giovedì 26 luglio 2012

Come salvare l’Europa


Non il solito attacco speculativo


Da Soros e dagli autorevoli economisti del giro viene un appello (montiano) alla condivisione di debiti e responsabilità tra Bce e stati

Pubblichiamo ampi stralci di “Uscire dallo stallo, un sentiero fuori dalla crisi”, il manifesto pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking (INET) sull’attuale situazione europea.
E’  ancora possibile – dal punto di vista economico e politico – trovare una via d’uscita per la crisi dell’Eurozona se i politici gestiscono separatamente due questioni: affrontare i costi ereditati dalla concezione originaria dell’Eurozona, e raddrizzare questa stessa concezione. Il primo punto richiede significative ripartizioni degli obiettivi nazionali e una strategia economica focalizzata sulla stabilizzazione dei paesi attualmente sofferenti per recessione e fuga di capitali. Il secondo punto richiede invece un’unione fiscale e bancaria con solide istituzioni all’interno dell’area euro e una forma minima di prestatore di ultima istanza.
1. Siamo convinti che in questo momento, nel luglio 2012, l’Europa stia camminando come un sonnambulo nella direzione di un disastro di proporzioni incalcolabili. Nelle ultime settimane, la situazione nei paesi debitori si è deteriorata drammaticamente. Il senso di una crisi senza via d’uscita, con un effetto domino da un paese all’altro, dev’essere ribaltato. L’ultima tessera del domino, la Spagna, ha i giorni contati prima di una crisi di liquidità, secondo il suo stesso ministro delle Finanze. Questa situazione drammatica è il risultato del sistema dell’euro, com’è attualmente costruito, e decisamente non più funzionante. La causa è un fallimento sistemico che ha esacerbato prima un boom di flussi di capitale e credito, e poi ha complicato le conseguenze dello stesso boom, trasformatosi nello scoppio della bolla. E’ responsabilità di tutti i paesi europei che hanno contribuito a questo meccanismo fallace quella di contribuire adesso alla sua soluzione; questo non vuol dire che i costi della crisi debbano essere suddivisi tra i cittadini dell’Eurozona; il fallimento sistemico non assolve dalle proprie responsabilità i decisori, le banche, gli organi di controllo che presero o consentirono scelte di credito e indebitamento imprudenti. Significa però che il modo con cui i mercati stanno adesso mettendo in atto punizioni contro nazioni specifiche è una misera risposta, e che invece una reazione efficace alla crisi dovrebbe essere collettiva e prevedere una condivisione di responsabilità tra paesi. In mancanza di ciò, l’euro si disintegrerà.
2. I leader europei riconoscono il bisogno di una risposta collettiva. Fino a oggi l’Eurozona è scivolata verso il break-up per diversi mesi nonostante le incalcolabili perdite e le sofferenze umane che ciò ha comportato. Causa di ciò è stato il mancato accordo tra paesi in attivo e paesi in deficit su un piano d’azione che rassicurasse sia i mercati finanziari sia tenesse in considerazione i bisogni dei cittadini in entrambi i tipi di paesi. Recessioni sempre più pesanti e alta disoccupazione stanno incidendo sullo stato sociale nei paesi in deficit e causando enormi ed evitabili sofferenze umane. Alleviare queste dovrebbe essere la priorità per i politici dell’Eurozona. Inoltre, la sensazione che non ci sia una luce alla fine del tunnel sta deteriorando il livello di sostegno dei cittadini a misure di controllo della spesa e di riforme strutturali, oltre a incentivare fughe di capitali. Allo stesso tempo, l’idea che nei paesi a rischio le riforme possano avvenire solo sotto pressione mette a rischio, nei paesi invece virtuosi, il consenso attorno a misure anticrisi più efficaci. Mentre negli stati periferici diventa più difficile raddrizzare i conti, al nord diventa più arduo ottenere consenso su questi sforzi. Risolvere la crisi attuale non è un gioco a somma zero. Al contrario, è una scelta in cui si vince entrambi, creditori e debitori. Le perdite economiche e politiche che la fine dell’euro comporterebbe sono probabilmente di un ordine di grandezza maggiore dei potenziali trasferimenti resi necessari per risolvere i problemi ereditati dalla struttura dell’euro. (…)

Una soluzione raggiungibile di lungo periodo 

Controlli fiscali. Un rilevante passo avanti per scoraggiare il “free riding” fiscale è il Fiscal compact del marzo 2012, che cerca di inglobare le regole europee nelle legislazioni nazionali, pur mantenendo un po’ di spazio di manovra per politiche anticicliche. Tuttavia, nel contesto delle democrazie nazionali, le regole fiscali non possono essere credibili al 100 per cento poiché le leggi possono essere sempre cambiate tramite una decisione del Parlamento, questa è l’essenza della democrazia. Il Fiscal compact ha fatto tutto il possibile per assicurare che le sue regole siano osservate e rispettate sia pur nel contesto democratico di ogni stato sovrano. Queste tensioni diminuirebbero, o cesserebbero del tutto, in presenza di un’unione politica federale. Alcuni membri del Consiglio (dell’Inet, ndr) vedono in una mossa verso l’unione federale il necessario sviluppo dell’area euro. Nel breve periodo, le esternalità associate a deviazioni dalle norme fiscali approvate a livello nazionale devono essere contenute tramite livelli di aggiustamento automatici. Per esempio, alcune aliquote Iva potrebbero cambiare, o alcuni limiti alla spesa pubblica potrebbero venire imposti. Il Consiglio ritiene che il Fiscal compact debba permettere spazio maggiore per politiche fiscali anticicliche: dato che aggiustamenti automatici a livello di Eurozona sono già in atto, non dovrebbero esserci molte obiezioni a permettere a paesi in profonda recessione di mettere in atto politiche di stimolo più forti di quelle permesse attualmente dal compact. Per consentire un controllo democratico, l’istituzione incaricata della sorveglianza fiscale dovrebbe essere controllabile a sua volta dal Parlamento europeo.

