martedì 31 gennaio 2012

Non credete a quel film. Margaret Thatcher reinventò l'Inghilterra, di Alberto Mingardi

La pellicola con Meryl Streep mette in scena la statista in declino e malata. Ma le sfuggono la grandezza e la generosità di Maggie

Il film The Iron Lady ce la mette tutta per raccontarci una Margaret Thatcher rattrappita dall’età e dal dolore, simbolo della triste caducità dell’ambizione. Ma non ce la fa. 




Perché la “Signora di Ferro” non era un robot che una narrazione impietosa potesse e dovesse riaccompagnare nei più angusti limiti dell’umano. C’è il meglio di noi in questa donna, e riaffiora nel ritratto di celluloide che ne fa un’impeccabile Meryl Streep. Era imperfetta e egoista come noialtri: ma tutti i difetti dell’ego bulimico di un capo ammaliato dai riflettori si riscattavano in un super-io d’acciaio.

Il senso non del film, ma della sua carriera politica e della sua vita sta tutto in un paio di frasi, nostalgiche, appese nell’aria ma con radici profonde come quelle di una quercia. «Ora vogliono tutti “diventare qualcuno”. Noi volevamo fare qualcosa». La regista Phillida Lloyd non è una fine esegeta del conservatorismo thatcheriano. Ma esistono figure, i grandi leader sempre, in cui è sottile il confine tra ciò che si crede e ciò che si è. Credeva che solo nella libertà e nella competizione donne e uomini potessero dare il meglio e trovare se stessi. Diede il meglio, e trovò il futuro di una nazione.

«Carattere» è la prima parola che viene alla mente quando si pensa a Margaret Thatcher. Il thatcherismo fu prima ancora che una prassi di governo, una visione della società. Per Shirley Letwin, il thatcherismo era la dottrina delle «virtù vigorose». L’individuo che il thatcherismo vuole mettere al centro del mondo «ha la schiena dritta, è indipendente, avventuroso, energetico, un libero pensatore, è leale verso gli amici, e tetragono verso i nemici». È un personaggio vittoriano, sottratto all’immaginario e restituito alla realtà nella vita vissuta degli umili.

Ci sono alcune scene, nella biopic che esce venerdì anche in Italia, che dicono tutto di Margaret Thatcher. Sono quelle in cui la giovane Alexandra Roach ne incarna l’impegno per conquistare un seggio in Parlamento. Era accesa dal desiderio di dare rappresentanza a una «nazione di bottegai». I papaveri del partito la guardavano dall’alto in basso. Lei seppe parlare a chi cercava nel successo non una gratificazionesociale ma la conferma della bontà del proprio lavoro.

La giovane Margaret combatte la spocchia di un partito di uomini, sorretta dalla tenera complicità dell’alleato più fedele, Dennis Thatcher.

The Iron Lady è una storia d’amore. È il racconto dell’infinita devozione di due anime diverse: lei divorata dal bisogno di dare un senso alla vita, lui perso della sua leonessa.
Uomo ironico, imprenditore di successo, Dennis seppe stare sempre un passo dietro la scena. Ci furono giorni migliori e giorni peggiori.

Il film ne dà conto, così come allude alla vita scapestrata dei due figli, Carol e Mark, rincretiniti di troppo amore da una madre assente. Ma chi scrive ricorda DT e MT, pochi mesi prima della morte di Dennis, su una terrazza alla Camera dei Lords nell’ennesima comparsata celebrativa, tenersi per mano come sposini.

Il messaggio di The Iron Lady non è che anche«il-primo-capo-digoverno- donna-della-storia-dell’Occidente » era, dopotutto, umana. Magari quella era l’intenzione. Se però il film lo guardate con occhi sinceri, scoprirete che c’è qualcosa di infinitamente più sorprendente, e più commovente,dell’umanità di un capo. Si può essere umani, dannatamente umani, irrimediabilmente umani, e sfidare ogni giorno la forza di gravità.
Margaret Thatcher era ed è una moralista. È convinta che esista il bene e esista il male, sa che il secondo è più seducente del primo. Conosce il sapore acre degli errori: ne ha commessi tanti. Ma è la sua granitica convinzione che una donna oppure un uomo possono, contro tutti e il destino, prendere in mano le briglie della propria vita, che ne ha fatto un grande primo ministro, e una ruggente liberista.

Libertà e responsabilità sono la stessa cosa. Salvò un Paese che stava precipitando in una spirale di declino, restituendogli l’una e l’altra.
Una scena cruciale nel film è quella in cui il premier rifiuta le lusinghe keynesiane dei suoi ministri, rinunciatari innanzi agli scioperi e alle proteste. La medicina è amara ma è giusta: andiamo avanti coi tagli alla spesa pubblica. Il risparmio è una virtù, non lo è la spesa allegra.

«Ci odieranno oggi ma ci ringrazieranno per generazioni - e guai a voi, cari colleghi, se tutto ciò cui pensate è la rielezione ». Era il buon senso della figlia di un droghiere. Fu la salvezza dell’Inghilterra.

http://www.ilgiornale.it/cultura/la_thatcher_che_salvo_nazione__il_film_leader_britannica_vuole_umanizzare_troppo_personaggio/24-01-2012/articolo-id=568515-page=0-comments=1

lunedì 30 gennaio 2012

Il testamento della Thatcher: vuole il funerale di Stato, di Alessia Manoli

L'ex primo ministro britannico sta già programmando le sue esequie: vuole un funerale di Stato

L'ex premier britannico Margaret Thatcher si porta avanti e programma il suo funerale: un funerale di Stato, ecco a cosa ambisce la Lady di ferro. 

L'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher
L'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher

Ma senza fronzoli: la Thatcher non vuole sorvoli della Royal Air Force né tantomeno l'allestimento di una camera ardente aperta al pubblico.

L'ex primo ministro, 86 anni, ha già approvato tutti i dettagli delle sue esequie, che verranno anche discussi da una speciale commissione governativa. L’Iron Lady ha espresso le sue preferenze per la cerimonia, per la quale desidera una processione da Westminster fino alla cattedrale di Saint Paul. La messa sarà accompagnata dalle musiche di Edward Elgar: la Lady ha programmato proprio tutto.

Già pronta anche la lista dei "fortunati" invitati, tra cui spuntano i nomi della Regina Elisabetta, dell’ex First Lady statunitense Nancy Reagan e dell’ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov. La cerimonia, per essere considerata un vero e proprio funerale di stato, dovrà essere approvata con una mozione in Parlamento.

L’ultima persona non appartenente alla famiglia reale ad aver beneficiato di un tale riconoscimento e onore fu Winston Churchill, nel 1965.

http://www.ilgiornale.it/esteri/il_testamento_thatcher_vuole_funerale_stato/margaret_thatcher-regina_elisabetta-funerali/12-12-2011/articolo-id=561873-page=0-comments=1

Scalfaro santo. Noi non ci stiamo, di Vittorio Feltri

Dai ribaltoni degli anni '90 al "non ci sto" sulle accuse di aver intascato fondi neri: un presidente per disgrazia ricevuta

L’antiquariato della Repubblica italiana perde un altro pezzo e va estinguendosi: è morto Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del ribaltone. Fu lui, infatti, con la collaborazione malandrina di Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, a convincere Umberto Bossi ad abbandonare la maggioranza di centrodestra, provocando così la caduta del primo governo Berlusconi.

