Human Right
Consigli ultramegaliberali per riscrivere un Dna non populistico del centrodestra europeo
Pubblichiamo ampi stralci del paper scritto dal think tank conservatore inglese Centre for Policy Studies su “La ricerca del cambiamento e del rinnovamento”. Ovvero “Come riempire il gap ideologico del centrodestra”.
L’arte del governo non si riduce alla sola competenza. Per avere successo, un governo deve offrire un programma capace di combinare politiche efficaci a un’ideologia in grado di ottenere il sostegno pubblico facendo leva sui principi morali e sui valori intellettuali. Quanto maggiori sono le sfide pratiche da affrontare, tanto maggiore è la necessità di un’adeguata intelaiatura intellettuale. Proprio come le riforme attuate dal governo laburista postbellico di Clement Attlee si fondavano sull’idea di uno stato del welfare che seppe guadagnare il sostegno dell’opinione pubblica, così anche Margaret Thatcher trasformò la Gran Bretagna perché le sue politiche si basavano su un’ideologia coerente di economia del libero mercato, che l’elettorato era pronto ad accettare. Il centrodestra non è sostenuto da un’analoga ideologia. Persino nell’estremamente improbabile circostanza che l’amministrazione riuscisse a superare tutte le difficilissime sfide pratiche che deve affrontare, ciò non sarebbe sufficiente a cambiare in meglio la Gran Bretagna. Sarebbe davvero grave se il governo non riuscisse a vincere sul terreno ideologico; quel che è peggio, è che non sembra nemmeno provare a farlo. Le politiche dei conservatori e dei Liberal Democrat vengono formulate nel linguaggio dei laburisti e verificate sui capisaldi laburisti. In un momento di crisi nazionale, la chiarezza ideologica non è un optional. Il centrodestra ha ereditato problemi che vanno ben oltre quelli di una spesa pubblica insostenibile e di un deficit più profondo di quello di qualsiasi altra economia avanzata. Il piano di ripresa fiscale si basa sulla crescita, ma la crescita appare irrealizzabile perché l’economia, per lungo tempo dipendente dal prestito privato e dalla spesa pubblica, risulta quasi incompatibile con l’espansione, tanto che almeno il 70 per cento dell’output proviene da settori industriali che, nel clima economico attuale, sono incapaci di ulteriore crescita.
L’arte del governo non si riduce alla sola competenza. Per avere successo, un governo deve offrire un programma capace di combinare politiche efficaci a un’ideologia in grado di ottenere il sostegno pubblico facendo leva sui principi morali e sui valori intellettuali. Quanto maggiori sono le sfide pratiche da affrontare, tanto maggiore è la necessità di un’adeguata intelaiatura intellettuale. Proprio come le riforme attuate dal governo laburista postbellico di Clement Attlee si fondavano sull’idea di uno stato del welfare che seppe guadagnare il sostegno dell’opinione pubblica, così anche Margaret Thatcher trasformò la Gran Bretagna perché le sue politiche si basavano su un’ideologia coerente di economia del libero mercato, che l’elettorato era pronto ad accettare. Il centrodestra non è sostenuto da un’analoga ideologia. Persino nell’estremamente improbabile circostanza che l’amministrazione riuscisse a superare tutte le difficilissime sfide pratiche che deve affrontare, ciò non sarebbe sufficiente a cambiare in meglio la Gran Bretagna. Sarebbe davvero grave se il governo non riuscisse a vincere sul terreno ideologico; quel che è peggio, è che non sembra nemmeno provare a farlo. Le politiche dei conservatori e dei Liberal Democrat vengono formulate nel linguaggio dei laburisti e verificate sui capisaldi laburisti. In un momento di crisi nazionale, la chiarezza ideologica non è un optional. Il centrodestra ha ereditato problemi che vanno ben oltre quelli di una spesa pubblica insostenibile e di un deficit più profondo di quello di qualsiasi altra economia avanzata. Il piano di ripresa fiscale si basa sulla crescita, ma la crescita appare irrealizzabile perché l’economia, per lungo tempo dipendente dal prestito privato e dalla spesa pubblica, risulta quasi incompatibile con l’espansione, tanto che almeno il 70 per cento dell’output proviene da settori industriali che, nel clima economico attuale, sono incapaci di ulteriore crescita.
In mancanza di cambiamenti radicali (tanto sul piano pratico quanto su quello ideologico), le deduzioni che si possono trarre dalle condizioni attuali appaiono inquietanti: a) l’economia continuerà ad affondare; b) di conseguenza, il piano di riduzione fiscale fallirà; c) il debito continuerà a salire, fino al punto da mettere in pericolo i tassi di interesse; d) non si realizzerà alcun taglio concreto della spesa pubblica; e) il populismo esigerà gravami fiscali sempre più pesanti sui “ricchi”, fino al punto di distruggere ogni forma di incentivi e di imprenditorialità; f) i mercati dei capitali metteranno in dubbio l’idea di continuare a sovvenzionare uno stile di vita e un welfare state non meritati.
La deriva non è un’opzione praticabile. Le sfide che la Gran Bretagna deve affrontare richiedono robuste politiche fondate su una precisa e chiara ideologia. Un tale cambiamento può essere compiuto soltanto con il sostegno dell’opinione pubblica, che, a sua volta, richiede una conquista sul piano morale e ideologico. La priorità, pertanto, deve essere la promozione di una filosofia che renda partecipe il pubblico e il governo nella realizzazione di riforme di vasta portata. E proprio come per l’ideologia di Attlee e della signora Thatcher, anche questa nuova impalcatura concettuale deve essere sincera e profonda. Le ideologie sintetiche, come quella elaborata dal New Labour, prima o poi finiscono su un binario morto.
L’importanza fondamentale dell’ideologia
Per avere successo, un governo deve soddisfare due criteri, e non uno soltanto. Il primo di questi criteri è di carattere pratico: un’amministrazione supera questo test se, alla fine del proprio mandato, il paese che ha governato appare più prospero, il settore pubblico più efficiente, il bilancio più solido, il debito più basso e la difesa nazionale più forte. Il secondo criterio è invece di carattere ideologico, e un’amministrazione ha successo soltanto se è in grado di mutare l’atteggiamento dell’opinione pubblica, stabilendo un nuovo consenso morale e intellettuale. Mentre il primo criterio è, in larga misura, una questione di competenza, il secondo è intellettuale, e può essere definito come la fondazione di una nuova mentalità nazionale, o come la conquista dell’opinione pubblica. Si tratta, in poche parole, della “battaglia per i cuori e le menti” e della “lotta per la superiorità sul piano intellettuale”. I governi di Clement Attlee (1945-1951) e di Margaret Thatcher (1979-1990) rappresentano illuminanti esempi di successo sul terreno intellettuale, in quanto hanno saputo cambiare la direzione dell’opinione pubblica. (…)
Nell’immediato, si pongono due decisive sfide ideologiche. La prima è quella di riformare il capitalismo in modo che possa essere utile per tutti, anziché – come avvenuto negli ultimi anni – essere a vantaggio esclusivamente per una minoranza privilegiata. La seconda è quella di riguadagnare la superiorità intellettuale sul concetto sintetico di moralità spacciato così efficacemente dal New Labour.
La deriva non è un’opzione praticabile. Le sfide che la Gran Bretagna deve affrontare richiedono robuste politiche fondate su una precisa e chiara ideologia. Un tale cambiamento può essere compiuto soltanto con il sostegno dell’opinione pubblica, che, a sua volta, richiede una conquista sul piano morale e ideologico. La priorità, pertanto, deve essere la promozione di una filosofia che renda partecipe il pubblico e il governo nella realizzazione di riforme di vasta portata. E proprio come per l’ideologia di Attlee e della signora Thatcher, anche questa nuova impalcatura concettuale deve essere sincera e profonda. Le ideologie sintetiche, come quella elaborata dal New Labour, prima o poi finiscono su un binario morto.
L’importanza fondamentale dell’ideologia
Per avere successo, un governo deve soddisfare due criteri, e non uno soltanto. Il primo di questi criteri è di carattere pratico: un’amministrazione supera questo test se, alla fine del proprio mandato, il paese che ha governato appare più prospero, il settore pubblico più efficiente, il bilancio più solido, il debito più basso e la difesa nazionale più forte. Il secondo criterio è invece di carattere ideologico, e un’amministrazione ha successo soltanto se è in grado di mutare l’atteggiamento dell’opinione pubblica, stabilendo un nuovo consenso morale e intellettuale. Mentre il primo criterio è, in larga misura, una questione di competenza, il secondo è intellettuale, e può essere definito come la fondazione di una nuova mentalità nazionale, o come la conquista dell’opinione pubblica. Si tratta, in poche parole, della “battaglia per i cuori e le menti” e della “lotta per la superiorità sul piano intellettuale”. I governi di Clement Attlee (1945-1951) e di Margaret Thatcher (1979-1990) rappresentano illuminanti esempi di successo sul terreno intellettuale, in quanto hanno saputo cambiare la direzione dell’opinione pubblica. (…)
Nell’immediato, si pongono due decisive sfide ideologiche. La prima è quella di riformare il capitalismo in modo che possa essere utile per tutti, anziché – come avvenuto negli ultimi anni – essere a vantaggio esclusivamente per una minoranza privilegiata. La seconda è quella di riguadagnare la superiorità intellettuale sul concetto sintetico di moralità spacciato così efficacemente dal New Labour.
Entrambe queste cose, sebbene estremamente importanti, da sole non saranno sufficienti. C’è anche bisogno di un ideale rivoluzionario capace di conquistare il sentimento pubblico. Una precisa ideologia che potrebbe permettere ai conservatori (e ai Liberal-Democrat) di vincere la battaglia intellettuale è la promozione dell’individualismo, ossia porre l’individuo al di sopra del collettivismo e del corporativismo. Sebbene si accordi con le tradizioni liberali di entrambi i partiti del centrodestra, un’agenda che promuova l’individuo rappresenterebbe una rottura radicale con il passato.
Pragmatismo e ideologia devono essere messi in stretta collaborazione. Le strutture create da Attlee non si sarebbero così solidamente radicate nella mentalità del popolo se il suo governo non avesse creato infrastrutture pubbliche capaci allo stesso tempo di ottenere il consenso sull’idea fondamentale dello stato del welfare. La liberalizzazione dell’economia e del mercato del lavoro promossi dalla signora Thatcher non avrebbe avuto successo se lei stessa non fosse riuscita al contempo a guadagnare l’approvazione per una cultura imprenditoriale. Tutti e due i governi iniziarono tra le difficoltà.