Un prestatore di ultima istanza per i governi
 che rispettino il Fiscal compact. Idealmente, dovrebbe essere la Banca centrale europea (Bce). Il nuovo Fondo salva stati (Esm) sarà pure in grado di svolgere questo ruolo, nonostante le sue limitazioni allo stato attuale, una volta che il livello di debiti sovrani sarà ridotto significativamente da quello attuale, e quando le fughe di capitali tra stati saranno mitigate (…). Consentire all’Esm di avere sufficiente potenza di fuoco per centrare i suoi obiettivi richiede che gli venga data una licenza bancaria in modo che possa approvvigionarsi a tassi favorevoli dalla Bce. (…)

Misure urgenti di breve periodo

Le riforme istituzionali di cui si è scritto sarebbero sufficienti a mettere l’Eurozona su un terreno solido solo se accompagnate da un efficace processo di aggiustamento che neutralizzi gli alti livelli di debito e le perdite di competitività accumulate durante la crisi e anche nei periodi precedenti in un numero di paesi. Il dilemma è come fare ciò nel mezzo di una recessione che sta iniziando a portare molte società verso il punto di rottura, anche alla luce  del potere e della dimensione (e finora dello scetticismo) dei mercati finanziari. La risposta deve coinvolgere una combinazione di misure straordinarie che includano riforme fiscali strutturali mirate a minimizzare i costi immediati sul pil dei tassi reali di cambio e degli aggiustamenti fiscali, il sostegno dai Fondi esistenti (l’Efsf e l’Esm), un sostegno ulteriore da parte dei paesi in attivo, ristrutturazioni volontarie del debito, un ruolo eccezionale della Bce ed eccezionali misure d’emergenza di politica economica e monetaria.

Messa in comune parziale e temporanea del debito pregresso. Il debito “ereditato” è in parte il risultato del cattivo progetto dell’euro, così come di pessime politiche degli stati membri insieme alle forti pressioni esercitate dalla crisi finanziaria del 2007-2008. Il nostro gruppo ha negato il bisogno di una vasta e permanente mutualizzazione dei debiti sovrani come necessaria caratteristica dell’Eurozona. Tuttavia, affrontare problemi ereditati richiede un sostegno ufficiale per i paesi che cercano di mettere in sicurezza i loro conti. Il nostro Consiglio appoggia le proposte del Consiglio degli esperti economici tedeschi, di concedere progressivamente una garanzia sul debito pregresso per i paesi che perseguono un’adeguata messa in sicurezza dei conti sotto la procedura di deficit eccessivo prevista dalla Ue. Come giusto incentivo, si potrebbe dare forma a una garanzia sulle nuove emissioni di debito fino a una certa soglia prefissata. L’agenzia inizialmente preposta a questi acquisti potrebbe essere l’Efsf/Esm, supportata da un impegno Ue a un più vasto “redemption fund” garantito o da ulteriore capitale o dal potere di stampare moneta sotto una garanzia congiunta, se ciò fosse necessario. L’Esm potrebbe anche ricevere una licenza bancaria per dimostrare che ha adeguata potenza di fuoco, o se la sua capacità di farsi imprestare denaro direttamente dalla Bce fosse considerata in violazione del Trattato, il suo debito potrebbe essere strumento primario negli acquisti sul mercato secondario della Bce. Ristrutturazioni volontarie del debito potrebbero consistere in uno swap tra titoli vecchi e nuovi con lo stesso valore nominale ma con scadenze allungate (per esempio, di 5 anni).

 Riforme strutturali su cui concentrarsi: 1) riforme finalizzate a ripristinare la solvibilità senza pesare sulla produzione (per esempio, aumentare l’età pensionabile); 2) riforme che possano comportare costi sul pil o costi fiscali nel breve ma che creino miglioramenti sui conti e sulla competitività nel lungo periodo (per esempio, riduzione del personale della Pubblica amministrazione, riforme nel mercato del lavoro); e 3) “svalutazioni fiscali” che abbassino i costi fiscali sul lavoro in maniera neutrale (essenzialmente, sostituendo tasse sul lavoro con imposte indirette). Il secondo gruppo di misure potrebbe essere finanziato (e il suo impatto controbilanciato) da una combinazione di trasferimenti diretti dal bilancio Ue e prestiti a basso costo dall’Efsf/Esm.
Ruolo provvisorio della Bce nella crisi. Mettere in atto tutti i succitati meccanismi necessiterà di tempo. Passi convincenti verso un’unione bancaria e un piano di medio termine di riduzione del debito supportato da garanzie temporanee darebbero alla Bce lo spazio per agire più efficacemente sul mercato del debito sovrano e anche nel comunicare ai mercati che questo strumento verrà attivamente utilizzato. In particolare, visto che il Fiscal compact ha fatto molto per assicurare l’impegno di una regola fiscale e di una credibilità all’interno del contesto democratico di ogni stato sovrano, e visto che nei casi di Spagna e Italia siamo in presenza di crisi che si autoalimentano, crediamo che la Bce potrebbe e dovrebbe impegnarsi in interventi molto più vasti sul mercato dei titoli di paesi che stanno rispettando i loro impegni. Crediamo che questo intervento sia una condizione per far funzionare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria in tutti gli stati membri, e che questo sia in linea con il mandato della stessa Bce.

Misure macroeconomiche e monetarie d’emergenza.
 Ogni piano di miglioramento dei prezzi relativi di questa portata deve evitare la deflazione in ogni paese, che aggraverebbe lo stock di debito. Così la crescita dei prezzi nei paesi in attivo non può essere così lenta da arrivare alla deflazione, accanto a una larga schiera di paesi in deficit già all’apice della recessione. La Bce deve usare qualunque mezzo (convenzionale e non convenzionale) per assicurare una più omogenea trasmissione della politica monetaria. Come ha suggerito il Fondo monetario internazionale (Fmi), la politica monetaria dovrebbe essere accomodante in questo periodo emergenziale, utilizzando politiche convenzionali e non, per supportare il pil nominale e facilitare gli aggiustamenti dei tassi di cambio reale di cui c’è bisogno. I paesi in surplus con “spazio” fiscale dovrebbero utilizzare questo spazio per aiutare a sostenere la domanda aggregata nell’Eurozona presa nel suo totale. E gli stati membri dell’euro dovrebbero vedere urgentemente se c’è modo per le istituzioni europee di agire più efficacemente per la crescita economica di tutta l’area. L’orizzonte temporale previsto per queste misure straordinarie potrebbe essere di circa cinque anni. Dopo questa fase iniziale, la riduzione del debito pubblico in linea con le regole fiscali Ue avrebbe bisogno di continuare in alcuni dei paesi ad alto debito, come l’Italia. Tuttavia, presumiamo che coi benefici di una ripresa economica e di misure strutturali già intraprese, la continuativa riduzione del debito potrebbe avvenire senza supporto finanziario esterno. Dunque, per rassicurare i cittadini dei paesi creditori che il contributo finanziario – in particolar modo per supportare i prezzi delle nuove emissioni di debito nei paesi in deficit – non si trasformerà in un pozzo senza fondo, ci potrebbe essere un limite concordato a un periodo non superiore a cinque anni.
(traduzione di Michele Masneri)