Oscar Luigi Scalfaro
Oscar Luigi Scalfaro

Tutto accadde tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995. Ci si aspettava che il capo dello Stato, uscito momentaneamente di scena il Cavaliere, sciogliesse le Camere e indicesse elezioni anticipate. Neanche per sogno.

Il Quirinale, non contento di aver sottratto la Lega alla coalizione che appoggiava l’esecutivo, si adoperò, con i citati complici ( D’Alema e Buttiglione), a far traslocare i padani nel centrosinistra allo scopo di dar vita a un nuovo governo presieduto da Lamberto Dini, anche questi proveniente dalle file berlusconiane. Un capolavoro di scorrettezza, un tipico imbroglio italiano perché formalmente legittimo anche se, nella sostanza, irrispettoso della sovranità popolare. Paradossalmente chi aveva vinto le elezioni fu cacciato all’opposizione, e chi le aveva perse fu promosso alla guida del Paese.Ecco.Basterebbe l’episodio narrato a fotografare l’uomo, abile e spregiudicato, pronto a tutto per imporre la propria volontà ispirata dal cielo. Ma la sua storia è talmente piena di aneddoti che non può esaurirsi nel racconto del ribaltone. Anche perché, sotto la sua presidenza ( e regia) se ne registrò un altro, altrettanto clamoroso, alcuni anni appresso. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, gongolante per aver ottenuto l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Ma la sua felicità durò poco, perché Fausto Bertinotti, a un certo punto, gli votò contro e, euro o non euro, il Professore dovette andarsene a casa. Ancora una volta sarebbe stato opportuno mobilitare le urne, visto che Rifondazione comunista aveva ritirato il suo sostegno alla maggioranza. Ma Scalfaro diede l’incarico di formare un nuovo ministero a D’Alema. Il quale però non aveva i numeri, e se li procurò cooptando Clemente Mastella con un pezzo dell’Udc (allora Ccd) prelevato dal centrodestra. La mossa fu denominata ribaltino. D’Alema stette in sella un annetto. Sloggiò dopo la sconfitta alle regionali. E il capo dello Stato lo sostituì con Giuliano Amato, che concluse la tribolata legislatura nel 2001.

La vicenda di Scalfaro comincia nel 1941 quando si laurea in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano. Due anni più tardi entra in magistratura giurando fedeltà al fascismo. Fedeltà si fa per dire; perché lui ci mette nulla a diventare antifascista e a strizzare l’occhiolino ai partigiani. Vabbé, certi salti della quaglia ai tempi erano all’ordine del giorno.

Finisce la guerra e Scalfaro, cattolico di ferro (ciò che non gli impedisce di gradire la condanna a morte di un imputato), molto stimato da Giuseppe Pella, viene eletto nella Costituente per la Dc. E da quel momento sino a ieri rimane saldamente ancorato al Palazzo. Un record eguagliato soltanto da Giulio Andreotti. Oscar Luigi fa subito parlare di sé. Nel 1950 il suo sguardo è attratto dalla scollatura generosa di una signora seduta al tavolino di un caffè. Lui si scandalizza e non si trattiene dall’esprimere alla donna la propria indignazione. Praticamente, gliene dice quattro, e, secondo una versione del bisticcio mai confermata, le ammolla uno schiaffo. Parte una denuncia che non arriva in fondo per intervenuta, provvidenziale amnistia. Una sciocchezza? Sì, una sciocchezza che tuttavia rivela la personalità di questo politico nato a Novara da madre piemontese e padre napoletano. Un bigotto inossidabile e mai scosso dal dubbio, almeno in apparenza. Tant’è che nel 1974 affianca Amintore Fanfani nella campagna referendaria contro il divorzio, inviso alle gerarchie della Chiesa e di conseguenza anche a lui. Vincono i divorzisti, la sinistra (la mentalità, la pseudocultura di sinistra) avanza e il democristiano di destra, anticomunista e baciapile, si eclissa. Trascorrono anni bui durante i quali Oscar Luigi cerca invano un rilancio. È Bettino Craxi a ricollocarlo nel cono di luce, portandolo inaspettatamente alla gloria del mondo: lo nomina ministro dell’Interno, dove resiste alcuni anni. Sdoganato. Nel 1989 crolla il Muro di Berlino.È l’inizio della crisi per la cosiddetta Prima Repubblica. Emerge la Lega. La Dc e il pentapartito governano male: gestiscono il potere con l’unico intento di conservarlo, la corruzione non è tenuta a freno. In poche parole si intuisce che sta per succedere qualcosa di grave, ma non si capisce cosa. Lo si comprende benissimo nel 1992 quando Antonio Di Pietro dà il via all’inchiesta Mani pulite e attaccano a fioccare avvisi di garanzia. Le elezioni politiche in quell’anno si svolgono in un clima strano. I risultati non sono negativi per la Dc e i suoi alleati, ma neppure esaltanti. Francesco Cossiga, il picconatore, si dimette alcuni mesi in anticipo sulla scadenza naturale del mandato. E bisogna eleggerne un altro. La Dc candida Arnaldo Forlani nella certezza di spuntarla. Nossignori. Silurato. Ripiega su Andreotti. Bocciato pure lui. Panico. Che aumenta a causa della strage di Capaci, dove vengono assassinati Giovanni Falcone e la moglie Francesca con la scorta. Urge spedire al Quirinale un presidente.Chi?L’idea viene a Marco Pannella, laicista storico e ostile a ogni massimalismo. Un’idea geniale nella sua perversione: Scalfaro. Sono talmente avviliti i signori del Parlamentoallo sbando da accoglierla con entusiasmo.

Incredibile ma vero, Oscar Luigi, già presidente (per un paio di settimane) della Camera e del Senato (provvisoriamente), viene votato per disperazione.
Non fa una piega e sale al Colle. Intanto infuria Tangentopoli. Il pentapartito è sgominato dalla  Procura di Milano. L’ex Pci non ha più avversari tranne Bossi e Gianfranco Fini, due comprimari. È il motivo per cui Silvio Berlusconi scende in campo e fonda Forza Italia fra le risate generali dei professionisti della politica che lo considerano un fenomeno da baraccone. Errore. Il Cavaliere batte inopinatamente Achille Occhetto. E va a Palazzo Chigi con un esecutivo tutto sommato migliore- se valutato oggi- di quello varato nel 2008. È noto quanto successo dal 1994 al 1995. Scalfaro ha una grana: lo accusano di aver intascato (lecitamente) soldi dai Servizi segreti, una dotazione di denaro di cui in teoria egli non dovrebbe rendere conto (questione di prassi). Però in quel periodo era necessario spiegare la destinazione di ogni lira incamerata. Scalfaro viceversa non spiega l’uso fatto dei fondi ricevuti quando era responsabile del Viminale. Si rifiuta di farlo. E va in tivù, interrompendo una partita di calcio internazionale, per dire agli italiani: «Io non ci sto». Come «non ci sto»? Tutti ci stanno e tu no? Inutile insistere: lui non ci sta, lo ripete con forza e nessuno replica. La magistratura fa un passo indietro e amen. Mah!