Attlee ereditò uno stato indebitato e un’economia indebolita dalla titanica lotta per sconfiggere la Germania nazista e il Giappone imperiale. La signora Thatcher ereditò un’economia in fallimento e un’amministrazione finanziaria quasi in bancarotta. Tutti e due i governi si imposero con successo nonostante l’enorme portata della sfida iniziale, o forse addirittura grazie ad essa. Per di più, in entrambi i casi, il capitalismo (come viene praticato attualmente) era profondamente disprezzato dall’opinione pubblica, anche se non si riesce ancora a individuare una valida alternativa.
Alla fine della Prima guerra mondiale, la grande paura dell’élite governativa britannica era la diffusione del comunismo. Il successo della rivoluzione russa era considerato dall’establishment di tutti i paesi europei (e anche dell’America) come una possibile miccia per lo scoppio di rivoluzioni comuniste in tutto il mondo occidentale. La Germania, uscita sconfitta dalla guerra, sembrava il candidato più ovvio per una presa di potere da parte dei comunisti, ma nessuna nazione poteva ritenersi immune dalla minaccia di una rivoluzione. Le autorità britanniche erano così determinate a resistere contro la diffusione del comunismo che continuarono a fornire supporto militare alla resistenza antibolscevica della Russia fino al 1920. Negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale, in Gran Bretagna vi erano state forti tensioni di classe, e non c’era motivo di supporre che tali tensioni sarebbero terminate dopo la conclusione della guerra. Nel 1918 fu congedato un enorme numero di soldati, la maggior parte dei quali ben addestrati all’uso delle armi, e molti di essi avrebbero facilmente potuto tornare alle proprie case nascondendo fucili o pistole nei loro zaini. Il rischio di una rivoluzione sembrava davvero reale. Nel 1918, quindi, la parola d’ordine dell’establishment politico britannico era “business as usual”. La società britannica sarebbe dovuta tornare allo status quo del 1914. Un vasto numero di donne, che durante la guerra avevano lavorato nelle fattorie e nelle fabbriche di munizioni, furono rispedite a casa con la pretesa che accettassero di ritornare a una condizione di sottomissione. I soldati e i marinai smobilitati avrebbero dovuto tornare al mestiere che facevano prima della guerra. L’esperienza concreta del periodo fra le due guerre screditò completamente la dottrina del “business as usual”. Dopo un breve periodo di boom postbellico, l’Europa, Gran Bretagna compresa, precipitò in una grave recessione, cui si aggiunsero le devastazioni prodotte dalle malattie. All’effimera follia dei “rombanti anni Venti” fece seguito il crollo di Wall Street e la miseria provocata dalla Grande Depressione. Mentre l’economia britannica nel corso degli anni Trenta riuscì a riprendersi – grazie alle politiche governative e al processo di riarmo – rimasero ampie sacche di povertà. Di conseguenza, quando si avvicinò la conclusione della Seconda guerra mondiale, non si ebbe alcun desiderio di un ritorno al “business as usual”. Al contrario, secondo il Partito laburista, bisognava imparare e mettere a frutto le lezioni della guerra. Il popolo britannico, che si era unito per sconfiggere Hitler, poteva ora essere mobilitato per sconfiggere “la miseria, la malattia, l’ignoranza, lo squallore e la disoccupazione”. Nelle elezioni generali del maggio 1945, il partito laburista conquistò il 49,7 per cento del voto popolare e 393 seggi nella Camera dei Comuni, dando all’amministrazione di Attlee una maggioranza di 146 seggi.
Negli anni 1945-1951, la filosofia politica del governo laburista si fondò sui tre cardini del welfare, della nazionalizzazione e dell’economia keynesiana. La nazionalizzazione, basata sul principio laburista della proprietà statale del settore industriale, fu rafforzata dallo stato precario di alcune industrie fondamentali, come quella delle ferrovie e dell’estrazione mineraria. Le ragioni e la necessità di uno stato del welfare furono esposte da William Beveridge nel suo famoso rapporto del 1942 (intitolato “Social Insurance and Allied Services”) e ribadite dall’“Education Act” del 1944. Keynes, allora all’apice della sua fama internazionale, sembrava offrire una razionalizzazione concettuale dell’ingranaggio boom-fallimento e, soprattutto, avere un rimedio per esso. Nello stesso Clement Attlee – un avvocato che aveva frequentato le scuole pubbliche ed era stato ufficiale dell’esercito in tempo di guerra – il Partito laburista aveva trovato come sua guida un tipico rappresentante dell’establishment, anche se Ernest Bevin, Herbert Morrison e Aneurin Bevan erano più vicini al carattere tradizionale del movimento laburista.
Dei tre principi essenziali della politica laburista, la nazionalizzazione si dimostrò un entusiasmo di breve durata, con un costo estremamente elevato. L’economia keynesiana ebbe vita più lunga, affermandosi come ortodossia di governo fino agli anni Settanta. Ma l’eredità più stabile e duratura dell’amministrazione Attlee fu lo stato del welfare, un impegno che, sebbene in forma alquanto mutata, rimane ancora oggi un elemento cardine dell’opinione pubblica britannica. Benché il Partito laburista perse il potere nel 1951, tutti i partiti restarono ancorati ai principi del welfare e dell’economia keynesiana, per quanto lo stesso Partito laburista perse quasi subito il proprio entusiasmo per ulteriori nazionalizzazioni. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono una sorta di vuoto per quanto riguarda l’aspetto ideologico: le amministrazioni conservatrici e quelle laburiste accettarono entrambe l’accordo postbellico e assisterono al graduale declino della potenza economica britannica in campo internazionale. Sollecitato dal fiasco subito in occasione della crisi di Suez nel 1956, lo smantellamento dell’impero britannico fu completato all’inizio degli anni Sessanta. Il consenso ideologico degli anni Cinquanta – riassunto nel termine di “Butskellism” – sembra essere consistito in una miscela di soddisfazione (il popolo “non era mai stato così bene”) e di rassegnazione (per il declino dell’influenza britannica sulle vicende mondiali). I governi laburisti degli anni Sessanta guidati da Harold Wilson si impegnarono, almeno sul piano retorico, nello sviluppo della modernità, ma non portarono a significativi mutamenti strutturali.
Dopo un lungo periodo di quiescenza, le differenze ideologiche riemersero alla superficie nel calderone economico degli anni settanta. La prima crisi petrolifera (scoppiata nel 1973) si combinò al cosidetto “Barber boom” producendo una vera e propria iper-inflazione (che toccò il 25 per cento), e i governi laburisti di Harold Wilson e Jim Callaghan cercarono senza successo di affrontare i problemi dell’inflazione, del ristagno economico e di sempre più critiche relazioni industriali. Nel 1976, il paese era già così prossimo alla bancarotta da richiedere un salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale. Dopo che Callaghan si lasciò prendere dal panico sulla questione di una tornata elettorale autunnale, “l’inverno dello scontento”, nel 1978-1979, aprì le porte al secondo governo ideologico del periodo postbellico.
Dei tre principi essenziali della politica laburista, la nazionalizzazione si dimostrò un entusiasmo di breve durata, con un costo estremamente elevato. L’economia keynesiana ebbe vita più lunga, affermandosi come ortodossia di governo fino agli anni Settanta. Ma l’eredità più stabile e duratura dell’amministrazione Attlee fu lo stato del welfare, un impegno che, sebbene in forma alquanto mutata, rimane ancora oggi un elemento cardine dell’opinione pubblica britannica. Benché il Partito laburista perse il potere nel 1951, tutti i partiti restarono ancorati ai principi del welfare e dell’economia keynesiana, per quanto lo stesso Partito laburista perse quasi subito il proprio entusiasmo per ulteriori nazionalizzazioni. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono una sorta di vuoto per quanto riguarda l’aspetto ideologico: le amministrazioni conservatrici e quelle laburiste accettarono entrambe l’accordo postbellico e assisterono al graduale declino della potenza economica britannica in campo internazionale. Sollecitato dal fiasco subito in occasione della crisi di Suez nel 1956, lo smantellamento dell’impero britannico fu completato all’inizio degli anni Sessanta. Il consenso ideologico degli anni Cinquanta – riassunto nel termine di “Butskellism” – sembra essere consistito in una miscela di soddisfazione (il popolo “non era mai stato così bene”) e di rassegnazione (per il declino dell’influenza britannica sulle vicende mondiali). I governi laburisti degli anni Sessanta guidati da Harold Wilson si impegnarono, almeno sul piano retorico, nello sviluppo della modernità, ma non portarono a significativi mutamenti strutturali.
Dopo un lungo periodo di quiescenza, le differenze ideologiche riemersero alla superficie nel calderone economico degli anni settanta. La prima crisi petrolifera (scoppiata nel 1973) si combinò al cosidetto “Barber boom” producendo una vera e propria iper-inflazione (che toccò il 25 per cento), e i governi laburisti di Harold Wilson e Jim Callaghan cercarono senza successo di affrontare i problemi dell’inflazione, del ristagno economico e di sempre più critiche relazioni industriali. Nel 1976, il paese era già così prossimo alla bancarotta da richiedere un salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale. Dopo che Callaghan si lasciò prendere dal panico sulla questione di una tornata elettorale autunnale, “l’inverno dello scontento”, nel 1978-1979, aprì le porte al secondo governo ideologico del periodo postbellico.
Quando fu eletta alla direzione del partito conservatore, nel 1975, Margaret Thatcher proclamò: “Non sono un politico che si preoccupa del consenso. Sono un politico che si fonda sulle proprie convinzioni”. Il programma del partito conservatore pubblicato nel 1979 esprimeva in modo perfettamente chiaro la necessità di un nuovo orientamento: nella prefazione, la stessa Thatcher sosteneva che “la nostra società si è sempre più sbilanciata a favore dello stato e a scapito della libertà individuale”. Il programma prometteva di combattere l’inflazione, rovesciare la “politica dell’invidia” favorita dai laburisti e di ridurre lo strapotere dei sindacati. L’inflazione sarebbe stata combattuta con un migliore controllo delle risorse monetarie e riducendo il ruolo dello Stato, allo scopo di lasciare una maggiore quantità di denaro nelle tasche dei singoli cittadini. Le imposte sul reddito sarebbero state tagliate, si sarebbe incoraggiato l’acquisto di case con la vendita delle case popolari, e si sarebbe ridotto il controllo sull’andamento dei prezzi al fine di stimolare gli investimenti aumentando le possibilità di profitto delle attività imprenditoriali. Il nuovo governo avrebbe privatizzato la National Freight Corporation e deregolamentato l’industria dei trasporti. I conservatori evitarono di fare “straordinarie promesse”, affermando che “troppe cose erano andate storte in Gran Bretagna per lasciarci sperare di poter rimettere tutto a posto nel giro di un anno o poco più”. L’importanza cruciale delle amministrazioni presiedute dalla signora Thatcher è consistita nel fatto che, in un momento di disintegrazione economica e sociale di portata nazionale, il governo decise di affrontare i problemi del paese sulla base di una nuova filosofia, che si fondava sui principi di un’economia monetarista e sul posto preminente assegnato all’imprenditorialità. I cardini fondamentali delle politiche attuate dalla signora Thatcher (privatizzazione, deregolamentazione, vendita delle case popolari e riduzione delle tasse) si basavano sui principi elaborati da Sir Keith Joseph e articolati da think-tank come il Centre for Policy Studies e l’Institute of Economic Affairs. Fu un momento decisivo di politica basata sulle convinzioni e di rinascita nazionale.