***

I firmatari

Patrick Artus (Global Chief Economist,  Natixis - Banque de Financement et d’Investissement), Erik Berglof (Chief Economist and Special Adviser to the President, European Bank for Reconstruction and Development), Peter Bofinger (professore dell’Università di Würzburg), Giancarlo Corsetti (professore dell’Università di Cambridge), Paul De Grauwe (professore London School of Economics e Political Science), Guillermo de la Dehesa (presidente del Centre for Economic Policy Research (Cepr), Lars Feld (professore di Politica economica all’Università di Friburgo), Jean-Paul Fitoussi (professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi), Luis Garicano (professore di Economia e strategia, London School of Economics), Daniel Gros (direttore del Centre for European Policy Studies (Ceps)), Kevin O’Rourke (professore di Storia economica, università di Oxford), Lucrezia Reichlin (professore di Economia, London Business School), Hélène Rey (professore di Economia, London Business School), André Sapir (Senior Fellow, Bruegel), Dennis Snower (presidente del Kiel Institute for the World Economy), Beatrice Weder di Mauro (professore di Economia, Johannes Gutenberg University of Mainz).

L’ambizioso approccio europeo del “tirare avanti”, by Janis A. Emmanouilidis


A seguito dell’intensificarsi della crisi dell’euro e delle decisioni prese all’ultimo vertice dell’UE, in particolar modo dell’impegno dei leder europei a intraprendere la strada “verso un’unione monetaria ed economica vera", è giunto il momento di chiedersi cosa succederà adesso. Indipendentemente dal risultato finale, l’attuale crisi delineerà infatti il futuro dell’integrazione europea.
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CommentsNello scenario peggiore, la crisi del debito sovrano potrebbe provocare un’implosione dell’eurozona con effetti negativi immediati sulla stessa UE. Fortunatamente, questo scenario continua a rimanere improbabile vista la volontà da parte dei paesi UE, sia all’interno che all’esterno dell’eurozona, di evitare un enorme collasso economico, finanziario, politico e sociale che un simile contesto implicherebbe. Tuttavia, il pericolo di una disintegrazione è aumentato nel tempo, ed oggi un simile contesto non può più essere del tutto escluso.
CommentsAllo stesso tempo, sembra improbabile che gli stati membri siano pronti e in grado di fare un salto enorme verso un’ “unione di stati dell’Europa”, ovvero un vera e propria entità federale in cui i paesi dell’UE accettino di rinunciare alla propria sovranità nazionale su una scala senza precedenti.
CommentsI dati registrati sin dal 2010 suggeriscono che l’approccio del “tirare avanti” rimarrà la prassi dominante dell’UE nel futuro immediato. Ma, contrariamente al passato, le pressioni sempre più forti sull’esistenza della valuta unica e lo scrutinio costante da parte dei mercati e dei cittadini richiederà delle risposte coraggiose sul fronte delle politiche che vadano al di là del più basso comune denominatore.
CommentsMa in fin dei conti, l’ambizioso approccio del “tirare avanti” porterà, molto probabilmente, ad un livello più alto di integrazione fiscale ed economica sui generis(in particolar modo nei paesi dell’eurozona), con una sincronizzazione vincolante dei budget nazionali, un maggior coordinamento economico e, nel tempo, anche un forma limitata di mutualizzazione del debito. In altre parole, la risoluzione della crisi richiederà “più Europa”, sebbene sia impossibile prevedere il risultato finale in quanto derivante da un processo complesso mirato a conciliare posizioni divergenti e opposte sia all’interno dell’UE che tra i paesi dell’eurozona.
CommentsI leader dell’UE hanno chiesto ad Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, di sviluppare, in collaborazione con i presidenti della Commissione europea, l’Eurogruppo e la Banca Centrale Europea, una road map per ottenere un’ “unione monetaria ed economica vera”. Il rapporto finale, previsto per dicembre 2012, dovrebbe individuare i nuovi passi da intraprendere sulla base dei trattati UE e le misure che richiedono invece eventuali modifiche ai trattati. 
CommentsVista l’urgenza della crisi, alcuni dei passi più immediati verso un livello più elevato di integrazione fiscale ed economica, non attuabili sulla base dei trattati UE attualmente in vigore, potrebbero richiedere ulteriori disposizioni intergovernative al di fuori del quadro normativo dei trattati UE. Un simile approccio non dovrebbe essere un obiettivo in sé, ma potrebbe essere un male necessario per evitare il pericolo di un’implosione dell’euro.
CommentsMa al fine di recuperare la coerenza istituzionale, la certezza legale e la responsabilità democratica, gli elementi chiave del “fiscal compact” e qualsiasi altro accordo futuro tra UE e governi dovrebbero essere incorporati quanto prima nell’insieme delle leggi fondamentali dell’UE. Il passaggio ad un’unione monetaria ed economica vera richiederà anche nuove essenziali riforme istituzionali. Questo processo non potrà limitarsi ai governi, ma dovrà coinvolgere anche il Parlamento europeo ed i parlamenti nazionali all’interno di una nuova Convenzione europea.
CommentsUn livello più elevato di integrazione economica, fiscale e politica comporterà forzatamente una modifica alle costituzioni nazionali. La ratifica di un nuovo trattato europeo e l’adattamento delle costituzioni nazionali implicheranno inevitabilmente un referendum in diversi paesi. Ma visto il rifiuto da parte degli elettori olandesi e francesi del Trattato Costituzionale dell’UE nel 2005, e la crescente frustrazione dei cittadini europei nei confronti dell’Unione e della gestione della sua crisi, il risultato sarebbe alquanto incerto. Si tratta comunque di un rischio che bisogna correre. In effetti, il pericolo di un’implosione dell’euro o di una potenziale uscita dalla valuta unica potrebbe essere un’argomentazione sufficientemente forte da “persuadere” la maggior parte degli europei a votare sì.
CommentsL’approccio ambizioso del “tirare avanti” sarà lungo, accidentato e a volte rischioso e finirà, probabilmente, per arrivare ad un punto molto diverso rispetto alle aspettative attuali. Ma prima che l’UE si imbarchi in un viaggio inevitabile ed incerto, le sue istituzioni ed i suoi stati membri (sostenuti attivamente dalla BCE!) dovrebbero tessere una rete di sicurezza in grado di proteggere l’euro e l’Unione stessa da eventuali cadute nei momenti più difficili negli anni a venire.
CommentsDopotutto, la crisi del debito continuerà molto probabilmente a creare delle pressioni immediate a livello economico, fiscale e di mercato. Inoltre, l’UE ed i suoi membri dovranno anche sempre più gestire il danno collaterale provocato dalla crisi e le sue conseguenze non intenzionali e inaspettate a livello europeo e nazionale.
CommentsQuesto danno potrebbe implicare un aumento del nazionalismo e del populismo anti-euro e anti-UE, sfide sociali sempre più grandi in diversi stati membri, un crescente “deficit democratico” sia a livello nazionale che europeo, un’atmosfera malsana tra stati membri e la mancanza di una coalizione tra leader proattiva, stabile che spinga nella stessa direzione. Tutti questi elementi potrebbero portare ad un punto morto che, nell’attuale contesto, sarebbe equivalente ad una regressione che metterebbe a rischio non solo le prospettive future di integrazione europea, ma anche i risultati del passato. 
In queste circostanze, l’approccio ambizioso del “tirare avanti” è lo scenario più probabile e più promettente. Non sarà facile e non ci sarà tempo per la compiacenza dato che l’UE rimarrà molto probabilmente ancora a lungo in una situazione di crisi. Ma è in ogni caso l’unico modo, probabilmente, per continuare a far progredire l’Europa.