Sui ribaltoni ci siamo dilungati e non aggiungiamo altro. Serve invece rammentare una legge di cui si è molto parlato: la «Par condicio», studiata apposta per comprimere la forza mediatica di Berlusconi, e dare a qualsiasi partito (grande, piccolo, non importa) lo stesso spazio televisivo su emittenti pubbliche o private, indifferentemente. La norma vige ancora.
Questa in sintesi l’avventura politica (e umana) di Oscar Luigi Scalfaro, uno straordinario bacchettone di successo involontario, che è stato capace di passare nel corso della sua esistenza, non breve (93 anni), da strenuo difensore della democristianità ortodossa a paladino degli ex comunisti, nume tutelare della putrida decadenza del sistema politico che ha rovinato il Paese.
Sono gli uomini come lui, rappresentanti di un mondo che non c’è più, ad aver causato il fallimento di ogni tentativo di modernizzare il Paese. Infatti ora tutti lodano il defunto presidente emerito. Le dichiarazioni dei leader politici sono imbarazzanti: un coro di elogi alla melassa che invoca la immediata beatificazione di Scalfaro. No. Noi non ci stiamo. Indro Montanelli diceva di lui: lo abbiamo avuto come capo dello Stato per disgrazia ricevuta. Condividiamo il giudizio.



http://www.ilgiornale.it/interni/scalfaro_santo_noi_non_ci_stiamo/oscar_luigi_scalfaro/30-01-2012/articolo-id=569617-page=0-comments=1

Cosmi, Mazzarri e il crollo delle certezze pallonare, di Sandro Bocchio

Calci paralleli

La stagione calcistica sta cambiando il destino di Lecce e Napoli come non era immaginabile


In classifica generale sono separati da 13 punti. In quella personale da 2 milioni e 300mila euro, quelli che conducono da Walter Mazzarri (il tecnico meglio pagato della serie A insieme con Massimiliano Allegri: 2 milioni e mezzo) a Serse Cosmi, l'allenatore più a buon mercato dell'intero campionato, con i suoi 200mila euro. Vero che li guadagna in un arco temporale minore, visto che a Lecce l'hanno chiamato a inizio dicembre. Ma la differenza (enorme) resta. Come resta ampia la differenza di obiettivi. Il 2012 si sta però divertendo a mescolare le carte e le certezze si trasferiscono da Napoli a Lecce in maniera inversamente proporzionale agli ingaggi dei due.
A Mazzarri occorre dare atto di vivere in una situazione complicata, perché complicata è la città: gli assalti della microcriminalità a giocatori-fidanzate-agenti; gli intrecci con un tifo cui i clan non sono indifferenti; una realtà che vira velocemente dall'esaltazione alla depressione in base a un solo risultato. Non è semplice lavorare a Napoli, perché la Champions League è retaggio troppo recente e la Coppa Italia considerata un ripiego. Conta di più lo scudetto, tornare primi in serie A e non aiuta vedere una squadra lontana dalle prime quando il girone di ritorno è appena iniziato. E non aiuta neppure la ricerca di una via di fuga, sport nazionale in cui Mazzarri se la cava egregiamente. Perché quando arrivano le sconfitte la colpa è sempre di altri fattori. Possono essere "gli impegni faticosi in Europa", ricordati dopo lo stop di Genova: impegni messi alle spalle a inizio dicembre e da riprendere a fine febbraio, tra l'altro. Può essere "una squadra settima nella classifica degli ingaggi e quindi settima in campionato", come sottolineato dopo il pareggio di Siena. Ma a Napoli la memoria è lunga e qualcuno è andato a ripescare la graduatoria degli stipendi degli allenatori, domandandosi perché la squadra non abbia classifica pari a quella del tecnico.
Una classifica – privata e generale – che Cosmi sta invece cercando di ribaltare con tutte le forze, dando più importanza alla squadra che a se stesso. Troppo spesso in passato l'attenzione si è concentrata sulla sua persona: l'eterno cappellino oggi divenuto una coppola, le dichiarazioni ruspanti intagliate con l'accetta, la fama per l'imitazione di Maurizio Crozza, il tifo scoperto per la Roma (con relativi insulti – ricambiati – all'Olimpico a ogni trasferta laziale). Più un male che un bene, andato a indebolire una carriera costruita sulla fatica e intessuta di presidenze pericolose: Gaucci, Preziosi, Corioni, Spinelli, Zamparini. Manca soltanto Cellino per completare la collezione. Quando il Lecce l'ha chiamato, sembrava la mossa della disperazione: non tanto per l'ultimo posto quanto, piuttosto, per la scelta dell'uomo, reduce da tre brucianti esoneri consecutivi. Due mesi dopo, con i primi due successi (chiedere all'Inter, frenata nelle sue ambizioni) e con due posizioni di classifica scalate, la mossa non pare più tale. Così Cosmi torna a divertirsi, chiedendo per completare l'opera. Quella che Mazzarri rischia invece di lasciare incompiuta, come capitato alla Sampdoria. E, oggi come allora, il disamoramento può avere come orizzonte ultimo il divorzio.

 http://www.ilfoglio.it/soloqui/12096

giovedì 26 gennaio 2012

Scozia, un piano per il referendum sognando l'indipendenza da Londra, di Enrico Franceschini


REGNO UNITO

L'annuncio da Alex Salmond, leader dello Scottish National Party: consultazione nell'autunno del 2014. Ma per ora i sondaggi indicano che solo il 38 per cento dei 4 milioni di abitanti della Scozia è favorevole a uscire dal Regno Unito. E la battaglia si fa politica

LONDRA  -  Più che a Braveheart somiglia al commissario Basettoni, il corpulento, pacioccone e spesso inconcludente poliziotto dei fumetti di Topolino. Ma dietro l'aspetto mite e inoffensivo Alex Salmond nasconde una mente brillante e una determinazione di ferro, e oggi ha mostrato l'una e l'altra annunciando ufficialmente a Edimburgo il piano per un referendum sull'indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna. Parlando ai deputati nell'aula del parlamento regionale, situato nello storico castello di Holyrood, il primo ministro del governo autonomo scozzese ha confermato l'intenzione di indire la consultazione popolare "nell'autunno 2014", a dispetto delle pressioni del premier britannico David Cameron per convocarla prima. Quindi Salmond ha rivelato quale sarà il quesito sulla scheda: "Siete d'accordo che la Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?", una domanda breve, chiara e diretta. Infine ha lanciato una specie di sondaggio nazionale (nel senso di nazione scozzese, s'intende) per decidere altre questioni: se debba esserci spazio per una seconda domanda, per esempio riguardo all'ipotesi di rimanere parte del Regno Unito ma con ancora maggiori poteri di autonomia, specie in campo economico e fiscale; e se al referendum possano partecipare, come lui auspica, i giovani dai 16 anni in su.

Il suo discorso era previsto e anche la sostanza non porta sorprese. Ma si tratta ugualmente del via nella campagna per il referendum, ovvero del primo colpo sparato (politicamente) nella guerra d'indipendenza. "Questa
sarà la decisione più importante presa dal popolo scozzese negli ultimi trecento anni", ha detto Salmond. Ma sono due le date evocate dal referendum: trecento anni fa la Scozia perse l'indipendenza e settecento anni or sono la conquistò in una cruciale battaglia contro l'Inghilterra. Il settecentesimo anniversario di quella battaglia dovrebbe coincidere proprio con la data prevista per il referendum, l'autunno 2014: per questo il premier vuole indirlo tra poco più di due anni, dicono i suoi avversari, per la stessa ragione Londra preme per farlo prima, nel timore che gli umori nazionalisti saranno al massimo in occasione delle celebrazioni sull'epopea di Braveheart e di re Robert the Bruce.