Il trionfo dell’ideologia sintetica
Dopo una fase di deriva durante il governo di John Major, il Partito laburista ritornò al potere con la schiacciante vittoria elettorale del 1997. Sotto la guida di Tony Blair e Gordon Brown, il Partito laburista promise un nuovo approccio alla politica e al governo. Definita talvolta come la “Terza via”, la filosofia del New Labour era una miscela di economia della libera impresa e di maggiore “investimento” nella società, che prevedeva un ruolo più ampio per lo Stato. L’impegno del Partito laburista sulla nazionalizzazione fu abbandonato, e il partito promise di non tornare mai più alla politica di “tasse e spesa”. Le imposte non sarebbero state aumentate, e il partito, nel corso del suo primo mandato al governo, si attenne ai piani di spesa della precedente amministrazione del partito conservatore.
Ma se John F. Kennedy era stato “il miglior presidente che si poteva acquistare”, Tony Blair divenne il miglior primo ministro che un’agenzia di Public Relations poteva produrre. Infatti, la più notevole caratteristica dell’ideologia del New Labour stava nel fatto che si trattava di un’ideologia sintetica. Mentre l’impegno di Attlee sullo stato del welfare e il sostegno della signora Thatcher alla libera impresa erano il frutto di profonde e autentiche convinzioni, la “terza via” di Blair era una costruzione artificiale. L’elettorato, secondo i laburisti, si era probabilmente stufato del governo di Major, ma non aveva alcun desiderio di un ritorno a qualsiasi cosa assomigliasse all’economia degli anni Settanta. Se l’adesione a un’economia liberista era un punto che riscuoteva il favore dell’opinione pubblica, la stessa cosa valeva anche per lo stato del welfare. La “terza via” rappresentava una sintesi che aveva lo scopo di unire questi due elementi.
Il trionfo dell’ideologia sintetica
Dopo una fase di deriva durante il governo di John Major, il Partito laburista ritornò al potere con la schiacciante vittoria elettorale del 1997. Sotto la guida di Tony Blair e Gordon Brown, il Partito laburista promise un nuovo approccio alla politica e al governo. Definita talvolta come la “Terza via”, la filosofia del New Labour era una miscela di economia della libera impresa e di maggiore “investimento” nella società, che prevedeva un ruolo più ampio per lo Stato. L’impegno del Partito laburista sulla nazionalizzazione fu abbandonato, e il partito promise di non tornare mai più alla politica di “tasse e spesa”. Le imposte non sarebbero state aumentate, e il partito, nel corso del suo primo mandato al governo, si attenne ai piani di spesa della precedente amministrazione del partito conservatore.
Ma se John F. Kennedy era stato “il miglior presidente che si poteva acquistare”, Tony Blair divenne il miglior primo ministro che un’agenzia di Public Relations poteva produrre. Infatti, la più notevole caratteristica dell’ideologia del New Labour stava nel fatto che si trattava di un’ideologia sintetica. Mentre l’impegno di Attlee sullo stato del welfare e il sostegno della signora Thatcher alla libera impresa erano il frutto di profonde e autentiche convinzioni, la “terza via” di Blair era una costruzione artificiale. L’elettorato, secondo i laburisti, si era probabilmente stufato del governo di Major, ma non aveva alcun desiderio di un ritorno a qualsiasi cosa assomigliasse all’economia degli anni Settanta. Se l’adesione a un’economia liberista era un punto che riscuoteva il favore dell’opinione pubblica, la stessa cosa valeva anche per lo stato del welfare. La “terza via” rappresentava una sintesi che aveva lo scopo di unire questi due elementi.
Tony Blair venne considerato come un politico fedele alle proprie convinzioni, ma nella sostanza era un pragmatico. Aveva creato una squadra di straordinaria qualità nel campo delle relazioni pubbliche, e, quando necessario, sapeva mostrarsi sufficientemente appassionato. Ma la logica fondamentale del suo operare era di natura pragmatica. La politica estera etica di Robin Cook si sfaldò non appena si presentarono le prime sfide avventuriste (Afghanistan e Iraq); la decisione di Blair di porre la Gran Bretagna “al centro dell’Europa” fece la stessa fine quando Jacques Chirac e Gerhard Schröder sottolinearono quanto fosse folle il progetto di un cambio di regime a Baghdad; e il piano sulle pensioni elaborato dal ministro ritenuto capace di “pensare l’impensabile” si infranse contro un muro non appena “l’impensabile” risultò del tutto inappetibile per l’elettorato.
Blair concentrò la propria attenzione principalmente sulla politica estera, mentre le questioni interne furono lasciate alla cura di Gordon Brown. Uomo di notevoli capacità, Brown aveva tuttavia due gravi difetti: l’ipocrita sicurezza delle proprie convinzioni e un’arroganza intellettuale che gli impediva di prestare ascolto alle opinioni altrui. Come il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, anche Gordon Brown non si rese conto che la “grande moderazione” economica del mondo anglosassone non era altro che la fase conclusiva di un disastroso superciclo del credito avviatosi all’inizio degli anni ottanta. Entrambi avevano un’illimitata fiducia nella capacità di autocorrezione e autoregolazione dei mercati, così come in quella dell’interesse personale di impedire eccessi finanziari. Entrambi rifiutavano di ammettere la realtà della bolla dei beni immobili, chiudendo gli occhi di fronte ai ben documentati avvertimenti e agli inequivocabili dati che si presentavano su entrambe le sponde dell’Atlantico. Entrambi sembrarono cadere dalle nuvole quando la bolla scoppiò.
Blair concentrò la propria attenzione principalmente sulla politica estera, mentre le questioni interne furono lasciate alla cura di Gordon Brown. Uomo di notevoli capacità, Brown aveva tuttavia due gravi difetti: l’ipocrita sicurezza delle proprie convinzioni e un’arroganza intellettuale che gli impediva di prestare ascolto alle opinioni altrui. Come il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, anche Gordon Brown non si rese conto che la “grande moderazione” economica del mondo anglosassone non era altro che la fase conclusiva di un disastroso superciclo del credito avviatosi all’inizio degli anni ottanta. Entrambi avevano un’illimitata fiducia nella capacità di autocorrezione e autoregolazione dei mercati, così come in quella dell’interesse personale di impedire eccessi finanziari. Entrambi rifiutavano di ammettere la realtà della bolla dei beni immobili, chiudendo gli occhi di fronte ai ben documentati avvertimenti e agli inequivocabili dati che si presentavano su entrambe le sponde dell’Atlantico. Entrambi sembrarono cadere dalle nuvole quando la bolla scoppiò.
La differenza di Brown rispetto agli strateghi politici statunitensi stava nella sua fede nella benevolenza dello stato. Lo stato, a giudizio di Brown, era in grado non soltanto di rendere i cittadini più benestanti e sicuri ma anche più buoni. Era convinto che si potesse imporre la moralità. Oltre alla catastrofe economica e fiscale, l’eredità lasciata da Brown includeva una selettiva dottrina morale della “onestà” e uno spietato attacco contro le libertà individuali. I diritti dell’individuo vennero calpestati ogni volta che si frapponevano alla volontà dello stato.
Sebbene il deficit, il debito nazionale e un’economia distorta siano l’eredità più evidente del New Labour, la sfida principale che devono affrontare gli attuali strateghi politici sta nell’ideologia sintetica promossa con eccezionale enfasi da Tony Blair, Gordon Brown e i loro spin-doctor. Finché questa ideologia continua a dominare, le riforme fiscali, economiche e sociali sono sostanzialmente impossibili da realizzare. In quale modo il centrodestra può risolvere questo problema? Come abbiamo visto, nella politica britannica postbellica i punti più alti sul terreno ideologico si sono avuti con il programma di welfare di Clement Attlee e con la rivoluzione del libero mercato promossa da Margaret Thatcher. L’una e l’altra filosofia, profondamente sincere, hanno saputo toccare il cuore dell’opinione pubblica britannica, e, in entrambi i casi, è stato il successo nella battaglia delle idee a permettere la realizzazione di radicali riforme. L’amministrazione del New Labour di Tony Blair e Gordon Brown, al contrario, ha costruito un’ideologia sintetica composta da elementi essenziali di queste due filosofie.
Le crisi possono offrire un terreno fertile per il cambiamento – ma soltanto se il nuovo governo è in grado di ottenere l’adesione dell’elettorato a un programma di riforme fondato su autentiche convinzioni. La competenza può essere sufficiente in tempi di relativa calma, ma la capacità gestionale non è mai sufficiente in periodi di crisi.
Questo punto può essere ribadito ponendosi la domanda su cosa farebbe, in tali circostanze, un governo che già disponesse della superiorità e della confidenza sul terreno ideologico. Con il più alto deficit di tutto il mondo sviluppato, e un’economia in declino, un governo solido, fiducioso nei propri mezzi e sostenuto dall’appoggio popolare prenderebbe concreti provvedimenti per ridurre la spesa pubblica, tagliando non soltanto i costi di gestione amministrativa ma diminuendo anche il peso del sistema del welfare. Le risorse sarebbero trasferite da settori economici ormai incapaci di ulteriore crescita a settori in grado di crescere, si incoraggerebbero gli investimenti e l’imprenditorialità e si promuoverebbe l’autonomia. Si affronterebbero con decisione i problemi istituzionali. Per fare ciò, tuttavia, un governo avrebbe bisogno di assicurarsi il consenso dell’opinione pubblica nei confronti della filosofia che sta alla base delle sue politiche. Ci sono due fattori che, considerati congiuntamente, rendono per il centrodestra molto difficile realizzare oggi un tale programma. Il primo sta nella convinzione che il sistema capitalista abbia sostanzialmente fallito, sia sul piano pratico che su quello morale, come risulta dal test della “onestà”, per quanto semplicistico e distorto possa essere. Il secondo sta nel fatto che per tredici anni il Partito laburista ha favorito un’ideologia sintetica, che non è stata finora sottoposta a un’efficace critica. Infine, per avere successo, una nuova ideologia deve affrontare entrambe le questioni e, inoltre, deve essere in grado di offrire quella che oggi si definisce una “killer application”.