Europe’s Divided Visionaries, by Barry Eichengreen


Europe’s leaders, unlike former US President George H. W. Bush, have never had trouble with the “vision thing.” They have always known what they want their continent to be. But having a vision is not the same as implementing it. And, when it comes to putting their ideas into practice, the European Union’s leaders have fallen short repeatedly.
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CommentsThis tension between Europeans’ goals and their ability to achieve them is playing out again in the wake of the recent EU summit. Europe’s leaders now agree on a vision of what the EU should become: an economic and monetary union complemented by a banking union, a fiscal union, and a political union. The trouble starts as soon as the discussion moves on to how – and especially when – the last three should be established.
CommentsBanking union, Europe’s leaders agreed, means creating a single supervisory authority. It means establishing a common deposit-insurance scheme and a mechanism for closing down insolvent financial institutions. It means giving the EU’s rescue facilities the power to inject funds directly into undercapitalized banks.
CommentsLikewise, fiscal union means giving the European Commission (or, alternatively, a European Treasury) the authority to veto national budgets. It means that some portion of members’ debts will be mutualized: individual governments’ debts would become Eurobonds, and thus a joint obligation of all members. The Commission (or Treasury) would then decide how many additional Eurobonds to issue and on whose behalf.
CommentsFinally, political union means transferring the prerogatives of national legislatures to the European Parliament, which would then decide how to structure Europe’s fiscal, banking, and monetary union. Those responsible for the EU’s day-to-day operations, including the Board of the European Central Bank, would be accountable to the Parliament, which could dismiss them for failing to carry out their mandates.
CommentsVision aplenty. The problem is that there are two diametrically opposed approaches to implementing it. One strategy assumes that Europe desperately needs the policies of this deeper union now. It cannot wait to inject capital into the banks. It must take immediate steps toward debt mutualization. It needs either the ECB or an expanded European Stability Mechanism to purchase distressed governments’ bonds today.   
CommentsOver time, according to this view, Europe could build the institutions needed to complement these policies. It could create a single bank supervisor, enhance the European Commission’s powers, or create a European Treasury. Likewise, it could strengthen the European Parliament. But building institutions takes time, which is in dangerously short supply, given the risk of bank runs, sovereign-debt crises, and the collapse of the single currency. That is why the new policies must come first.
CommentsThe other view is that to proceed with the new policies before the new institutions are in place would be reckless. Mutualizing debts before European institutions have a veto over fiscal policies would only encourage more reckless behavior by national governments. Proceeding with capital injections before the single supervisor is in place would only encourage more risk taking. And allowing the ECB to supervise the banks before the European Parliament acquires the power to hold it accountable would only deepen the EU’s democratic deficit and provoke a backlash.
CommentsEurope has been here before – in the 1990’s, when the decision was taken to establish the euro. At that time, there were two schools of thought. One camp argued that it would be reckless to create a monetary union before economic policies had converged and institutional reforms were complete.
CommentsThe other school, by contrast, worried that the existing monetary system was rigid, brittle, and prone to crisis. Europe could not wait to complete the institution-building process. It was better to create the euro sooner rather than later, with the relevant reforms and institutions to follow. At the slight risk of overgeneralization, one can say that the first camp was made up mainly of northern Europeans, while the second was dominated by the south.
CommentsThe 1992 exchange-rate crisis then tipped the balance. Once Europe’s exchange-rate system blew up, the southerners’ argument that Europe could not afford to postpone creating the euro carried the day.
CommentsThe consequences have not been happy. Monetary union without banking, fiscal, and political union has been a disaster.
But not proceeding would also have been a disaster. The 1992 crisis proved that the existing system was unstable. Not moving forward to the euro would have set up Europe for even more disruptive crises. That is why European leaders took the ambitious steps that they did.
Not proceeding now with bank recapitalization and government bond purchases would similarly lead to disaster. Europe thus finds itself in a familiar bind. The only way out is to accelerate the institution-building process significantly. Doing so will not be easy. But disaster does not wait.