Per ora i sondaggi indicano che solo il 38 per cento dei 4 milioni di abitanti della Scozia è favorevole a uscire dal Regno Unito: la maggior parte sembra contenta di godere della devolution (governo e parlamento autonomi a Edimburgo) sancita da un referendum e in accordo con il governo britannico di Tony Blair oltre dieci anni fa. Ma Salmond, nel discorso di stamane, ha ricordato che due anni or sono gli elettori scozzesi hanno dato la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento di Edimburgo a un partito pro-indipendenza, lo Scottish National Party, di cui egli è il leader. E' dunque convinto che, quando la questione sarà stata ampiamente discussa, i "sì" all'indipendenza otterrano la maggioranza anche nel referendum. "La nostra nazione ha grandi risorse naturali (produce petrolio per 9 miliardi di sterline l'anno, ndr.), ottime università, un grande potenziale umano", si è entusiasmato il premier nel suo discorso, " e sono del parere che una Scozia indipendente potrà essere ancora più ricca e più equa". Ha quindi ricordato che il movimento per l'autodeterminazione dei popoli è cresciuto in tutto il mondo negli ultimi decenni: "L'Onu aveva 50 paesi membri alla sua fondazione nel 1945, ne ha quasi 200 oggi. E gli ultimi 10 paesi che si sono uniti all'Unione Europea hanno quasi tutti ottenuto l'indipendenza soltanto negli anni '90. La Scozia è piccola, ma è più grande di sei di quei dieci paesi".

Il novello Braveheart non ha risposto a tutti gli interrogativi su come sarebbe una Scozia del futuro: che monetà avrebbe, la sterlina o l'euro? Avrebbe le proprie forze armate? Erediterebbe parte del debito della Gran Bretagna? Ma ha concluso: "Vogliamo avere un'unione sociale alla pari con le altre parti di queste isole. Continueremo ad avere Sua Maestà la regina Elisabetta come capo di stato (tanto ce l'hanno anche il Canada e l'Australia, ndr.). Ma non avremo i nostri giovani uomini e donne mandati a morire in guerre illegali come l'Iraq e non avremo più armi nucleari basate sul suolo scozzese". Quasi nello stesso momento, a Londra, David Cameron si faceva beffe di Salmond al parlamento di Westminster. Ma non molti prendevano sul serio il mite secessionista scozzese quando entrò in politica, e nemmeno quando è diventato premier del governo autonomo nel 2005, e neppure quando lo è ridiventato ottenendo la maggioranza assoluta cinque anni più tardi. L'Highlander che somiglia al commissario Basettoni ha sempre smentito le previsioni. Ci riuscirà anche stavolta?

 http://www.repubblica.it/esteri/2012/01/25/news/scozia_referendum-28763026/

lunedì 23 gennaio 2012

Gingrich fa il nuovo Reagan per aggiudicarsi le primarie, di Giuseppe De Bellis

Il trionfatore in Sud Carolina si ispira al grande presidente anni '80: "Incarno i valori profondi dell’America". Il suo successo cambia tutto: la corsa per la nomination sarà lunga

Scommettete zero euro su come andrà a finire la campagna per le primarie del partito repubblicano americano. Tutto aperto, tutto incerto, tutto fluido. La vittoria in South Carolina di Newt Gingrich mette in discussione ogni potenziale certezza.

Ronald Reagan in una foto dell'87
Ronald Reagan in una foto dell'87

Ora può vincere lui, può vincere Romney, può persino vincere qualcun altro. Niente azzardi, niente previsioni. Se un euro qualcuno lo volesse giocare, invece, allora che lo scommetta su che cosa farà adesso Gingrich: cercherà di trasmettere all’America, alla sua America, l’idea del nuovo Reagan. Lui, sì. Così si pone, così si sente: vede un Paese che ha bisogno di tornare a quegli ideali incarnati da The Gipper.
Alla fine dell’ultimo dibattito stravinto in South Carolina ha detto: «Se ho vinto non è perché sono un good debater. Ma perché esprimo i valori profondi del popolo americano. Sono pronto a scontrarmi con Obama per dimostrare che è lui l’estremista». Coma a dire: io sono l’americano, lui no; io sono quello autentico, lui no; io sono quello occidentale, lui no. È l’omaggio aggiornato all’ideale di un’America leader del mondo dell’era reaganiana, quella capace di battere l’Unione Sovietica e il comunismo. A quell’epoca, Gingrich si ispira anche nei dettagli simbolici: la festa dopo la vittoria in South Carolina è stata accompagnata da Born in the Usa di Bruce Springsteen, considerato un manifesto dell’America anni Ottanta: quella di Rocky e di Rambo, quella dei noi siamo i buoni e gli altri sono i cattivi.
Gingrich guarda lì, a un passato da aggiornare: attacca la Cina e il suo strapotere sul debito pubblico americano. Dice che con lui alla Casa Bianca cambierebbe tutto. Il 40 per cento ottenuto in South Carolina è il punto di partenza di una nuova strategia: dopo la vittoria ha lodato Romney, Santorum e Paul, cioè tutti i rivali in queste primarie. Un modo per presentarsi come un duro sì, ma ecumenico, uno quindi in grado di conciliare eventualmente le istanze dell’elettorato più conservatore, ma anche quelle dei gruppi più moderati che tifano Romney. L’ex speaker della Camera sa che la sfida sarà lunga. L’ha voluto lui: è la sua vittoria a cambiare gli equilibri e ad allungare la corsa. Adesso si va in Florida, dove teoricamente è favorito Romney, ma dove a questo punto i giochi si riaprono: i 15 punti medi di vantaggio nei sondaggi dell’ex governatore del Massachusetts diventano molto relativi. Anche in South Carolina c’era questo margine e la situazione s’è ribaltata in quattro giorni. Da qui al voto di Tampa, Miami, Orlando e Tallahassee c’è più di una settimana perciò è davvero come se si ripartisse da zero. Pronti, partenza, via: all’inizio delle primarie sembrava che la tappa in Florida sarebbe stata il potenziale traguardo, ora invece è il contrario. Sarà una corsa lunga: lo dicono gli staff dei candidati, lo dice lo stratega del bushismo Karl Rove, lo dicono i giornali che detestano Gingrich, ma che in queste ore ne hanno riconosciuto sia la capacità di recuperare da un inizio di primarie non esaltante, sia di sfruttare gli errori di Romney. Perché questa è un’altra chiave: il vincitore in New Hampshire è clamorosamente caduto sulla storia delle tasse al 15 per cento e del conto segreto nel paradiso fiscale delle Cayman. Un peccato troppo grande che adesso lo costringe a rincorrere Gingrich e a dimostrare di non avere nulla da nascondere. Ieri Romney ha annunciato che pubblicherà i suoi redditi on line. La ricchezza è la debolezza dell’ex governatore del Massachusetts, così come l’infedeltà e la movimentata vita sentimentale sono quella dell’ex speaker della Camera. Gingrich, però, è più abile a rimbalzare le accuse: è più aggressivo, è più pronto, è più abituato. Ha lottato di più nella vita e in politica. Semmai ha il problema opposto, Newt: l’aggressività e il carattere lo portano a esagerare. Quando sente odore di vittoria rischia di strafare, di sentirsi già al traguardo. Non è questo il caso. Non ora. Lui, come l’avversario principale, sa che si andrà per le lunghe, sa che ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza. C’è qualcuno che intravede anche la possibilità che si arrivi alla convention di settembre senza un vincitore e che la nomination si decida lì con un accordo dietro le quinte, con un inciucio di palazzo fatto fuori dal palazzo. Difficile, ma possibile, certo. In America può succedere tutto.