Prima necessità, riabilitare il capitalismo
In Gran Bretagna, come in qualsiasi altro paese del mondo, l’istinto automatico dei politici di centrodestra è quello di difendere il capitalismo del libero mercato. Ma il capitalismo attuale non è forse talmente corrotto da risultare indifendibile? Il tenore di vita del cittadino medio sta riducendosi con una rapidità che non ha precedenti nella storia recente. Allo stesso tempo, l’élite benestante sembra restare più ricca che mai. Non sorprende, perciò, che il sostegno popolare per il sistema capitalistico precipiti sempre più in basso. La prima cosa da riconoscere è che, sebbene nessun sistema si conformi interamente al suo ideale teorico, il capitalismo pratico di oggi assomiglia sempre meno al capitalismo teorico. Inoltre, l’attuale variante del capitalismo non è né equa né efficace. Pertanto ciò di cui abbiamo bisogno è un capitalismo che risulti accettabile per l’opinione pubblica e che sia utile a ciascuno di noi, anziché una variante corrotta vantaggiosa soltanto per una ristretta minoranza. Di conseguenza, non è il classico capitalismo del libero mercato ad avere fallito. Al contrario, come ha detto il dottor Woody Brock, a fallire è stata una versione “imbastardita” del sistema capitalistico, ben diversa dal vero e autentico capitalismo.
Lasciato interamente a se stesso, il capitalismo tende a distruggere gli stessi principi su cui si fonda. L’istinto del business è quello di cercare combinazioni che riducano la competizione, di abbassare i salari (cosa che mette in pericolo la domanda) e di ridurre il libero flusso delle informazioni su cui si basa un efficace funzionamento del mercato. Perciò, lo scopo della regolamentazione, correttamente intesa, dovrebbe essere quello di incoraggiare l’innovazione, la competizione e il flusso delle informazioni, in modo da salvare il capitalismo dall’autodistruzione.
Idealmente, le transazioni e i contratti vengono stipulati liberamente tra parti le cui posizioni di contrattazione sono sostanzialmente uguali, in un contesto in cui le informazioni sono disponibili a tutti. Mentre le aziende cercano di perseguire gli interessi dei loro proprietari, i loro profitti dovrebbero essere strettamente allineati al livello di soddisfazione della domanda dei consumatori. Per l’economia del libero mercato tanto i monopoli quanto i monopolisti sono un anatema. La valutazione dei rischi deve essere concreta e reale, in modo che si produca un solido equilibrio tra rischi e profitti.
Ma nell’attuale versione “imbastardita” del capitalismo non si ha nessuna di queste cose. Le parti contraenti non hanno lo stesso potere di contrattazione. Gli operatori del mercato non hanno un uguale accesso alle informazioni. Non c’è alcun allineamento tra profitti e qualità dei prodotti offerti. Le decisioni non vengono prese dai proprietari del capitale ma, al contrario, dai manager, i cui obiettivi possono essere molto diversi da quelli degli azionisti. Le decisioni non sono sempre razionali. I rischi non sono valutati in modo corretto (i mutui subprime sono un perfetto esempio dei disastrosi effetti di una errata valutazione dei rischi).
Dare potere agli azionisti
Alla gente comune (si tratti di impiegati o di consumatori) deve essere garantito un trattamento migliore. Il punto da cui partire è il riconoscimento delle conseguenze del “divorzio tra proprietà e controllo”. All’inizio della rivoluzione industriale le aziende erano abbastanza piccole da poter essere gestite direttamente dai loro proprietari. Questa relazione si è dissolta con la crescita delle aziende, che dall’ambito locale sono passate a quello nazionale e poi a quello multinazionale. Oggi, quasi tutte le grandi aziende sono gestite da amministratori che agiscono come rappresentanti di un vasto e diversificato corpo di azionisti, ed è estremamente sconsiderato supporre che gli interessi di entrambi siano coincidenti. E’ questo che rende estremamente ingenua la convinzione di Alan Greenspan che le banche agiscano sempre nell’interesse dei loro azionisti.
Il settore bancario rappresenta l’esempio estremo della divergenza tra gli interessi degli azionisti e quelli del management. Nel corso dell’ultimo decennio, mentre gli amministratori delegati delle banche hanno ricevuto enormi retribuzioni, i profitti degli azionisti, nella forma di dividendi e di rivalutazione del capitale, sono stati del tutto insignificanti o addirittura in negativo. Il risentimento pubblico per gli stipendi guadagnati dai banchieri non coglie un punto di cruciale importanza: questi stipendi sono stati totalmente fuori fase rispetto ai guadagni degli azionisti, i quali, per la maggior parte, sono gente comune i cui investimenti sono direttamente controllati dalle istituzioni.
Questo, naturalmente, secondo logica non avrebbe dovuto accadere, in quanto gli amministratori delegati hanno un obbligo fiduciario nei confronti degli azionisti. In pratica, questo rapporto è stato sottoposto a notevoli abusi. Gli amministratori delegati si sono presi rischi che mentre nei periodi favorevoli gli garantiscono forti profitti danneggiano invece gravemente gli azionisti quando le cose iniziano ad andare male.
Si potrebbero fare parecchie cose per creare un rapporto più equo tra amministratori delegati e azionisti. Si potrebbero mantenere fondi premio a lungo termine in depositi presso terzi, da cui si possa detrarre denaro nel caso che il rendimento per gli azionisti sia negativo. Regole di trasparenza più rigide potrebbero esigere la pubblicazione dei dati sull’aumento di valore di reddito e capitale di manager e proprietari, in modo da permettere un confronto fra di essi. Tale sistema potrebbe anche richiedere la pubblicazione anonima di tutti i pacchetti di retribuzioni superiori di dieci volte alla media dei guadagni nazionali (quindi, nel Regno Unito, circa 230.000 sterline).
Il settore bancario sostiene che un simile approccio frenerebbe l’innovazione. Ma l’innovazione non è tutto. Un equilibrio tra innovazione e probità è altrettanto importante. I premi per l’innovazione sono giusti, ma non se sono resi esenti da rischi in modi che espongono gli azionisti a possibili perdite e che, in casi estremi, minacciano i contribuenti.
Abbandonare il concetto di “troppo grande per fallire”
I governi di tutto il mondo occidentale devono anche affrontare e risolvere il grande dilemma del “troppo grande per fallire”. La risposta più giusta a questo dilemma, naturalmente, è il ristabilimento della separazione tra attività al minuto a basso rischio e investment banking ad alto rischio. Se le banche d’investimento vogliono assumersi rischi, devono essere libere di farlo, ma le conseguenze negative di un insuccesso non devono essere neutralizzate mettendo le mani nelle tasche dei contribuenti. In mancanza di una separazione completa, si può ricorrere al concetto di bancarotta interna. Se una azienda “normale” fallisce, gli imprenditori ne risentono pesantemente. Nel caso di una bancarotta, queste persone possono perdere il proprio lavoro, i propri beni e i loro investimenti pensionistici, e, in alcune circostanze, rimanere esclusi per lunghi periodi. Se un’operazione di investment banking danneggia una banca fino al punto di rendere necessario l’intervento dei contribuenti, si dovrebbe applicare un provvedimento interno equivalente al normale processo di bancarotta. Sebbene la banca stessa continui a sopravvivere grazie all’intervento dei contribuenti, i suoi amministratori delegati devono essere licenziati, subire la confisca dei loro fondi premio in deposito a garanzia e dei loro piani pensionistici e, in certi casi, restare interdetti dal lavoro. Se, nel salvare le banche in difficoltà, il governo laburista avesse applicato sanzioni di questo tipo ai responsabili, oggi il disprezzo nei confronti dei banchieri non sarebbe così profondo e diffuso.
Impedire lo scoppio di bolle
La Banca centrale del nostro paese deve inoltre avere il potere di impedire lo scoppio di bolle. L’autorità del Monetary Policy Committee deve includere anche il controllo del prezzo degli asset e dell’inflazione al dettaglio, e la Banca d’Inghilterra deve intervenire se i prestatori non si attengono a un prudente rapporto tra prestito e redditto. Il governo deve anche rendersi conto del fatto che elevati prezzi degli immobili non rappresentano necessariamente un vantaggio sociale. Un eccessivo investimento teso a incrementare il valore delle proprietà immobiliari – che sono patrimoni improduttivi – determina una subsidenza di capitale, impedendo gli investimenti in attività autenticamente produttive. Il prezzo inflazionato delle case incoraggia l’eccessiva accumulazione del credito al consumo, e l’elevato costo degli immobili irrigidisce il mercato del lavoro e costituisce un grave ostacolo per i giovani. Ad ogni boom nel prezzo delle case, inoltre, segue inevitabilmente un crollo. Non si può dare alcuna credibilità alla rituale pretesa degli organi di controllo che le bolle dei prezzi degli immobili non si possano prevedere.
Le crisi possono offrire un terreno fertile per il cambiamento – ma soltanto se il nuovo governo è in grado di ottenere l’adesione dell’elettorato a un programma di riforme fondato su autentiche convinzioni. La competenza può essere sufficiente in tempi di relativa calma, ma la capacità gestionale non è mai sufficiente in periodi di crisi.