What Role for the State?, by Kemal Derviş


The financial crisis of 2008 has spurred a global debate on how much government regulation of markets – and what kind – is appropriate. In the United States, it is a key theme in the upcoming presidential election, and it is shaping politics in Europe and emerging markets as well.
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Illustration by Barrie Maguire
CommentsFor starters, China’s impressive growth performance over the last three decades has given the world an economically successful example of what many call “state capitalism.” Brazil’s development policies have also accorded a strong role to the state.
CommentsQuestions concerning the state’s size and the sustainable role of government are central to the debate over the eurozone’s fate as well. Many critics of Europe, particularly in the US, link the euro crisis to the outsize role of government there, though the Scandinavian countries are doing well, despite high public spending. In France, the new center-left government faces the challenge of delivering on its promise of strengthening social solidarity while substantially reducing the budget deficit.
CommentsAlongside the mostly economic arguments about the role of government, many countries are experiencing widespread disillusionment with politics and a growing distance between citizens and government (particularly national government). In many countries, participation rates in national elections are falling, and new parties and movements, such as the Pirate Party in Germany and the Five Star Movement in Italy, reflect strong discontent with existing governance.
CommentsIn the US, the approval rating of Congress is at a record-low of 14%. Many there, such as my colleague Bruce Katz at the Brookings Institution, believe that the only solution is to bring a larger share of governance and policy initiation to the state and municipal level, in close partnership with the private sector and civil society.
CommentsBut that approach, too, might have a downside. Consider Spain, where too much fiscal decentralization to regional governments contributed significantly to weakening otherwise strong public finances.
CommentsA crucial problem for this global debate is that, despite the realities of twenty-first-century technology and globalization, it is still conducted largely as if governance and public policy were almost exclusively the domain of the nation-state. To adapt the debate to the real challenges that we face, we should focus on four levels of governance and identify the most appropriate allocation of public-policy functions to them.
CommentsFirst, many policies – including support for local infrastructure, land zoning, facilitation of industrial production and training, traffic ordinances, and environmental regulations – can largely be determined at the local or metropolitan level and reflect the wishes of a local electorate.
CommentsOf course, defense and foreign policy will continue to be conducted primarily at the second level – the nation-state. Most nation-states maintain national currencies, and must therefore pursue fiscal and economic policies that support a monetary union. As the eurozone crisis has starkly reminded us, decentralization cannot extend too far into the budgetary sphere, lest it threaten the common currency’s survival.
CommentsThe US system is manageable, because the American states are largely constrained to running balanced budgets, while the federal government accounts for most fiscal policy. Moreover, banking regulation and deposit insurance are centralized in the US, as they must be in a monetary union. The eurozone has finally recognized this.
CommentsSo, governance at the nation-state level remains hugely important and is intimately linked to monetary sovereignty. The key problem in Europe today is whether eurozone members will advance towards something resembling a federal nation-state. Unless they do, it is difficult to see how the common currency can survive.
CommentsThere is also a third, regional or continental, level of governance, which is most advanced in the European Union (and is being tested in Latin America, Africa, and Asia) and can be very useful. Customs unions, free-trade areas, or a single market, as in Europe, allow greater mobility of goods and services, which can lead to benefits from economies of scale that remaining trade impediments at the global level do not permit. Europe’s borderless Schengen Area is another example of regional supra-national governance. There are also aspects of infrastructure that can best be addressed at the continental level.
CommentsFinally, there is the global level. The spread of infectious disease, global trade and finance, climate change, nuclear non-proliferation, counterterrorism, and cyber security are just some of the issues that require broad international cooperation and global governance.
CommentsIn today’s interdependent world, the debate about the role of public policy, the size and functions of government, and the legitimacy of public decision-making should be conducted with the four levels of governance much more clearly in focus. The levels often will overlap (infrastructure and clean energy issues, for example), but democracy could be greatly strengthened if the issues were linked to the levels at which decisions can best be taken.
As Pascal Lamy, the director of the World Trade Organization, has said, it is not only the “local” that has to be brought to the “global”; the inherently “local” political sphere has to internalize the global or regional context. That is a huge challenge for political leadership and communication, but, if it is not met, democracy and globalization will be difficult to reconcile. How to conduct democratic debate with reference to these local, national, continental, and global levels, and to structure a political space that better reflects economic and social space, will be the great challenge of the decades ahead.

