è la Genitrice delle anime eroiche destinate a riunirsi con la sua perfetta bellezza; Roma è la sede fatale del loro incontro. La Maestà del Re d’Italia non mancò di plaudire di persona alla novella ierofania che realizzava, in piena età oscura, il secreto accennato da Platone nella Repubblica: “Per la prole divina il periodo fecondo è racchiuso da un numero perfetto, per quella umana…”.
Colto dal vortice della stessa corrente psichica, nonché amico e corrispondente di Musmeci, nello stesso periodo si attivò il romeno Matila C. Ghyka: “La sezione aurea l’ho ritrovata in biologia, spesso sotto forma di schema numerico, quasi fosse un sintetico simbolo delle forme viventi, in qualche modo opposto agli schemi d’equilibrio cristallini delle forme non viventi, esprimente la pulsazione della crescita; tale ‘numero d’oro’ riassume aritmeticamente e algebricamente le proprietà della ‘stella a cinque punte’”.
Pentalfa o Pentagramma pitagorico, Stella fosforeggiante del mattino, sigillo di Venere che protegge l’Italia Turrita; inizio e compimento dell’indagine di Ghyka fu non a caso “il segno di riconoscimento geometrico pitagorico”, di quel sodalizio che “fu una sorta di ‘Fascismo esoterico’ formato da tre categorie di iniziati: i filosofi contemplativi (i matematici), i nomotèti (quei filosofi che dirigevano l’attività sociale e politica della Confraternita dando istruzioni alla terza categoria), e infine i ‘politici’ (non ancora arrivati alla perfetta purezza), funzionari esecutivi e di collegamento”. Quasi avesse sotto gli occhi le sculture di ignis, Ghyka affermò: “Constatiamo immediatamente che in Italia la tradizione pitagorica non si è mai interrotta”.
A conclusioni pressoché identiche pervenne Evelino Leonardi: nota è l’usanza rituale del saluto pitagorico al Sole mattutino, chiaro deve allora risultare che “i ritmi solari plasmano, secondo leggi numeriche e geometriche, tanto i minerali che i vegetali, tanto gli animali che gli uomini. […] Le stesse formazioni geologiche e le forme risultanti sono come lo scheletro del paesaggio e rappresentano, per così dire, lo stampo del conflitto delle forze naturali di cui denunciano l’intensità, fissandone il ricordo”. Sonorità luminose in reciproca, armonica tensione di opposte energie che si cristallizzano in materia: ecco la trama corrusca del cosmo. “E questa – aggiunge Leonardi – è la natura della proporzione che gli autori antichi, da Platone a Pitagora, da Leonardo a Luca Pacioli, chiamarono Numero puro, Armonia delle sfere, Sezione dorata, Divina proporzione. Questa legge, riferita al corpo umano, segna l’ombelico come il punto che lo divide in due parti di diversa lunghezza. E quindi la sezione dorata, la divina proporzione (dall’ombelico ai piedi) divisa per la proporzione minore (dalla testa all’ombelico) deve essere uguale alla lunghezza totale del corpo divisa per la proporzione più grande”.
Anche per Leonardi il mistero aureo si risolve nel numero V: “Geometricamente questa proporzione si traduce nel pentagono. ‘Et senza il suo suffragio, non se possa mai formare il pentagono’, dice Luca Pacioli. Infatti, nella mistica numerica di Pitagora il numero Cinque formava la Pentade o Numero di Afrodite composto di un numero matrice o femminile che è il due e di un numero maschio che è il tre. Il numero Cinque è stato dunque sempre ritenuto come una specie di chiave di volta per le conoscenze profonde dei misteri della vita”. Al punto che “come nel nostro pianeta i minerali si condensarono in cinque grandi gruppi che formarono i cinque continenti, così, per l’armonia dell’Universo, anche i cinque elementi semplici si strinsero nel mondo microscopico per formare la cellula del protoplasma vivente: Carbonio, Hidrogeno, Azoto, Ossigeno, Solfo. E’ una combinazione che le rispettive iniziali di questi cinque elementi formino la parola CHAOS?”.
Non è una combinazione, come non lo è la circostanza che il superno Dio romano degli inizi, Giano Padre, si presentasse così a Ovidio nei suoi Fasti: “Me Chaos gli antichi chiamavano”. Né è casuale che Giano fosse titolare, insieme con Saturno, dell’evo primigenio nel quale “numero umano” e “numero divino” coincidevano: l’età dell’Oro. Ma, come insegnano gli ermetisti, jerofanti di Ermete Pelasgo: non si può fare dell’Oro se non se ne ha già; e non si può avere dell’Oro se non arde una fiamma. Si deve dunque INFLAMMARE.
INFLAMMARE è il titolo della mostra sulla vita e le opere di Ruggero Musmeci Ferrari Bravo (Palermo 1868-Roma 1937), ripercorse attraverso i documenti e le sculture presenti nell’archivio dell’Istituto Nazionale di Studi Romani.
L’esposizione si terrà nella Sala della Presidenza della sede romana dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, sul Colle Aventino, in piazza dei Cavalieri di Malta 2, da lunedì 12 a venerdì 16 dicembre 2011, dalle ore 9 alle 14. L’ingresso è libero, info: studiromani@studiromani.it. Comitato organizzatore: Fabrizio Giorgio, Alessandro Giuli, Michele Bianco, Vittorio Sorci, Alessandro Villanti, Sandro Bellucci.
 


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