http://www.ilgiornale.it/esteri/gingrich_vuol_fare_nuovo_reagan_vincere_primarie-maratona/23-01-2012/articolo-id=568332-page=0-comments=1

"Evadere le tasse è peccato, se lo fanno i religiosi è scandalo", di Andrea Tornielli

Bagnasco apre i lavori del Consiglio permanente della Cei, ricorda l’impegno sociale della Chiesa che non cerca «auto-esenzioni» e parla del rischio che una «tecnocrazia sopranazionale anonima» espropri la politica degli Stati

«Il capitalismo sfrenato sembra ormai dare il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli, dissolvendo il proprio storico legame con il lavoro». La Chiesa, che ha messo in atto tutte le sue forze per fronteggiare le conseguenze della crisi nei poveri e nei nuovi poveri, «non può e non deve coprire auto-esenzioni improprie»: evadere le tasse «è peccato e per un soggetto religioso questo è addirittura motivo di scandalo». Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione che ha aperto questo pomeriggio i lavori del Consiglio permanente, che ha messo in guardia dal rischio che una «tecnocrazia sopranazionale anonima» espropri la politica degli Stati.

Bagnasco si è dilungato sulla crisi, affermando che la novità dell’attuale situazione «è che quanto accade in economia e nella finanza non si può spiegare se non lo si collega ad altri fenomeni contestuali come la mondializzazione dei processi, le migrazioni, le mutazioni demografiche nei Paesi ricchi, l’offuscamento delle identità nazionali, il nomadismo affettivo e sessuale».

«Il capitalismo sfrenato sembra ormai dare il meglio di sé – ha detto il presidente della Cei – non nel risolvere i problemi, ma nel crearli, dissolvendo il proprio storico legame con il lavoro, il lavoro stabile, e preferendo ad esso il lavoro-campeggio: si va dove momentaneamente l’industria sta meglio come se l’“altro” non esistesse. E per “l’altro” è in primo luogo da intendersi proprio il lavoratore».

«La “fluidità” di valori, relazioni e riferimenti, non impedisce affatto – semmai favorisce – il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa. Mentre invece dovrebbe essere decisiva, se la speculazione non avesse deciso di tagliarla fuori e renderla irrilevante, e quasi inutile. Ed è quel che sembra accadere sotto gli occhi attoniti della gente».

«Quando il criterio è il guadagno più alto e facile possibile e nel tempo più breve possibile – ha detto Bagnasco – allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso giocando sulla vita degli uomini e dei popoli». Il cardinale ha poi insistito, al di là «di ogni ventata antipolitica», sull’assoluta importanza, anzi necessità, della politica, che «deve mettersi in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione. Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Sembra, invece, che i grandi della terra non riescano ad imbrigliare il fenomeno speculativo».

Bagnasco presenta il dubbio «che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fino a qui conosciuta, e dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato». Ma la politica, riconosce il cardinale, ha le sue responsabilità: non è stata infatti capace di arrivare a «riforme effettive», spesso «solo annunciate» e dunque c’è stata incapacità di pervenire «in modo sollecito a decisioni difficili allorché queste si impongono. Quasi fosse normale, per un paese come l’Italia, non essere in grado di assumere una comunicazione franca con i propri cittadini. E dovesse essere fisiologico puntare su una compagine governativa esterna, perché provi a sbrogliare la matassa nel frattempo diventata troppo ingarbugliata».

Bagnasco ha quindi definito il governo un «esecutivo di buona volontà, autonomo non dalla politica ma dalle complicazioni ed esasperazioni di essa, e con l’impegno primario e caratterizzante di affrontare i nodi più allarmanti di una delicata, complessa contingenza». Ma è «irrinunciabile che i partiti si impegnino per fare in concomitanza la propria parte», per le riforme «rinviate per troppo tempo tanto da trovarsi ora in una condizione di emergenza». I partiti «non devono fare gli spettatori, ma devono attivarsi con l’obiettivo anche di riscattarsi, preoccupati veramente solo del bene comune, quasi nell’intento di rifondarsi su pensieri lunghi e alti».

Oggi, ha detto il presidente della Cei, «c’è da salvare l’Italia e c’è da far sì – cosa non scontata – che i sacrifici che si vanno compiendo non abbiano a rivelarsi inutili. Per questo urge superare il risentimento che qua e là affiora». Il cardinale ha invitato a non ritenere «fisiologica la condizione di giovani ultratrentenni che vivono a carico dei genitori o dei nonni». La Chiesa vuole fare la sua parte e «non ha esitazione ad accennare questo discorso, perché non può e non deve coprire auto-esenzioni improprie. Evadere le tasse è peccato. Per un soggetto religioso questo è addirittura motivo di scandalo».

Il cardinale ha ricordato «l’assidua, capillare presenza responsabile» della Chiesa nel sociale, attraverso «quattrocentoventimila operatori attivi in oltre quattordicimila servizi sociali e sanitari di ispirazione cristiana operanti con continuità e stabilità organizzativa sul territorio del Paese». «Non chiediamo privilegi – ha aggiunto Bagnasco – né che si chiuda un occhio su storture o manchevolezze. Sappiamo che il bene va fatto bene, senza ostentazioni o secondi fini, senza cercare alibi, auto-remunerazioni o auto-esenzioni, nell’umile esemplarità della propria esistenza e con la trasparenza delle opere». Il cardinale ha ripetuto che sull’Ici la Chiesa in Italia «non chiede trattamenti particolari, ma semplicemente di aver applicate a sé, per gli immobili utilizzati per servizi, le norme che regolano il no profit. I Comuni vigilino, e noi per la nostra parte lo faremo». Ma ha auspicato anche che finiscano le polemiche che fanno sorgere «sospetti inutili» e, «in ultima istanza, infirmare il diritto dei poveri di potersi fidare di chi li aiuta».

Bagnasco ha accennato anche al percorso iniziato dai cattolici in politica: «Il nostro laicato vuole esserci, consapevole di essere portatore di un pensiero forte e originale, cioè non conformista. Consapevole di un dovere preciso che scaturisce anche dalla propria fede e da una storia lunga e feconda nota a tutti». E ha rilanciato quella che chiama «una felice “provocazione” del Papa»: «Ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell’economia risultasse incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede, quasi fosse un dato acquisito una volta per tutte».