Questo punto può essere ribadito ponendosi la domanda su cosa farebbe, in tali circostanze, un governo che già disponesse della superiorità e della confidenza sul terreno ideologico. Con il più alto deficit di tutto il mondo sviluppato, e un’economia in declino, un governo solido, fiducioso nei propri mezzi e sostenuto dall’appoggio popolare prenderebbe concreti provvedimenti per ridurre la spesa pubblica, tagliando non soltanto i costi di gestione amministrativa ma diminuendo anche il peso del sistema del welfare. Le risorse sarebbero trasferite da settori economici ormai incapaci di ulteriore crescita a settori in grado di crescere, si incoraggerebbero gli investimenti e l’imprenditorialità e si promuoverebbe l’autonomia. Si affronterebbero con decisione i problemi istituzionali. Per fare ciò, tuttavia, un governo avrebbe bisogno di assicurarsi il consenso dell’opinione pubblica nei confronti della filosofia che sta alla base delle sue politiche. Ci sono due fattori che, considerati congiuntamente, rendono per il centrodestra molto difficile realizzare oggi un tale programma. Il primo sta nella convinzione che il sistema capitalista abbia sostanzialmente fallito, sia sul piano pratico che su quello morale, come risulta dal test della “onestà”, per quanto semplicistico e distorto possa essere. Il secondo sta nel fatto che per tredici anni il Partito laburista ha favorito un’ideologia sintetica, che non è stata finora sottoposta a un’efficace critica. Infine, per avere successo, una nuova ideologia deve affrontare entrambe le questioni e, inoltre, deve essere in grado di offrire quella che oggi si definisce una “killer application”.
Prima necessità, riabilitare il capitalismo
In Gran Bretagna, come in qualsiasi altro paese del mondo, l’istinto automatico dei politici di centrodestra è quello di difendere il capitalismo del libero mercato. Ma il capitalismo attuale non è forse talmente corrotto da risultare indifendibile? Il tenore di vita del cittadino medio sta riducendosi con una rapidità che non ha precedenti nella storia recente. Allo stesso tempo, l’élite benestante sembra restare più ricca che mai. Non sorprende, perciò, che il sostegno popolare per il sistema capitalistico precipiti sempre più in basso. La prima cosa da riconoscere è che, sebbene nessun sistema si conformi interamente al suo ideale teorico, il capitalismo pratico di oggi assomiglia sempre meno al capitalismo teorico. Inoltre, l’attuale variante del capitalismo non è né equa né efficace. Pertanto ciò di cui abbiamo bisogno è un capitalismo che risulti accettabile per l’opinione pubblica e che sia utile a ciascuno di noi, anziché una variante corrotta vantaggiosa soltanto per una ristretta minoranza. Di conseguenza, non è il classico capitalismo del libero mercato ad avere fallito. Al contrario, come ha detto il dottor Woody Brock, a fallire è stata una versione “imbastardita” del sistema capitalistico, ben diversa dal vero e autentico capitalismo.
Lasciato interamente a se stesso, il capitalismo tende a distruggere gli stessi principi su cui si fonda. L’istinto del business è quello di cercare combinazioni che riducano la competizione, di abbassare i salari (cosa che mette in pericolo la domanda) e di ridurre il libero flusso delle informazioni su cui si basa un efficace funzionamento del mercato. Perciò, lo scopo della regolamentazione, correttamente intesa, dovrebbe essere quello di incoraggiare l’innovazione, la competizione e il flusso delle informazioni, in modo da salvare il capitalismo dall’autodistruzione.
Idealmente, le transazioni e i contratti vengono stipulati liberamente tra parti le cui posizioni di contrattazione sono sostanzialmente uguali, in un contesto in cui le informazioni sono disponibili a tutti. Mentre le aziende cercano di perseguire gli interessi dei loro proprietari, i loro profitti dovrebbero essere strettamente allineati al livello di soddisfazione della domanda dei consumatori. Per l’economia del libero mercato tanto i monopoli quanto i monopolisti sono un anatema. La valutazione dei rischi deve essere concreta e reale, in modo che si produca un solido equilibrio tra rischi e profitti.
Ma nell’attuale versione “imbastardita” del capitalismo non si ha nessuna di queste cose. Le parti contraenti non hanno lo stesso potere di contrattazione. Gli operatori del mercato non hanno un uguale accesso alle informazioni. Non c’è alcun allineamento tra profitti e qualità dei prodotti offerti. Le decisioni non vengono prese dai proprietari del capitale ma, al contrario, dai manager, i cui obiettivi possono essere molto diversi da quelli degli azionisti. Le decisioni non sono sempre razionali. I rischi non sono valutati in modo corretto (i mutui subprime sono un perfetto esempio dei disastrosi effetti di una errata valutazione dei rischi).
Dare potere agli azionisti
Alla gente comune (si tratti di impiegati o di consumatori) deve essere garantito un trattamento migliore. Il punto da cui partire è il riconoscimento delle conseguenze del “divorzio tra proprietà e controllo”. All’inizio della rivoluzione industriale le aziende erano abbastanza piccole da poter essere gestite direttamente dai loro proprietari. Questa relazione si è dissolta con la crescita delle aziende, che dall’ambito locale sono passate a quello nazionale e poi a quello multinazionale. Oggi, quasi tutte le grandi aziende sono gestite da amministratori che agiscono come rappresentanti di un vasto e diversificato corpo di azionisti, ed è estremamente sconsiderato supporre che gli interessi di entrambi siano coincidenti. E’ questo che rende estremamente ingenua la convinzione di Alan Greenspan che le banche agiscano sempre nell’interesse dei loro azionisti.
Il settore bancario rappresenta l’esempio estremo della divergenza tra gli interessi degli azionisti e quelli del management. Nel corso dell’ultimo decennio, mentre gli amministratori delegati delle banche hanno ricevuto enormi retribuzioni, i profitti degli azionisti, nella forma di dividendi e di rivalutazione del capitale, sono stati del tutto insignificanti o addirittura in negativo. Il risentimento pubblico per gli stipendi guadagnati dai banchieri non coglie un punto di cruciale importanza: questi stipendi sono stati totalmente fuori fase rispetto ai guadagni degli azionisti, i quali, per la maggior parte, sono gente comune i cui investimenti sono direttamente controllati dalle istituzioni.
Questo, naturalmente, secondo logica non avrebbe dovuto accadere, in quanto gli amministratori delegati hanno un obbligo fiduciario nei confronti degli azionisti. In pratica, questo rapporto è stato sottoposto a notevoli abusi. Gli amministratori delegati si sono presi rischi che mentre nei periodi favorevoli gli garantiscono forti profitti danneggiano invece gravemente gli azionisti quando le cose iniziano ad andare male.
Si potrebbero fare parecchie cose per creare un rapporto più equo tra amministratori delegati e azionisti. Si potrebbero mantenere fondi premio a lungo termine in depositi presso terzi, da cui si possa detrarre denaro nel caso che il rendimento per gli azionisti sia negativo. Regole di trasparenza più rigide potrebbero esigere la pubblicazione dei dati sull’aumento di valore di reddito e capitale di manager e proprietari, in modo da permettere un confronto fra di essi. Tale sistema potrebbe anche richiedere la pubblicazione anonima di tutti i pacchetti di retribuzioni superiori di dieci volte alla media dei guadagni nazionali (quindi, nel Regno Unito, circa 230.000 sterline).
Il settore bancario sostiene che un simile approccio frenerebbe l’innovazione. Ma l’innovazione non è tutto. Un equilibrio tra innovazione e probità è altrettanto importante. I premi per l’innovazione sono giusti, ma non se sono resi esenti da rischi in modi che espongono gli azionisti a possibili perdite e che, in casi estremi, minacciano i contribuenti.
Abbandonare il concetto di “troppo grande per fallire”
I governi di tutto il mondo occidentale devono anche affrontare e risolvere il grande dilemma del “troppo grande per fallire”. La risposta più giusta a questo dilemma, naturalmente, è il ristabilimento della separazione tra attività al minuto a basso rischio e investment banking ad alto rischio. Se le banche d’investimento vogliono assumersi rischi, devono essere libere di farlo, ma le conseguenze negative di un insuccesso non devono essere neutralizzate mettendo le mani nelle tasche dei contribuenti. In mancanza di una separazione completa, si può ricorrere al concetto di bancarotta interna. Se una azienda “normale” fallisce, gli imprenditori ne risentono pesantemente. Nel caso di una bancarotta, queste persone possono perdere il proprio lavoro, i propri beni e i loro investimenti pensionistici, e, in alcune circostanze, rimanere esclusi per lunghi periodi. Se un’operazione di investment banking danneggia una banca fino al punto di rendere necessario l’intervento dei contribuenti, si dovrebbe applicare un provvedimento interno equivalente al normale processo di bancarotta. Sebbene la banca stessa continui a sopravvivere grazie all’intervento dei contribuenti, i suoi amministratori delegati devono essere licenziati, subire la confisca dei loro fondi premio in deposito a garanzia e dei loro piani pensionistici e, in certi casi, restare interdetti dal lavoro. Se, nel salvare le banche in difficoltà, il governo laburista avesse applicato sanzioni di questo tipo ai responsabili, oggi il disprezzo nei confronti dei banchieri non sarebbe così profondo e diffuso.
Impedire lo scoppio di bolle
La Banca centrale del nostro paese deve inoltre avere il potere di impedire lo scoppio di bolle. L’autorità del Monetary Policy Committee deve includere anche il controllo del prezzo degli asset e dell’inflazione al dettaglio, e la Banca d’Inghilterra deve intervenire se i prestatori non si attengono a un prudente rapporto tra prestito e redditto. Il governo deve anche rendersi conto del fatto che elevati prezzi degli immobili non rappresentano necessariamente un vantaggio sociale. Un eccessivo investimento teso a incrementare il valore delle proprietà immobiliari – che sono patrimoni improduttivi – determina una subsidenza di capitale, impedendo gli investimenti in attività autenticamente produttive. Il prezzo inflazionato delle case incoraggia l’eccessiva accumulazione del credito al consumo, e l’elevato costo degli immobili irrigidisce il mercato del lavoro e costituisce un grave ostacolo per i giovani. Ad ogni boom nel prezzo delle case, inoltre, segue inevitabilmente un crollo. Non si può dare alcuna credibilità alla rituale pretesa degli organi di controllo che le bolle dei prezzi degli immobili non si possano prevedere.
Le riforme tese a garantire un trattamento migliore agli individui (impiegati e utenti) non possono naturalmente limitarsi a una regolamentazione più rigida delle attività bancarie. Mentre, teoricamente, in un’economia capitalista i contratti dovrebbero essere stipulati tra parti con pari opportunità, la realtà pratica è ben diversa. Tale parità non è naturalmente realizzabile, ma l’ago della bilancia si è spostato eccessivamente a svantaggio dei giocatori più piccoli. A tutti costoro, siano essi utenti, dipendenti o fornitori, deve essere garantita una posizione negoziale più forte.
Il metodo consueto per esercitare uno squilibrio di potere è l’imposizione di “termini e condizioni” che i giocatori più piccoli sono costretti ad accettare, esplicitamente o implicitamente. Tali termini sono spesso scritti in forme quasi completamente sbilanciate in favore dei fornitori, e sono regolarmente utilizzati come uno scudo attraverso il quale questi ultimi possono giustificare e difendere pratiche non eque.
