Alla fine degli anni Novanta, dopo lo sforzo fatto per entrare nell'unione monetaria, la spesa delle nostre amministrazioni pubbliche (senza contare gli interessi sul debito) era scesa sotto il 40 per cento del reddito nazionale: 39,8%. Negli anni successivi, fra il 2001 e il 2006 (secondo governo Berlusconi), risalì al 44%, due punti sopra il livello degli anni Ottanta, durante i governi di coalizione fra democristiani e socialisti, quando il nostro debito pubblico cominciò a crescere rapidamente. Lo scorso anno aveva superato il 45%.
In passato i tentativi di ridurre la spesa non duravano nel tempo perché attuati con misure una tantum , oppure con tagli «lineari», cioè uguali per tutti, che tagliando nella stessa misura spese inefficienti ed efficienti si rivelavano nel tempo insostenibili. Il merito del governo Monti è di essere entrato nel dettaglio, aver avuto il coraggio di decidere quali spese tagliare, indicandole «con nome e cognome», ad esempio la chiusura di 37 tribunali e 220 sedi distaccate. La proliferazione delle sedi giudiziarie era stata da tempo indicata come una delle ragioni per la lentezza e i costi, soprattutto della giustizia civile, ma finora nessuno aveva avuto il coraggio di opporsi alle lobby che difendono i loro piccoli monopoli locali. Questo è stato possibile anche perché il governo ha informato, ma non ha «concertato», le sue decisioni. La scelta di Mario Monti di affidare queste proposte a Enrico Bondi, un manager lontano dalla politica ed esperto di ristrutturazioni aziendali, si è rivelata vincente. I tagli alla spesa sono un passo che si è fatto attendere un po' a lungo, ma che ora si aggiunge ai risparmi sulle pensioni decisi a Natale.
Vanno però dette alcune verità scomode. Primo: non è pensabile che si possa ridurre in modo significativo la spesa solo riducendo gli sprechi. È ovvio, ad esempio, che il governo deve tagliare i costi della politica in modo drastico, come indicano le misure sulle Province, non solo per un senso di equità e di etica, ma perché altrimenti fra poco vi sarà la rivolta dei cittadini. Ma purtroppo non basta. La dimensione dei tagli necessari affinché si possa poi abbassare la pressione fiscale significherà meno servizi ad alcuni cittadini. Negli anni lo Stato sociale italiano si è disperso in mille direzioni. Fornisce servizi senza distinzione di reddito a classi medie e medio alte, il più delle volte non riuscendo a proteggere i veri deboli. Bisogna riformarlo, rendendolo più snello e più efficiente. Si può fare, e nel lontano 1997 la commissione Onofri (primo governo Prodi) aveva spiegato come. Se solo si fosse incominciato allora!
Secondo: bisogna resistere alla tentazione di usare i risparmi ottenuti riducendo una spesa per finanziarne un'altra, anche se qualcuno pensa che così si aiuterebbe la crescita. Ad esempio tagliare i tribunali per costruire nuove infrastrutture. Innanzitutto non è detto che così si aiuterebbe la crescita: e comunque l'unica strada per uscire dalla stagnazione in cui ci siamo avvitati è abbassare la pressione fiscale, incominciando dalle tasse che gravano sul lavoro. Evitare aumenti dell'Iva è meritorio ma non basta. La dimensione dei tagli deve essere sufficiente per consentire di abbassare la pressione fiscale (e bene ha fatto Mario Monti a dire che questo è solo un primo passo). Terzo: il governo deve prepararsi a una dura battaglia parlamentare. Non deve ripetersi ciò che è accaduto con il decreto legge sulle liberalizzazioni, quando un ottimo testo del governo è stato snaturato dal Parlamento. La cartina di tornasole sarà la tenuta dell'elenco delle Province e dei tribunali cancellati. Le dichiarazioni di politici e sindacalisti in queste ore mostrano che non sarà un compito facile.
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