Nella parte iniziale della prolusione, il cardinale aveva parlato dell’Anno della Fede, notando l’esistenza «qua e là» di «una strana reticenza a dire Gesù, una sorta di stanchezza, uno scetticismo talora contagioso. Al contrario, ed è il Papa stesso a ricordarcelo, c’è l’entusiasmo riscontrabile nei giovani e nei giovani Continenti, a partire dall’Africa che egli ha visitato di recente e dove si è colta un’impressionante vitalità e una larga passione per il Vangelo».

http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/cei-11943/

Perché è difficile imitare l'America sulle liberalizzazioni

Monti a confronto con gli americani: a New york i notai non esistono, le parafarmacie sono aperte 24 ore al giorno e la benzina costa 0.7 euro al litro

Il decreto sulle liberalizzazioni varato venerdì scorso dal governo Monti ha seminato scompiglio in tutt’Italia. I pareri sono discordanti: c’è chi è a favore e chi annuncia scioperi a oltranza. Secondo Susanna Camusso, segretario della Cgil : "Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai", mentre per Emma Marcegaglia, leader di Confindustria: "Le liberalizzazioni sono sacrosante perché non è più possibile che ci sia un pezzo di mondo che combatte ogni giorno, cioè le imprese coi loro lavoratori, e dall’altro un pezzo di mondo che scarica sull’altro eccesso di tariffe, costi e inefficenza. E' un tema fondamentale, ci saranno gli strilli: e lasciamoli strillare, l’importante è che il governo vada avanti con la barra dritta". Ecco cosa cambierà e come funziona il sistema a New York.

Benzinai. Nell’Italia di Monti non ci saranno contratti di esclusiva
tra benzinai e compagnie, i distributori potranno vendere anche prodotti non-oil, fuori dai centri abitati sarà possibile aprire self-service senza limiti. Sul primo punto è disposto che i gestori degli impianti di distribuzione che siano anche titolari della relativa autorizzazione petrolifera (sono solo 500 su 25 mila) potranno liberamente rifornirsi da qualsiasi produttore o rivenditore nel rispetto della vigente normativa nazionale ed europea (possibilità data però non per tutta la fornitura ma per la parte eccedente il 50 per cento della fornitura complessivamente pattuita e comunque per la parte eccedente il 50 per cento di quanto erogato nel precedente anno dal singolo punto vendita). Passando al secondo punto, è consentita l’attività di «somministrazione di alimenti e bevande», ma anche la vendita di quotidiani e periodici senza limiti di ampiezza della superficie dell’impianto (per la rivendita di tabacchi è richiesta una superficie minima di 1.500 metri quadrati). Quanto agli impianti posti fuori dai centri abitati e completamente automatizzati, saltano tutti i vincoli o le limitazioni al loro utilizzo continuativo temporale. Altra novità: la possibilità per i gestori degli impianti di distribuzione di aggregarsi, anche in deroga a eventuali clausole negoziali che lo vietino, per sviluppare la capacità di acquisto all’ingrosso dei carburanti, dei servizi di stoccaggio e del trasporto dei medesimi. Un articolo impone una maggiore trasparenza nelle informazioni ai consumatori sui prezzi (delle tre cifre che seguono la virgola nel prezzo, le prime due devono essere evidenziate). La Faib Confesercenti ha confermato lo sciopero dei benzinai nei prossimi giorni, concedendo solo uno “sconto” da una settimana, come era stato detto in un primo momento, a 72 ore. Il presidente Martino Landi: «Al momento non abbiano elementi che ci consentono di revocare lo sciopero. Ci riserviamo di valutare ciò che prevede il testo definitivo ma pensiamo che non sia migliorato rispetto alle nostre attese». I distributori all’americana significheranno prezzi all’americana (che gli americani, per inciso, abituati a tempi migliori e più bisognosi di carburante, considerano troppo alti)? Un Pippo su internet (il 9 gennaio): «Sono stato in Usa e per far il pieno a un Suv ho speso solo 30 dollari. In pratica ho pagato 3,5 dollari al gallone e 1 gallone sono poco meno di 4 litri. In pratica in Italia paghiamo 1,7 euro al litro e in USA pagano 0,7 euro al litro. Sti cazzi!!!!». Putroppo in Italia più della metà (59%) del prezzo è formato da tasse e balzelli, non c’è dunque da farsi illusioni. [1]

Farmacisti. Nell’Italia di Monti verranno assegnate in cinque mesi
5 mila nuove licenze per aprire farmacie (anche in aeroporti, aree di servizio e centri commerciali) anche al di fuori della regola di un punto vendita ogni 3 mila abitanti. Concorsi straordinari da bandire entro fine giugno, in caso le Regioni non siano in grado di portare a termine l’operazione verrà nominato un commissario di governo. Orari, turni e sconti (anche sui farmaci di fascia A, totalmente a carico del Servizio sanitario nazionale) diventano liberi, il medico di base dovrà aggiungere in ricetta le parole: «O farmaco equivalente, se di minor prezzo»: questa misura serve ad incentivare l’uso dei cosiddetti generici, medicinali con lo stesso principio attivo di quelli di marca ma più economici (secondo l’Aifa la differenza costa agli italiani 800 milioni di euro l’anno). Bloccata l’apertura alla concorrenza delle parafarmacie (possono vendere prodotti da banco non «etici» e senza obbligo di ricetta) nella vendita dei farmaci di fascia C (con ricetta, pagati interamente dai pazienti). Alberto Ambreck, storico farmacista milanese: «Volevano venderli fuori dalle farmacie. Ma si rende conto? Ci sono stupefacenti, viagra, psicofarmaci, farmaci abortivi... È stato un atto di presunzione. Fortuna che non è passato». Se non cambiano le cose, ha fatto sapere Federfarma, a febbraio scatterà la serrata. A dire il vero già così più che una liberalizzazione siamo di fronte a un mero aumento del numero di operatori. La Repubblica: «Di per sé non è sbagliato, ma rappresenta una risposta largamente insufficiente all’esigenza di introdurre concorrenza». Per ora resteranno delusi quelli che durante le vacanze a New York sono rimasti colpiti da catene come Walgreens e la controllata Duane Reader, con negozi aperti 24 ore su 24 (grande stupore dei turisti provenienti dalle grandi città statunitensi quando scoprono che a Roma non esiste niente del genere). Gianni Riotta: «Si sono allargate con supermercati, giornalai, cosmetici, librerie, prodotti per la casa, cucina espressa, andate per la pillola anticolesterolo e vi mettete nel carrello uova, burro e bacon». Fermo restando che la situazione varia molto da Stato a Stato, negli Stati Uniti comunque serve la ricetta per prodotti che in Italia sono considerati da banco e quanto alla questione tra prodotti generici e di marca, il problema è risolto dall’aggressiva pubblicità comparativa. [2]