martedì 24 luglio 2012

Guida pratica per uscire dall’euro, di Michele Masneri


Il concorso a premi per consigliare Atene (e noi tutti) sul break-up

Oggi la Troika, cioè il terzetto composto da emissari del Fondo monetario internazionale, della Banca centrale europea e della Commissione di Bruxelles sarà nuovamente ad Atene in un clima sempre più incerto. Ieri il Fmi in una nota ha precisato di stare “appoggiando la Grecia per permetterle di superare le proprie difficoltà economiche”. Ma nei giorni scorsi erano filtrate indiscrezioni di alto livello circa un possibile disimpegno proprio del Fondo. Anche dal governo di Berlino, ieri, trapelava la volontà di non impegnarsi ulteriormente nel sostenere la Grecia.
Insomma, scenario pesantissimo quello che si prospetta per Atene, ma nel frattempo qualcuno ha pensato bene di studiare una guida pratica, una specie di Baedeker per Atene, mostrando esattamente che cosa succederà e in che tempi per il paese che uscirà dalla moneta unica. Lo ha fatto la società di consulenza Capital Economics, una delle più importanti del mondo, presentando un documento di centoquarantadue pagine intitolato “Lasciare l’euro. Una guida pratica”, che ha vinto un importante premio economico britannico, il Wolfson Prize.
Il premio, di 250 mila sterline, secondo solo al Nobel per generosità, è sponsorizzato dal Charles Wolfson Charitable Trust che fa capo a sua volta alla famiglia Wolfson, proprietaria del marchio di abbigliamento Next e con un interesse molto sviluppato per la politica. Simon Wolfson, quarantaquattrenne, è direttore generale di Next ma soprattutto è un membro preminente della Camera dei Lord (nelle file dei Tories guidati oggi dal premier David Cameron).
Ammesso nel 2010 alla Camera alta del regno, Wolfson secondo il Telegraph è una delle 100 teste più interessanti dei conservatori inglesi. E’ stato uno dei maggiori contribuenti alla campagna elettorale 2005 dell’attuale primo ministro David Cameron oltre che condirettore della commissione sulla Competitività predisposta dallo stesso Partito conservatore. E’ stato anche uno dei trentacinque firmatari di una lettera aperta al consigliere dello Scacchiere George Osborne che chiedeva maggiori iniziative per ridurre il deficit. Anche il padre di Wolfson, David, è un membro della Camera alta, sempre per il Tory party.
Il premio Wolfson quest’anno chiedeva di mandare proposte attorno al tema “se uno stato membro lascia l’Unione economica e monetaria, qual è il sistema migliore per generare crescita e prosperità per i membri rimanenti” e Capital Economics ha vinto su oltre 400 studi inviati.
La strada, secondo il direttore della società di consulenza, Roger Bootle, capoprogetto della ricerca, è articolata. Il caso di scuola naturalmente riguarda la Grecia che avrebbe “l’ottanta per cento di possibilità nei prossimi due anni di abbandonare l’euro”. In primo luogo, per Atene si tratterebbe di reintrodurre la dracma. Tuttavia, dice lo studio, “abbiamo chiesto ad alcune tra le più importanti tipografie del settore quanto tempo serve per stampare materialmente moneta e ci hanno risposto un minimo di sei mesi”, dunque tempi troppo lunghi, ecco perché Atene i primi tempi dovrebbe “sbianchettare” gli euro circolanti trasformandoli ufficialmente in dracme. A partire dal primo giorno di uscita dall’euro, la dracma dovrebbe essere quotata alla pari; così come tutti i prezzi, salari, prestiti e depositi vengono ridenominati uno a uno rispetto al vecchio euro. Nonostante la parità, a partire dal primo giorno di break-up ci sarebbe un crollo della nuova moneta del 30-50 per cento; con conseguente impennata dei prezzi almeno del 10 per cento.
Ecco perché si tratterebbe di mettere in atto veloci misure contro la fiammata inflazionistica che arriverebbe: un regime di inflation targeting, con una serie di regole fiscali molto dure, monitorate da un organismo di esperti indipendenti. Anche il debito pubblico dovrebbe essere rinominato in dracme: debito pubblico che dovrebbe essere naturalmente ristrutturato; Capital Economics prevede un default con un “haircut” o riduzione che lo porti almeno al 60 per cento del pil.
Naturalmente, se i mercati fossero a conoscenza di questi preparativi, ci sarebbe un’immediata (e maggiore rispetto a quella già in atto) fuga di capitali. Ecco perché Bootle propone che i funzionari del paese uscente si incontrino in segreto un mese prima dell’annuncio pubblico del break-up. I partner dell’Eurozona e le altre istituzioni monetarie internazionali sarebbero informati poi solo tre giorni prima del “D-Day”, che dovrebbe preferibilmente avvenire di venerdì. Subito dopo questo annuncio, banche e mercati finanziari domestici andrebbero chiusi; ma il blocco dei capitali dovrebbe durare il meno possibile. Questo per i “sommersi”.

E cosa deve fare chi resta dentro?
E i “salvati”, cioè i rimanenti membri dell’Eurozona? Secondo Bootle, essi devono accelerare l’unificazione delle proprie politiche fiscali e di bilancio. Ma nello stesso tempo, liberati dalle tensioni greche, i membri dell’Eurozona potrebbero allentare la morsa di bilancio di Bruxelles e rilanciare la crescita. E’ importante, dice l’economista, che tutto ciò avvenga molto rapidamente, non più di qualche mese. Anche perché nel frattempo qualche paese dell’area euro vedendo gli sviluppi greci (svalutazione, dimezzamento del debito, eccetera) potrebbe cominciare a provare qualche invidia e “subire qualche tentazione”.

domenica 22 luglio 2012

Sorpresa, per i banchieri la troppa finanza fiacca la crescita, di Alberto Brambilla


Un sorprendente paper degli economisti della Banca dei regolamenti internazionali. 