Il metodo consueto per esercitare uno squilibrio di potere è l’imposizione di “termini e condizioni” che i giocatori più piccoli sono costretti ad accettare, esplicitamente o implicitamente. Tali termini sono spesso scritti in forme quasi completamente sbilanciate in favore dei fornitori, e sono regolarmente utilizzati come uno scudo attraverso il quale questi ultimi possono giustificare e difendere pratiche non eque.
Se si vuole avere un capitalismo più equo e proteggere i diritti dei giocatori più piccoli, il governo deve elaborare delle forme di risarcimento. Un modo per realizzare questo obiettivo sarebbe quello di creare una Corte di Equità. A tale Corte dovrebbe essere data l’autorità di annullare “termini e condizioni” ritenute eccessivamente sbilanciate. Le aziende dovrebbero scrivere i propri termini contrattuali nel rispetto dei dettami della Corte, rafforzando in questo modo la posizione dei giocatori più piccoli e deboli. Sebbene contratti giusti ed equi siano importanti per il buon funzionamento dei mercati, il governo deve anche tenere sotto controllo la tendenza a sfruttare la legge contrattuale per rafforzare l’inequità tra grandi e piccoli operatori del mercato.
Ristabilire la connessione tra successo e ricompensa
La riforma del capitalismo deve contemplare anche una ben maggiore trasparenza. Abbiamo già parlato della pubblicazione dei dati relativi agli stipendi dei vertici gestionali, così come di quelli relativi ai guadagni degli amministratori delegati e degli azionisti, ma si deve fare molto di più per garantire un più giusto rapporto tra successo e ricompensa.
Di conseguenza, i premi (bonus) devono essere tenuti in depositi presso terzi a lungo termine che siano aperti al recupero, e le compagnie devono rendere note le misure e i criteri sulla cui base vengono prese le decisioni relative ai premi. In linea di principio, si potrebbe stabilire una duplice chiusura sui premi, che non dovrebbero essere pagati a meno che gli azionisti non abbiano ottenuto un vantaggio sia attraverso un aumento dei profitti sia attraverso un incremento dei prezzi delle azioni. Se il prezzo delle azioni di una compagnia scende, o se i guadagni si riducono, non deve essere pagato nessun premio.
Un altro settore in cui gli amministratori delegati esercitano una sproporzionata influenza in rapporto agli azionisti riguarda l’utilizzo del debito. Il problema, in questo caso, è che gli azionisti risultano svantaggiati perché il capitale di debito è più economico del capitale netto, i costi dell’interesse essendo deducibili dalle tasse, a differenza dei dividendi. Ciò è comunque svantaggioso, in quanto determina una preferenza per il capitale di debito rispetto al capitale netto. Come misura ad interim, la deducibilità fiscale deve essere ristretta al 50 per cento dei profitti al lordo di imposte. Per esempio, a una compagnia che ha un profitto di 100 milioni di sterline ma anche un interesse sul debito pure di 100 milioni non deve essere consentito di compensare più di 50 milioni di sterline del costo dell’interesse rispetto ai profitti tassabili. Il reddito aggiuntivo ricevuto dal ministero del tesoro in conseguenza di un tale provvedimento dovrebbe essere usato per iniziare a porre rimedio all’iniqua soppressione, attuata da Gordon Brown, degli sgravi fiscali sui dividendi dei fondi pensionistici.
Bancarotta interna, Corte di Equità, maggiore trasparenza, regole più rigide sui premi e restrizioni sulla deducibilità fiscale dell’interesse potrebbero essere gli elementi legislativi fondamentali di un piano di riforma.
Seconda necessità imperativa: riaffermare una politica etica
Una caratteristica distintiva del governo di Margaret Thatcher, e una delle principali ragioni del suo successo, è stata la determinazione a vincere quella che la stessa Thatcher definì la “battaglia delle idee”. Il suo principale alleato in questo sforzo fu Sir Keith Joseph. Il quale era convinto che si stessero aprendo nuove opportunità in quanto il consenso keynesiano, che fino ad allora aveva impedito ai conservatori di “combattere una tenace battaglia delle idee”, stava ormai dissolvendosi. Il governo di Margaret Thatcher, disse Sir Keith, aveva bisogno di “una analisi diversa e di una diversa serie di politiche”.
Il ritorno della politica dell’invidia
Le forme distorte della moralità selettiva promosse dal New Labour non sono nate per caso. Quando Tony Blair proclamò che il Partito laburista “doveva ben più che semplicemente sconfiggere i conservatori” e che “doveva cambiare la direzione delle idee”, prevedeva la formazione di una nuova ideologia, fondata su un vago concetto di “equità”, che tuttavia si dimostrò essere di natura sintetica e profondamente contraddittorio. Era “equo”, per esempio, saccheggiare i fondi pensionistici dei lavoratori? Era “equo” accumulare un enorme debito da scaricare sulle spalle delle future generazioni? Ed era “equo” implementare una gigantesca espansione della sorveglianza di Stato? Quest’ultimo provvedimento, in particolare, mise a nudo l’istintiva intolleranza laburista del pluralismo sulle questioni morali. Queste contraddizioni possono essere evitate grazie a una filosofia capace di riconoscere che nessun governo possiede un monopolio sulla rettitudine morale. Soltanto una politica che assegni un reale potere all’individuo può sfuggire a queste contraddizioni, riconoscendo la legittima pluralità delle opinioni e dei valori.
Il problema del centrodestra è che il concetto soggettivo di “equità” di Blair e Brown continua a dominare il panorama politico britannico, almeno nella forma della politica dell’invidia. Se questa eredità del New Labour non viene neutralizzata, l’attuazione di riforme concrete fondate sull’imprenditorialità risulterà probabilmente impossibile. L’imprenditorialità, in fin dei conti, richiede vincitori e perdenti, un fatto rispetto al quale la politica dell’invidia risulta antitetica.
E in periodi di austerità la sfida ideologica appare ancora più ardua. La fine simultanea del “Brown boom” e del superciclo del credito occidentale ha reso inevitabile il deterioramento del tenore di vita, anche se il Partito laburista ha cercato di rimandare questo fatto inevitabile contraendo enormi prestiti.
Ma quasi tutti ormai si rendono conto che la Gran Bretagna ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, e che è necessario stringere la cinghia; ma sono anche convinti che le cinghie da stringere sono quelle altrui. Questo vale in particolar modo per la “spremuta” classe media: i “ricchi” continuano a prosperare, mentre lo stato si prende cura soltanto dei cittadini che vivono grazie ai sussidi statali. La classe media è quella che soffre di più.
Questa percezione è largamente giustificata. I banchieri, in effetti, continuano a intascarsi enormi premi, e gli amministratori delegati continuano ad assegnarsi lauti aumenti di stipendio. Ben poco, o nulla, è stato fatto per ridurre i redditi di coloro che stanno al vertice della macchina statale, e il recente incremento del 5,2 per cento dei sussidi statali risulta in stridente contrasto con il ristagno dei salari dei lavoratori.
Per il momento, la rabbia della classe media è rivolta contro i “ricchi”. All’inizio, tale rabbia era rivolta, molto comprensibilmente, contro i banchieri che avevano approfittato dei rischi che mettono in pericolo l’economia. Poi, la rabbia è stata estesa in generale a tutti i banchieri e agli amministratori delegati delle grandi aziende. Con l’eccezione delle celebrità – che sono in qualche modo rimaste esenti dal contagio – il risentimento si è ulteriormente ampliato fino a includere chiunque sia considerato “ricco”.
E’ una tendenza pericolosa. Poiché la rabbia contro i “ricchi” mina alle fondamenta il concetto dell’imprenditorialità, la cosa rappresenta un danno per l’economia. Portata fino alle sue conseguenze estreme, questa logica farebbe un bersaglio di chiunque si sollevi al di sopra di un reddito medio. Una società che si scaglia contro il successo è una società che ripudia lo sforzo per la qualità e l’affermazione; e una società contraria a tale sforzo è una società che, consapevolmente o inconsapevolmente, ha scelto la strada di un rapido declino economico.
Il logico passo successivo, questa volta destinato a danneggiare la società stessa anziché la sola economia, sarebbe quello di una rabbia rivolta dalla classe media anche verso lo strato più povero della popolazione. Se ciò accadesse, i destinatari dei sussidi statali potrebbero diventare un altro bersaglio del risentimento della classe media.
Ci sono due modi per affrontare l’autodistruttiva politica dell’invidia, mascherata dietro la fasulla moralità della “equità”. In primo luogo, è necessario attuare una riforma del capitalismo. In secondo luogo, bisogna affrontare la questione del linguaggio della politica. Il linguaggio, infatti, non è semplicemente un veicolo neutrale per mezzo del quale si discutono le idee. Al contrario, la scelta del linguaggio è in se stessa normativa, un punto perfettamente compreso da Tony Blair e i suoi spin-doctor. Per illustrare questo punto con un esempio concreto, ecco come si può formulare la richiesta di una redistribuzione. Primo: “La società deve prendere il denaro ai ricchi e darlo ai poveri”. Secondo: “La società deve prendere il denaro a quelli che lavorano duramente e darlo a quelli che non hanno lavoro”.
Il nocciolo della questione è che, mentre la maggior parte della gente accetta la prima formulazione, ben pochi sarebbero disposti a concordare con la seconda. Uno dei tipici trucchi utilizzati dal New Labour è stato appunto il dominio del linguaggio e la coniazione di eufemismi. Ecco un altro esempio. Primo: “E’ imperativo proteggere i diritti dei lavoratori”. Secondo: “Dobbiamo proteggere i privilegi di coloro che hanno già un lavoro anche se questo impedisce ai disoccupati di trovare lavoro”.
Il linguaggio ha un’importanza decisiva se si vuole riconquistare il campo etico. Non è sufficiente sottolineare semplicemente che ci sono troppi pochi “ricchi” per salvare le finanze pubbliche, che imposte molto elevate provocano una riduzione nelle entrate o che un sistema che punisce chi ha successo mina alle fondamenta la crescita economica. La logica deve essere completata da un adeguato linguaggio. Ecco alcuni esempi di quanto potrebbe funzionare: a) “Ricompenseremo l’impegno e il successo. Il fallimento e la mediocrità non saranno premiati”; b) “Il nostro successo economico deve essere vantaggioso per chiunque lavori, e non soltanto per un’avida minoranza”; c) “Sradicheremo i vantaggi e i privilegi immeritati”; d) “Bloccheremo le compagnie e gli organi di governo che sfruttano a proprio vantaggio la gente comune”.