Notai (avvocati ecc.). Nell’Italia di Monti ci saranno, entro il 2014
, 1.500 notai in più (oggi non arrivano a 6.000). Per adesso l’incremento di organico si limiterà a 500 unità, «che si aggiunge a incrementi fatti l’anno scorso attraverso la revisione della pianta organica». Paola Severino, ministro della Giustizia: «Ogni tre anni sarà rivisto il rapporto tra le persone presenti in un bacino demografico e i notai, in modo che il rapporto sia sempre bilanciato». Luciano Buonanno, notaio di Pesaro: «Che in pochi mesi loro pensino di trovare tutti quei notai è una follia. Questa è una professione che richiede impegno costante, aggiornamenti, professionalità. Non è che in quattro giorni si liberalizza tutto e si fabbricano 500, 1.000 o più notai. Non è che si può mettere sul mercato chiunque. E poi con quali prospettive? Nelle grandi città mediamente i redditi per gli studi avviati sono alti, è vero. Ma cominciamo col dire che noi le tasse le paghiamo tutte. Diciamo che servono anni e anni di professione e serietà per avere uno studio ben avviato». Le tariffe, minime e massime, sono del tutto abolite: la questione riguarda anche gli avvocati, i professionisti avranno l’obbligo di presentare al cliente un preventivo scritto con il compenso e l’indicazione della polizza assicurativa. Cambieranno anche le norme che regolano l’accesso alla professione: il tirocinio dovrà avere la durata massima di 18 mesi e – grazie ad una convenzione che sarà stipulata fra ministero dell’Istruzione e Ordini professionali – 6 di questi potranno essere svolti presso le Università. Una norma, questa, indigesta a tutti gli Ordini professionali (destinati a perdere potere sotto questo aspetto) e in particolare agli avvocati che già hanno dichiarato guerra al decreto approvando un pacchetto di sette giorni di sciopero per protestare contro le nuove regole, tariffe in primis. Bonanno: «C’è la corsa a chi chiede di meno e anche questa è cosa nota. Uno chiede mille, allora si va da un altro che offre 800, poi 700... così si svilisce la professione, si peggiora in qualità. Come si fa a non capirlo? Ci vuole buonsenso, sotto certi limiti non si può scendere, è una questione di dignità professionale, di responsabilità e di costi per la gestione del lavoro». Repubblica: «Poco rilevante l’abolizione delle tariffe. Positiva la semplificazione dell’accesso alle professioni, con il tirocinio all’università. Discutibile l’obbligo di preventivo». I tanti italiani che in questi anni hanno comprato casa negli Stati Uniti sanno che da quelle parti il notaio non esiste: per stipulare un atto di vendita non c’è bisogno di intermediari qualificati, il compito è affidato ad agenzie specializzate con costi che sono in media (variazioni da Stato a Stato) la metà che da noi (esistono poi i real estate litigator, avvocati specializzati in controversie sulla proprietà degli immobili, e vanno considerati numerosi costi assicurativi). [3]

Taxisti. Nell’Italia di Monti sarà l’Autorità dei trasporti
(in attesa che venga creata, ne farà le veci quella per energia elettrica e gas) a decidere – città per città e sentendo i sindaci - se aumentare le licenze dei taxi. La Repubblica: «Nel caso, sono previste compensazioni una tantum in favore dei tassisti già in attività con i ricavati dell’asta delle nuove licenze. Ci sarà maggiore flessibilità sugli orari di lavoro (arriva anche il part-time) e gli autisti potranno “caricare” i clienti anche in aeree diverse da quelle di propria pertinenza (previo accordo con i sindaci). Ci sarà poi maggiore libertà nella definizione delle tariffe ma con un tetto per quelle massime. Viene eliminata la concentrazione delle licenze in mano ad un singolo soggetto (inizialmente prevista) per evitare posizioni dominanti. La liberalizzazione viene di fatto rimandata. Positive alcune suggestioni come la possibilità di esercitare l’attività anche in altri comuni e la flessibilità tariffaria». Nicola Di Giacobbe, segretario di Unica-Cgil: «Se le norme dovessero essere confermate, la categoria non rimarrà certo con le mani in tasca ed è pronta a mobilitarsi». Chi ha passato le vacanze di Natale a New York, sa che da quelle parti i prezzi sono più bassi che da noi: 10,25 dollari per una corsa di 5 km contro gli 11,46 dollari di Roma e i 12.64 dollari di Milano (fonte una ricerca della banca svizzera Ubs sul costo della vita nelle principali città del mondo). Nella Grande Mela i taxi sono acquistati da società di investimento che li danno in affitto agli autisti, un sistema che i nostri taxisti rifiutano perché «porta all’autosfruttamento» (ore e ore al volante). [4]
NOTE: [1] Repubblica, il Sole 24 Ore, La Stampa, Corriere della Sera [2] Repubblica, Sole 24 Ore, Corriere della Sera, La Stampa  [3] Repubblica, Corriere della Sera [4] Repubblica, La Stampa, Corriere della Sera

http://www.ilfoglio.it/soloqui/12011 

domenica 22 gennaio 2012

The Iron Lady - trailer italiano


Fantozzi e Filini giocano a tennis


Le nostalgie fuori luogo, di Angelo Panebianco

RITORNO AL SISTEMA PROPORZIONALE?

Adesso che la sentenza della Corte costituzionale ha aperto un’autostrada di fronte a coloro che sono interessati a chiudere la stagione maggioritaria iniziata nei primi anni Novanta e a reintrodurre la proporzionale comunque camuffata, diventa tempo di bilanci. Che cosa resta di positivo di quella stagione? Due cose. La legge sulla elezione diretta dei sindaci. E il fatto che gli italiani, sia pure per poco, hanno potuto sperimentare ciò che non avevano mai conosciuto ai tempi della Prima Repubblica e che è la regola in altre democrazie: primi ministri e governi scelti tramite un confronto elettorale aperto fra forze politiche contrapposte anziché tramite giochi parlamentari post-elettorali.
Il sistema non ha funzionato bene? Forse, ma occorre tempo (a volte, qualche generazione) perché le innovazioni vengano davvero assimilate, diventino parte della tradizione politica di un Paese e possano dare il meglio di sé. Non si è concesso alla rivoluzione maggioritaria il tempo necessario perché fosse assimilata. Soprattutto, non si è verificato ciò che i riformatori degli anni Novanta speravano: non c’è stato l’effetto- trascinamento allora auspicato. Non sono seguite (tranne nel caso dei governi locali) quelle trasformazioni istituzionali che avrebbero dovuto accompagnare il cambiamento della legge elettorale: non sono stati toccati i rapporti fra presidenza della Repubblica, governo e Parlamento, e i rispettivi poteri. Abbiamo così accoppiato—provocando gravi disfunzioni — una legge maggioritaria (che carica di una fortissima legittimazione, e di pari aspettative, i governi così eletti) a relazioni fra le suddette tre istituzioni rimaste invariate, più adatte all’epoca precedente, quando i governi, nati da accordi parlamentari, avevano legittimazione debole e precaria.
Ma, si dice, il vero difetto stava nel fatto che con il maggioritario si formavano coalizioni eterogenee e rissose, con grave danno per la governabilità. Approfondiamo questo aspetto. In tutte le democrazie difficili (come è stata e continuerà ad essere la nostra) esistono molti estremisti, persone alla perenne ricerca di una leva per «rovesciare il tavolo ». Ne consegue che nelle democrazie difficili sarà sempre molto nutrito il numero di rappresentanti parlamentari degli estremisti. Che cosa deve farci la democrazia con questi rappresentanti? Nella logica maggioritaria li include, in quella proporzionale li esclude. I proporzionalisti propongono di tornare a un sistema nel quale i rappresentanti degli estremisti siano esclusi dalle combinazioni di governo. La proporzionale, a differenza del maggioritario, lo consente.
A prima vista, sembra ragionevole. Ma c’è un problema. Poiché gli estremisti sono tanti, ne consegue che i partiti moderati non disporranno mai dei numeri necessari per alternarsi al governo, per formare coalizioni elettorali in grado di conquistare la maggioranza dei seggi. Risultato: l’esclusione permanente dei partiti estremisti determina l’impossibilità di alternanze per vie elettorali. Sbarrata quella possibilità, non resta che la formazione dei governi tramite accordi parlamentari tra partiti moderati.
In concreto, significa che qualche partito sarà al governo sempre, quali che siano i risultati delle elezioni, nonché le sue performance governative. E significa che i governi che si formano (attraverso un gioco di inclusioni ed esclusioni dell’una o l’altra frazione moderata) saranno governi a debole legittimazione, privi di quel valore aggiunto che dà a un premier e al suo governo la vittoria elettorale. Inoltre, poiché la punizione degli elettori può essere elusa, i governi avranno vita breve (non ci saranno mai governi di legislatura), continuamente destabilizzati dalle ambizioni personali di questo o quel politico, o gruppo, provvisoriamente escluso dal governo. Così è stato nella Quarta Repubblica francese (1946-1958). Così è stato in Italia (dopo i governi della ricostruzione) fino al 1993. Così è sempre nelle democrazie difficili, gravate da un eccesso di estremisti.
Oltre a una perenne debolezza e instabilità degli esecutivi, con la proporzionale c’è l’inconveniente che i partiti estremisti, sciolti dai vincoli delle coalizioni di governo, dispongono della libertà di manovra necessaria per mietere buoni raccolti elettorali.
Invece, nella logica maggioritaria applicata alle democrazie difficili, gli estremisti vengono inclusi. La ratio è: fanno meno danni se sono dentro. Nelle coalizioni che la logica maggioritaria impone, i partiti estremisti possono essere controllati e, entro certi limiti, responsabilizzati. E non dispongono di sufficiente spazio di manovra per strappare troppi consensi ai moderati. Si può anche sperare che col tempo i bollori si spengano, che molta più gente, grazie al fatto che gli estremisti non sono troppo liberi di spararle grosse, si stanchi di loro scoprendo le virtù della moderazione. Non è sicuro che accada. Ma, almeno, in regime di maggioritario, una speranza c’è. Con la proporzionale, invece, tale possibilità è esclusa. Si tratta di un perfetto brodo di coltura per estremisti liberi dalle costrizioni del governo, l’ambiente più adatto per fare crescere opposizioni irresponsabili.
Ai tempi della proporzionale, esistevano in Italia grandi partiti con un forte insediamento sociale. A differenza di altri, chi scrive non ne è mai stato un estimatore. Resta che quei partiti assicuravano una certa coesione sociale. Come si potrebbe evitare, con il ritorno alla proporzionale, un effetto marmellata, una condizione permanente di confusione e di precarietà, posto che quei partiti radicati di un tempo non sono più ricostituibili? Il futuro sarebbe scritto: instabilità, governi deboli e precari, ampi spazi per opposizioni irresponsabili. Varrà la pena di pensarci se e quando (come sembrano indicare i propositi che la politica sta manifestando) si metterà mano alla riforma elettorale.