Numeri, confronti e analisi

Da quarant’anni l’idea che l’iper sviluppo del settore finanziario sia utile alla crescita è stata accreditata dall’accademia come un postulato. Non è più così. Un working paper della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), che ha come azionisti le Banche centrali di tutto il mondo, prova esattamente il contrario e mette in discussione uno dei capisaldi della moderna teoria economica al quale si sono ispirati governatori della Federal Reserve come Alan Greenspan e il suo successore in carica Ben Bernanke per spingere verso una decisa deregolamentazione. “Come succede in molti aspetti della vita, con la finanza si può avere troppo di una cosa positiva. Quindi in misura limitata un sistema finanziario ampio va a braccetto con una crescita della produttività. Ma arrivati a un certo punto – che molte economie avanzate hanno superato molto tempo fa – più banche e più credito portano a una crescita inferiore”, affermano il consigliere economico Stephen Cecchetti e l’economista Enisse Kharroubi che nei ringraziamenti includono anche il capo ricerche Bri, l’italiano Claudio Borio.
Le conclusioni hanno aspetti sorprendenti, come spesso avviene con gli studi della Bri che hanno sempre solide basi. Un sistema finanziario oleato contribuisce infatti ad abbassare i costi delle transazioni, ad aumentare gli investimenti e favorisce un equilibrio nella distribuzione del capitale e dei rischi, ma al contempo fa concorrenza ad altri settori decisivi per l’intera umanità. L’esempio calzante è quello di un ingegnere nucleare che per ottenere il massimo profitto sceglie una carriera nella finanza dei derivati e mette le proprie capacità al servizio di una banca d’affari. Lo stesso può accadere con un medico che avrebbe dedicato la vita alla ricerca sul cancro oppure uno scienziato che sarebbe in grado di fare un salto quantico per favorire l’arrivo dell’uomo su Marte. Sono menti “rubate” alla crescita e allo sviluppo perché inserite nel mondo affollato della finanza che non avrebbe bisogno di loro. La soglia limite di impiego è stabilita dai calcoli della Bri che vigila sui rischi sistemici per l’economia globale: “Quando il settore finanziario rappresenta il 3,5 per cento della forza lavoro totale, ogni altro incremento tende ad essere non solo superfluo ma lesivo per la crescita”. Paesi che hanno superato il limite sono per certi aspetti gli Stati Uniti, poi Canada, Svizzera e Irlanda, dove per inciso la rapidissima crescita del settore finanziario dal 2005 ha pesato per un terzo sulla diminuzione della produttività per lavoratore. Ma altri si stanno avvicinando di gran carriera al punto critico di “massimo profitto” come ad esempio la Gran Bretagna. “La lezione – aggiungono dalla banca di Basilea, nota come la Banca centrale delle banche centrali – è che una forte e rapida espansione del settore finanziario può essere molto costosa per il resto dell’economia. Perché distrae risorse essenziali tali da andare a detrimento della crescita complessiva”.
Anche guardando la questione dal punto di vista del sistema bancario, il risultato non cambia. Sebbene il credito bancario porti effettivi benefici all’economia reale, quando questo supera il 90 per cento del pil risulta deleterio perché è il punto massimo oltre al quale risulta difficile rispondere con prontezza a eventuali choc, come la crisi finanziaria. In India, paese al quale è indirizzato il lavoro della Banca dei regolamenti internazionali, c’è possibilità di trarre ulteriore beneficio dallo sviluppo controllato del credito privato perché rappresenta solo il 50 per cento del pil. Insomma, se non bastassero i fatti e le cronache quotidiane, il mito della finanza come panacea è in parte sfatato: “C’è la pressante necessità – concludono i ricercatori – di rivedere la relazione tra finanza e crescita economica nei sistemi moderni. Per questo più finanza non è sempre un bene”.

giovedì 19 luglio 2012

Growing Up in the Eurozone, by Stefano Micossi


A rapid and large increase of government debt has been a general phenomenon in the advanced countries since the 2007-09 crisis: for the first time, the average debt/GDP ratio for OECD countries has surpassed 100%. Fiscal consolidation will weigh on growth prospects for two generations to come, and the welfare state as we have known it in Europe since World War II will have to be transformed, especially given a rapidly aging population.
This illustration is by Margaret Scott and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Margaret Scott
CommentsBut the eurozone debt crisis has distinctive features. Most importantly, while the average debt/GDP ratio is no higher than it is in other advanced countries, and consolidation efforts started earlier, the eurozone has been mired in a severe crisis of confidence for the past two years. This points to a systemic dimension of the crisis that cannot be reduced to profligate behavior by fiscal sinners.
CommentsIndeed, the Greek crisis exposed three main flaws in the monetary union itself. First, the system lacked effective arrangements to align fiscal and other economic policies. As long as enforcement of fiscal discipline is entrusted to an intergovernmental body, the problem is bound to reappear, limiting the credibility of common budgetary rules.
CommentsMoreover, financial markets underpriced private and sovereign credit risks, in the implicit belief that no one would fail, and that all debts would somehow be made whole, implying weak market discipline on borrowers.
CommentsFinally, once the crisis hit, leading to a re-pricing of risks in financial markets, the need to avoid an economic and financial meltdown compelled governments to support aggregate demand and make private liabilities whole. But the disconnection between centralized monetary and decentralized fiscal powers de facto impeded the full use of monetary instruments to meet monetary and financial shocks.
CommentsThat left individual eurozone members exposed to brutal pressure by financial markets at a time when excessive private debt was turned into unsustainable public debt. Suddenly, the eurozone had become a straightjacket.
CommentsAnd so it has remained: budgets are cut, growth falters, and periphery countries must engineer substantial real exchange-rate devaluations to regain competitiveness and close their external deficits. Core countries, meanwhile, argue that they can do little to strengthen aggregate demand and relieve pressure on their partners, even as the periphery’s agony is dragging the core into recession, owing to its dependence on peripheral export markets. And, indeed, recent data point to a rapidly worsening economic environment in Germany, where the trade surplus has shrunk dramatically in recent months.
CommentsOver the past two years, fundamental changes in the eurozone’s economic governance have aimed at rectifying the monetary union’s founding flaws. And, along the way, an intergovernmental process has become communitarian. Key powers over the implementation of common policy guidelines have been entrusted to the European Commission, and the European Council has limited its own ability to reject Commission recommendations by requiring a qualified majority to change them.
CommentsStrong economic-governance rules, however, will not suffice. A fully functioning monetary union also requires a central bank that is free to act as required to confront liquidity and confidence shocks, some mutualization of government debts, and centralized control over fiscal policy. Moreover, it must have centralized banking supervisory policies, with strong powers to manage bank crises and to liquidate banks that cannot be rescued.
CommentsAll of this can be achieved only gradually, as Europe moves to a fully-fledged federal union. Whether the eurozone will survive in the meantime will be determined by the European Council’s capacity to establish intermediate arrangements that can halt the crisis and restore trust among its members.
CommentsAt their meeting at the end of June, European leaders acknowledged for the first time the multiple dimensions of the crisis, accepting that austerity – putting everyone’s house in order – will not suffice. Accordingly, new joint policy initiatives will address economic growth, banking union, and liquidity. Moreover, European leaders have placed these new policies within a coherent longer-term framework that may also include “the issuance of common debt.”
CommentsLikewise, the European Council has agreed on a new “Compact for growth and jobs” that identifies a specific European dimension of growth policies, mainly integration of energy, transport, communications, and services, together with higher infrastructure investment.
CommentsWhat is notably missing is recognition of the need for greater flexibility on fiscal-consolidation efforts. As the Commission has requested, countries with stronger fiscal positions should consider slowing their consolidation efforts in order to avoid aggravating the recession. But, in order to preserve investors’ confidence, some eurozone countries must strike a difficult balance between austerity and overkill, which would have been facilitated had the European Council issued a clear statement that letting automatic stabilizers work, while remaining on track with structural budget targets, fully complies with European Union obligations.
CommentsMoreover, a greater share of the adjustment burden must fall on Germany. Recent fairly generous wage agreements in Germany will help, but are not enough; there is also a need to boost domestic demand. More aggressive liberalization of the bloated banking system, network services (especially in energy and transport), and public procurement may contribute significantly over time to raising domestic investment and incomes. The sizeable investments required to make up for the loss of nuclear energy may contribute more immediate stimulus.
All of this should not be seen as a concession, but as part of the obligations undertaken by eurozone governments to address excessive imbalances. Now more than ever, Germany must be persuaded that without its contribution in reviving growth and correcting external imbalances, the eurozone faces prolonged depression and certain collapse.