Queste dichiarazioni esemplificative devono essere sostenute da concrete scelte politiche. Dopo undici anni di governo del New Labour, l’elettorato può facilmente individuare la vuota retorica. Fortunatamente, tutte queste dichiarazioni sono in linea con la necessità imperativa di riformare il capitalismo.
Terza necessità imperativa: applicare la “killer app” dell’individualismo
Come abbiamo visto, dopo la Seconda guerra mondiale si sono seguite varie ideologie politiche, dal programma socialista di Clement Attlee all’economia del libero mercato di Margaret Thatcher. Ma, in mezzo a tutti questi cambiamenti, un fattore è rimasto costante. Questo fattore è la riduzione dell’importanza dell’individuo in rapporto al collettivismo e al corporativismo, tendenza perfettamente simboleggiata dalla continua erosione delle libertà individuali.
Da questo punto di vista, la questione pratica è che la crescita del potere dello stato e delle corporation sta producendo una ben più grande e ancora più pericolosa divisione della società in “noi” e “loro”. “Loro”, in misura sempre maggiore, sono i “ricchi”, i legislatori, la macchina statale e i suoi funzionari, i media, le corporation. I recenti scandali hanno confermato sospetti già da tempo nutriti: i membri del parlamento sono stati macchiati dagli scandali sulle spese, i media sono stati screditati dalle rivelazioni sulle intercettazioni telefoniche, la reputazione della polizia è stata compromessa da accuse di corruzione, i banchieri sono disprezzati e i boss delle corporation detestati per i continui aumenti delle loro retribuzioni. Il governo, a livello sia locale sia nazionale, è considerato sempre più intrusivo, anche in ambiti del tutto irrilevanti, e al tempo stesso incapace di garantire un’amministrazione efficiente.
La riduzione dell’importanza dell’individuo è la conseguenza della crescita della burocrazia. Durante le amministrazioni laburiste, la burocrazia (e un suo derivato, la comitato-crazia) ha prosperato in un paese caratterizzato da sempre più elevate spese governative. Ma anche quando sono stati al potere i conservatori, la burocrazia è riuscita a conservare tutti i propri poteri.
Nel suo tentativo di impedire la crescita sproporzionata della burocrazia il centrodestra è stato ostacolato da due problemi sostanziali. Il primo consiste nel fatto che vi è un’implicita contraddizione nel chiedere a dei burocrati di ridurre la burocrazia. Posta di fronte alla scelta di tagliare i costi della gestione amministrativa o quelli del pubblico impiego, la burocrazia tenderà a optare per i secondi, cosa che offre il vantaggio di conservare l’autorità e i privilegi dell’apparato statale massimizzando allo stesso tempo l’impopolarità elettorale delle riduzioni della spesa.
La seconda ragione della resilienza della burocrazia sta nella tendenza dei ministri ad “assumere i costumi e le usanze locali” una volta entrati in carica. Un ministro laburista che, quando era all’opposizione, si era opposto ai piani di restrizione del diritto di processo con giuria, una volta entrato in carica ha presentato una proposta di legge quasi esattamente identica. I conservatori che, finché rimasti all’opposizione, si erano opposti all’estensione dei poteri di sorveglianza, ora sembrano essersene fatti paladini.
Sfide e scelte
La Gran Bretagna sta seguendo una rotta insostenibile. Questo vale per l’economia, le finanze governative, la difesa nazionale, la stabilità delle istituzioni e la coesione sociale. L’economia ristagna, e non appare verosimile che si possano ottenere miglioramenti dato che vi sono enormi distorsioni strutturali a vantaggio di settori dipendenti dagli ormai defunti elementi trainanti del prestito privato e della spesa pubblica. Se non aumenta la produttività, il piano di riequilibrio fiscale del centrodestra è destinato ad affondare. I previsti tagli alle spese statali sono alquanto modesti, e le spese governative resteranno più alte di quanto l’economia del paese è in grado di permettersi. La Gran Bretagna ha prodotto una cultura dei diritti acquisiti e delle indennità che rende politicamente inverosimile un concreto riequilibrio del budget. Tenendo conto della crescita del debito pubblico (e anche dell’indebitamento dei singoli individui), la conclusione logica dell’attuale orientamento economico è il fallimento. Un paese che vive al di sopra delle sue possibilità raggiunge prima o poi il punto in cui la disponibilità dei prestatori stranieri a sostenere tale tenore di vita si esaurisce.
Buona parte delle più importanti istituzioni britanniche (compreso il Parlamento, i media, la polizia e il sistema bancario) sono state screditate. La rabbia pubblica contro i “ricchi” sta ormai soffocando l’attività imprenditoriale e spinge verso una forma di egualitarismo che rende impossibile il funzionamento di una economia del libero mercato.
Il disprezzo verso i “ricchi” potrebbe trasformarsi in un più generalizzato disprezzo verso coloro che stanno al vertice delle strutture di potere. Le rivolte che hanno sconvolto le città inglesi nell’estate del 2011 hanno inoltre rivelato una crescente disillusione popolare nei confronti delle istituzioni, e l’élite di governo viene considerata, in misura sempre maggiore, corrotta, avida e ipocrita.
Non è difficile individuare quali siano le riforme necessarie per avviare una ripresa economica. Ma la loro attuazione risulterà impossibile se non si ottiene il sostegno dell’elettorato. Questo, a sua volta, richiede un’ideologia persuasiva fondata sulla realtà, non un’artificiale costruzione sintetica come quella promossa dal New Labour.
Ristabilire la connessione tra successo e ricompensa
La riforma del capitalismo deve contemplare anche una ben maggiore trasparenza. Abbiamo già parlato della pubblicazione dei dati relativi agli stipendi dei vertici gestionali, così come di quelli relativi ai guadagni degli amministratori delegati e degli azionisti, ma si deve fare molto di più per garantire un più giusto rapporto tra successo e ricompensa.
Di conseguenza, i premi (bonus) devono essere tenuti in depositi presso terzi a lungo termine che siano aperti al recupero, e le compagnie devono rendere note le misure e i criteri sulla cui base vengono prese le decisioni relative ai premi. In linea di principio, si potrebbe stabilire una duplice chiusura sui premi, che non dovrebbero essere pagati a meno che gli azionisti non abbiano ottenuto un vantaggio sia attraverso un aumento dei profitti sia attraverso un incremento dei prezzi delle azioni. Se il prezzo delle azioni di una compagnia scende, o se i guadagni si riducono, non deve essere pagato nessun premio.
Un altro settore in cui gli amministratori delegati esercitano una sproporzionata influenza in rapporto agli azionisti riguarda l’utilizzo del debito. Il problema, in questo caso, è che gli azionisti risultano svantaggiati perché il capitale di debito è più economico del capitale netto, i costi dell’interesse essendo deducibili dalle tasse, a differenza dei dividendi. Ciò è comunque svantaggioso, in quanto determina una preferenza per il capitale di debito rispetto al capitale netto. Come misura ad interim, la deducibilità fiscale deve essere ristretta al 50 per cento dei profitti al lordo di imposte. Per esempio, a una compagnia che ha un profitto di 100 milioni di sterline ma anche un interesse sul debito pure di 100 milioni non deve essere consentito di compensare più di 50 milioni di sterline del costo dell’interesse rispetto ai profitti tassabili. Il reddito aggiuntivo ricevuto dal ministero del tesoro in conseguenza di un tale provvedimento dovrebbe essere usato per iniziare a porre rimedio all’iniqua soppressione, attuata da Gordon Brown, degli sgravi fiscali sui dividendi dei fondi pensionistici.
Bancarotta interna, Corte di Equità, maggiore trasparenza, regole più rigide sui premi e restrizioni sulla deducibilità fiscale dell’interesse potrebbero essere gli elementi legislativi fondamentali di un piano di riforma.
Seconda necessità imperativa: riaffermare una politica etica
Una caratteristica distintiva del governo di Margaret Thatcher, e una delle principali ragioni del suo successo, è stata la determinazione a vincere quella che la stessa Thatcher definì la “battaglia delle idee”. Il suo principale alleato in questo sforzo fu Sir Keith Joseph. Il quale era convinto che si stessero aprendo nuove opportunità in quanto il consenso keynesiano, che fino ad allora aveva impedito ai conservatori di “combattere una tenace battaglia delle idee”, stava ormai dissolvendosi. Il governo di Margaret Thatcher, disse Sir Keith, aveva bisogno di “una analisi diversa e di una diversa serie di politiche”.
Il ritorno della politica dell’invidia
Le forme distorte della moralità selettiva promosse dal New Labour non sono nate per caso. Quando Tony Blair proclamò che il Partito laburista “doveva ben più che semplicemente sconfiggere i conservatori” e che “doveva cambiare la direzione delle idee”, prevedeva la formazione di una nuova ideologia, fondata su un vago concetto di “equità”, che tuttavia si dimostrò essere di natura sintetica e profondamente contraddittorio. Era “equo”, per esempio, saccheggiare i fondi pensionistici dei lavoratori? Era “equo” accumulare un enorme debito da scaricare sulle spalle delle future generazioni? Ed era “equo” implementare una gigantesca espansione della sorveglianza di Stato? Quest’ultimo provvedimento, in particolare, mise a nudo l’istintiva intolleranza laburista del pluralismo sulle questioni morali. Queste contraddizioni possono essere evitate grazie a una filosofia capace di riconoscere che nessun governo possiede un monopolio sulla rettitudine morale. Soltanto una politica che assegni un reale potere all’individuo può sfuggire a queste contraddizioni, riconoscendo la legittima pluralità delle opinioni e dei valori.
Il problema del centrodestra è che il concetto soggettivo di “equità” di Blair e Brown continua a dominare il panorama politico britannico, almeno nella forma della politica dell’invidia. Se questa eredità del New Labour non viene neutralizzata, l’attuazione di riforme concrete fondate sull’imprenditorialità risulterà probabilmente impossibile. L’imprenditorialità, in fin dei conti, richiede vincitori e perdenti, un fatto rispetto al quale la politica dell’invidia risulta antitetica.
E in periodi di austerità la sfida ideologica appare ancora più ardua. La fine simultanea del “Brown boom” e del superciclo del credito occidentale ha reso inevitabile il deterioramento del tenore di vita, anche se il Partito laburista ha cercato di rimandare questo fatto inevitabile contraendo enormi prestiti.