Is Inequality Inhibiting Growth?, by Raghuram Rajan


To understand how to achieve a sustained recovery from the Great Recession, we need to understand its causes. And identifying causes means starting with the evidence.
This illustration is by Paul Lachine and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Paul Lachine
Two facts stand out. First, overall demand for goods and services is much weaker, both in Europe and the United States, than it was in the go-go years before the recession. Second, most of the economic gains in the US in recent years have gone to the rich, while the middle class has fallen behind in relative terms. In Europe, concerns about domestic income inequality, though more muted, are compounded by angst about inequality between countries, as Germany roars ahead while the southern periphery stalls.
Persuasive explanations of the crisis point to linkages between today’s tepid demand and rising income inequality. Progressive economists argue that the weakening of unions in the US, together with tax policies favoring the rich, slowed middle-class income growth, while traditional transfer programs were cut back. With incomes stagnant, households were encouraged to borrow, especially against home equity, to maintain consumption.
CommentsRising house prices gave people the illusion that increasing wealth backed their borrowing. But, now that house prices have collapsed and credit is unavailable to underwater households, demand has plummeted. The key to recovery, then, is to tax the rich, increase transfers, and restore worker incomes by enhancing union bargaining power and raising minimum wages.
This emphasis on anti-worker, pro-rich policies as the recession’s primary cause fits less well with events in Europe. Countries like Germany that reformed labor laws to create more flexibility for employers, and did not raise wages rapidly, seem to be in better economic shape than countries like France and Spain, where labor was better protected.
CommentsSo consider an alternative explanation: Starting in the early 1970’s, advanced economies found it increasingly difficult to grow. Countries like the US and the United Kingdom eventually responded by deregulating their economies.
Greater competition and the adoption of new technologies increased the demand for, and incomes of, highly skilled, talented, and educated workers doing non-routine jobs like consulting. More routine, once well-paying, jobs done by the unskilled or the moderately educated were automated or outsourced. So income inequality emerged, not primarily because of policies favoring the rich, but because the liberalized economy favored those equipped to take advantage of it.
CommentsThe short-sighted political response to the anxieties of those falling behind was to ease their access to credit. Faced with little regulatory restraint, banks overdosed on risky loans. Thus, while differing on the root causes of inequality (at least in the US), the progressive and alternative narratives agree about its consequences.
CommentsThe alternative narrative has more to say. Continental Europe did not deregulate as much, and preferred to seek growth in greater economic integration. But the price for protecting workers and firms was slower growth and higher unemployment. And, while inequality did not increase as much as in the US, job prospects were terrible for the young and unemployed, who were left out of the protected system.
CommentsThe advent of the euro was a seeming boon, because it reduced borrowing costs and allowed countries to create jobs through debt-financed spending. The crisis ended that spending, whether by national governments (Greece), local governments (Spain), the construction sector (Ireland and Spain), or the financial sector (Ireland). Unfortunately, past spending pushed up wages, without a commensurate increase in productivity, leaving the heavy spenders indebted and uncompetitive.
CommentsThe important exception to this pattern is Germany, which was accustomed to low borrowing costs even before it entered the eurozone. Germany had to contend with historically high unemployment, stemming from reunification with a sick East Germany. In the euro’s initial years, Germany had no option but to reduce worker protections, limit wage increases, and reduce pensions as it tried to increase employment. Germany’s labor costs fell relative to the rest of the eurozone, and its exports and GDP growth exploded.
The alternative view suggests different remedies. The US should focus on helping to tailor the education and skills of the people being left behind to the available jobs. This will not be easy or quick, but it beats having corrosively high levels of inequality of opportunity, as well as a large segment of the population dependent on transfers. Rather than paying for any necessary spending by raising tax rates on the rich sky high, which would hurt entrepreneurship, more thoughtful across-the-board tax reform is needed.
CommentsFor the uncompetitive parts of the eurozone, structural reforms can no longer be postponed. But, given the large adjustment needs, it is not politically feasible to do everything, including painful fiscal tightening, immediately. Less austerity, while not a sustainable growth strategy, may ease the pain of adjustment. That, in a nutshell, is the fundamental eurozone dilemma: the periphery needs financing as it adjusts, while Germany, pointing to the post-euro experience, says that it cannot trust countries to reform once they get the money.
CommentsThe Germans have been insisting on institutional change – more centralized eurozone control over periphery banks and government budgets in exchange for expanded access to financing for the periphery. Yet institutional change, despite the euphoria that greeted the latest EU summit, will take time, for it requires careful structuring and broader public support.
CommentsEurope may be better off with stop-gap measures. If confidence in Italy or Spain deteriorates again, the eurozone may have to resort to the traditional bridge between weak credibility and low-cost financing: a temporary International Monetary Fund-style monitored reform program.
CommentsSuch programs cannot dispense with the need for government resolve, as Greece’s travails demonstrate. And governments hate the implied loss of sovereignty and face. But determined governments, like those of Brazil and India, have negotiated programs in the past that set them on the path to sustained growth.
As a reformed Europe starts growing, parts of it may experience US-style inequality. But growth can provide the resources to address that. Far worse for Europe would be to avoid serious reform and lapse into egalitarian and genteel decline. Japan, not the US, is the example to avoid.