Ma quasi tutti ormai si rendono conto che la Gran Bretagna ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, e che è necessario stringere la cinghia; ma sono anche convinti che le cinghie da stringere sono quelle altrui. Questo vale in particolar modo per la “spremuta” classe media: i “ricchi” continuano a prosperare, mentre lo stato si prende cura soltanto dei cittadini che vivono grazie ai sussidi statali. La classe media è quella che soffre di più.
Questa percezione è largamente giustificata. I banchieri, in effetti, continuano a intascarsi enormi premi, e gli amministratori delegati continuano ad assegnarsi lauti aumenti di stipendio. Ben poco, o nulla, è stato fatto per ridurre i redditi di coloro che stanno al vertice della macchina statale, e il recente incremento del 5,2 per cento dei sussidi statali risulta in stridente contrasto con il ristagno dei salari dei lavoratori.
Per il momento, la rabbia della classe media è rivolta contro i “ricchi”. All’inizio, tale rabbia era rivolta, molto comprensibilmente, contro i banchieri che avevano approfittato dei rischi che mettono in pericolo l’economia. Poi, la rabbia è stata estesa in generale a tutti i banchieri e agli amministratori delegati delle grandi aziende. Con l’eccezione delle celebrità – che sono in qualche modo rimaste esenti dal contagio – il risentimento si è ulteriormente ampliato fino a includere chiunque sia considerato “ricco”.
E’ una tendenza pericolosa. Poiché la rabbia contro i “ricchi” mina alle fondamenta il concetto dell’imprenditorialità, la cosa rappresenta un danno per l’economia. Portata fino alle sue conseguenze estreme, questa logica farebbe un bersaglio di chiunque si sollevi al di sopra di un reddito medio. Una società che si scaglia contro il successo è una società che ripudia lo sforzo per la qualità e l’affermazione; e una società contraria a tale sforzo è una società che, consapevolmente o inconsapevolmente, ha scelto la strada di un rapido declino economico.
Il logico passo successivo, questa volta destinato a danneggiare la società stessa anziché la sola economia, sarebbe quello di una rabbia rivolta dalla classe media anche verso lo strato più povero della popolazione. Se ciò accadesse, i destinatari dei sussidi statali potrebbero diventare un altro bersaglio del risentimento della classe media.
Ci sono due modi per affrontare l’autodistruttiva politica dell’invidia, mascherata dietro la fasulla moralità della “equità”. In primo luogo, è necessario attuare una riforma del capitalismo. In secondo luogo, bisogna affrontare la questione del linguaggio della politica. Il linguaggio, infatti, non è semplicemente un veicolo neutrale per mezzo del quale si discutono le idee. Al contrario, la scelta del linguaggio è in se stessa normativa, un punto perfettamente compreso da Tony Blair e i suoi spin-doctor. Per illustrare questo punto con un esempio concreto, ecco come si può formulare la richiesta di una redistribuzione. Primo: “La società deve prendere il denaro ai ricchi e darlo ai poveri”. Secondo: “La società deve prendere il denaro a quelli che lavorano duramente e darlo a quelli che non hanno lavoro”.
Il nocciolo della questione è che, mentre la maggior parte della gente accetta la prima formulazione, ben pochi sarebbero disposti a concordare con la seconda. Uno dei tipici trucchi utilizzati dal New Labour è stato appunto il dominio del linguaggio e la coniazione di eufemismi. Ecco un altro esempio. Primo: “E’ imperativo proteggere i diritti dei lavoratori”. Secondo: “Dobbiamo proteggere i privilegi di coloro che hanno già un lavoro anche se questo impedisce ai disoccupati di trovare lavoro”.
Il linguaggio ha un’importanza decisiva se si vuole riconquistare il campo etico. Non è sufficiente sottolineare semplicemente che ci sono troppi pochi “ricchi” per salvare le finanze pubbliche, che imposte molto elevate provocano una riduzione nelle entrate o che un sistema che punisce chi ha successo mina alle fondamenta la crescita economica. La logica deve essere completata da un adeguato linguaggio. Ecco alcuni esempi di quanto potrebbe funzionare: a) “Ricompenseremo l’impegno e il successo. Il fallimento e la mediocrità non saranno premiati”; b) “Il nostro successo economico deve essere vantaggioso per chiunque lavori, e non soltanto per un’avida minoranza”; c) “Sradicheremo i vantaggi e i privilegi immeritati”; d) “Bloccheremo le compagnie e gli organi di governo che sfruttano a proprio vantaggio la gente comune”.
Queste dichiarazioni esemplificative devono essere sostenute da concrete scelte politiche. Dopo undici anni di governo del New Labour, l’elettorato può facilmente individuare la vuota retorica. Fortunatamente, tutte queste dichiarazioni sono in linea con la necessità imperativa di riformare il capitalismo.
Terza necessità imperativa: applicare la “killer app” dell’individualismo
Come abbiamo visto, dopo la Seconda guerra mondiale si sono seguite varie ideologie politiche, dal programma socialista di Clement Attlee all’economia del libero mercato di Margaret Thatcher. Ma, in mezzo a tutti questi cambiamenti, un fattore è rimasto costante. Questo fattore è la riduzione dell’importanza dell’individuo in rapporto al collettivismo e al corporativismo, tendenza perfettamente simboleggiata dalla continua erosione delle libertà individuali.
Da questo punto di vista, la questione pratica è che la crescita del potere dello stato e delle corporation sta producendo una ben più grande e ancora più pericolosa divisione della società in “noi” e “loro”. “Loro”, in misura sempre maggiore, sono i “ricchi”, i legislatori, la macchina statale e i suoi funzionari, i media, le corporation. I recenti scandali hanno confermato sospetti già da tempo nutriti: i membri del parlamento sono stati macchiati dagli scandali sulle spese, i media sono stati screditati dalle rivelazioni sulle intercettazioni telefoniche, la reputazione della polizia è stata compromessa da accuse di corruzione, i banchieri sono disprezzati e i boss delle corporation detestati per i continui aumenti delle loro retribuzioni. Il governo, a livello sia locale sia nazionale, è considerato sempre più intrusivo, anche in ambiti del tutto irrilevanti, e al tempo stesso incapace di garantire un’amministrazione efficiente.
La riduzione dell’importanza dell’individuo è la conseguenza della crescita della burocrazia. Durante le amministrazioni laburiste, la burocrazia (e un suo derivato, la comitato-crazia) ha prosperato in un paese caratterizzato da sempre più elevate spese governative. Ma anche quando sono stati al potere i conservatori, la burocrazia è riuscita a conservare tutti i propri poteri.
Nel suo tentativo di impedire la crescita sproporzionata della burocrazia il centrodestra è stato ostacolato da due problemi sostanziali. Il primo consiste nel fatto che vi è un’implicita contraddizione nel chiedere a dei burocrati di ridurre la burocrazia. Posta di fronte alla scelta di tagliare i costi della gestione amministrativa o quelli del pubblico impiego, la burocrazia tenderà a optare per i secondi, cosa che offre il vantaggio di conservare l’autorità e i privilegi dell’apparato statale massimizzando allo stesso tempo l’impopolarità elettorale delle riduzioni della spesa.
La seconda ragione della resilienza della burocrazia sta nella tendenza dei ministri ad “assumere i costumi e le usanze locali” una volta entrati in carica. Un ministro laburista che, quando era all’opposizione, si era opposto ai piani di restrizione del diritto di processo con giuria, una volta entrato in carica ha presentato una proposta di legge quasi esattamente identica. I conservatori che, finché rimasti all’opposizione, si erano opposti all’estensione dei poteri di sorveglianza, ora sembrano essersene fatti paladini.
Sfide e scelte
La Gran Bretagna sta seguendo una rotta insostenibile. Questo vale per l’economia, le finanze governative, la difesa nazionale, la stabilità delle istituzioni e la coesione sociale. L’economia ristagna, e non appare verosimile che si possano ottenere miglioramenti dato che vi sono enormi distorsioni strutturali a vantaggio di settori dipendenti dagli ormai defunti elementi trainanti del prestito privato e della spesa pubblica. Se non aumenta la produttività, il piano di riequilibrio fiscale del centrodestra è destinato ad affondare. I previsti tagli alle spese statali sono alquanto modesti, e le spese governative resteranno più alte di quanto l’economia del paese è in grado di permettersi. La Gran Bretagna ha prodotto una cultura dei diritti acquisiti e delle indennità che rende politicamente inverosimile un concreto riequilibrio del budget. Tenendo conto della crescita del debito pubblico (e anche dell’indebitamento dei singoli individui), la conclusione logica dell’attuale orientamento economico è il fallimento. Un paese che vive al di sopra delle sue possibilità raggiunge prima o poi il punto in cui la disponibilità dei prestatori stranieri a sostenere tale tenore di vita si esaurisce.
Buona parte delle più importanti istituzioni britanniche (compreso il Parlamento, i media, la polizia e il sistema bancario) sono state screditate. La rabbia pubblica contro i “ricchi” sta ormai soffocando l’attività imprenditoriale e spinge verso una forma di egualitarismo che rende impossibile il funzionamento di una economia del libero mercato.
Il disprezzo verso i “ricchi” potrebbe trasformarsi in un più generalizzato disprezzo verso coloro che stanno al vertice delle strutture di potere. Le rivolte che hanno sconvolto le città inglesi nell’estate del 2011 hanno inoltre rivelato una crescente disillusione popolare nei confronti delle istituzioni, e l’élite di governo viene considerata, in misura sempre maggiore, corrotta, avida e ipocrita.
Non è difficile individuare quali siano le riforme necessarie per avviare una ripresa economica. Ma la loro attuazione risulterà impossibile se non si ottiene il sostegno dell’elettorato. Questo, a sua volta, richiede un’ideologia persuasiva fondata sulla realtà, non un’artificiale costruzione sintetica come quella promossa dal New Labour.
I conservatori, ben lungi dall’avere vinto la “battaglia delle idee”, non sembrano nemmeno provare a farlo. Non c’è, finora, alcuna idea di una coesiva ideologia alternativa alla superficiale e ormai screditata agenda del New Labour. Questa ideologia alternativa potrebbe tuttavia fondarsi sui tre principi precedentemente descritti: a) una riforma del capitalismo, affinché possa essere vantaggioso per tutti; b) la riconquista del predominio morale attraverso la riforma delle istituzioni affinché possano servire al bene della maggioranza; c) la promozione delle libertà individuali, che devono essere difese dall’intrusione della macchina statale e degli interessi corporativi. L’altra soluzione, che è una combinazione di supina inerzia e di vuoto populismo, non può far nulla di meglio che rinviare l’inevitabile.
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