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_19/proporzionale-nostalgie-fuori-luogo-panebianco_d1734f18-4247-11e1-9408-1d8705f8e70e.shtml

venerdì 20 gennaio 2012

Se Monti e Sarkò tacciono ci pensa il pm di Trani, di Francesco Manacorda

Toccherà alla Procura di Trani, a lei sola, salvare l’onore dell’Italia, forse dell’Europa intera contro, il vile attacco di Standard & Poor’s?

Gli analisti dell’agenzia americana hanno abbassato i rating di mezza Europa, ma nessuno ha gridato al complotto. Frau Merkel: «Loro fanno il loro lavoro, noi facciamo i nostri compiti». Sarkozy, appena più cattivo: «Istigatori della crisi che agiscono controtempo». Monti, diplomatico: «Condivido l’analisi, non il giudizio».


Del resto anche Obama, quando in agosto era toccato agli Usa finire impallinati aveva reagito con misura: «Non importa quel che dice qualche agenzia. L’America è sempre stata e sarà sempre un Paese da tripla A». E ancora, non sono arrivati commenti dalla Bce di Mario Draghi, né dall’americana Sec i feroci controllori del mercato azionario.


Il mondo incassa il colpo, insomma. Ma in mezzo a tanta remissività ecco stagliarsi la Procura di Trani. Da Trani s’indaga contro le agenzie di rating ormai dal 2010 e fino - si è appreso ieri - ai fattacci di venerdì scorso, quando all’Italia è stato appioppato il giudizio poco lusinghiero di BBB. Da Trani sono partiti ieri alla volta della sede milanese di S&P il pm Michele Ruggiero e uomini della Guardia di Finanza per acquisire documenti indispensabili all’inchiesta. Da Trani si spiegava già in agosto che l’indagine, con le ipotesi di reato di manipolazione del mercato e abuso di informazioni privilegiate, riguardava «giudizi falsi, infondati o comunque imprudenti» da parte delle agenzie. La prova? Ad esempio il fatto che in maggio l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva detto che la valutazione della stessa agenzia sull’Italia «non era veritiera».


Intendiamoci, con l’azione penale obbligatoria la Procura, anche quella di Trani, ha ovviamente tutti i motivi di aprire i suoi fascicoli sulla base di denunce ricevute. E nessuno qui vuole difendere a priori gli uomini della triplice delle agenzie di rating - oltre a S&P ci sono Moody’s e Fitch - che spesso danno l’impressione di essere non tanto un affidabile termometro dei mercati, quanto un segnale antincendio che entra in funzione quando la casa è ormai in fiamme. Ma dalla sana critica dei controllori che non si capisce bene da chi siano controllati all’uso del Codice Penale per ipotesi di reato che appaiono tutte da dimostrare, il passo appare decisamente lungo.


Forse, invece di immaginare complotti planetari, l’Italia tutta farebbe bene a trarre le conseguenze da una valutazione che sarà ingiusta ma che comunque - Monti dixit - ha i suoi motivi. E forse anche qualche iniziativa sopra le righe della magistratura, in un Paese dove la certezza del diritto è fluida e la durata del processo scandalosa, finisce per tirare anch’essa in basso il rating - non solo quello di Standard&Poor’s - di casa nostra.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9668

mercoledì 18 gennaio 2012

La scienza apra i santuari ai giovani, di Umberto Veronesi

Sono dalla parte dei giovani che si ribellano al potere oligarchico delle storiche pubblicazioni scientifiche - per dirla semplicemente, nessuna scoperta è vera se non appare su Nature , Science , o The New England Journal of Medicine - e reclamano una «Open Science», una scienza aperta a chi, per età e cultura, non può far parte di quella oligarchia.

Negli anni passati ho avuto il privilegio di avere quasi una decina di lavori pubblicati sul
New England Journal of Medicine e non vorrei sembrare irriconoscente. Ma i tempi sono cambiati. Per sua natura, la scienza è «aperta», ma ciò che dobbiamo migliorare è l’accesso al suo mondo. Per questo, già cinque anni fa ho avviato in Europa una campagna a favore dell’Open Access to Science.

Il problema del difficile ingresso dei giovani nelle carriere della ricerca è mondiale ed è certamente legato alla scarsità di investimenti globali, ma ha cause profonde anche nell’organizzazione stessa del mondo scientifico. Fra queste figura senza dubbio la comunicazione delle nuove scoperte e i risultati degli studi, prima all’interno della comunità scientifica mondiale e poi alla società civile, che giustamente attende di conoscere questi nuovi traguardi.


Proprio lavorando molto in mezzo ai giovani ricercatori mi sono reso conto di almeno tre ragioni di insoddisfazione nei confronti dell’attuale sistema di informazione in scienza. La prima è il tempo troppo lungo che intercorre fra risultati di un lavoro e la loro pubblicazione. Prima che una nuova ricerca appaia su una rivista scientifica bisogna aspettare mesi per sapere se verrà pubblicato oppure no; poi l’articolo che la descrive va corretto, e altri mesi o un anno intero possono ancora passare prima della effettiva pubblicazione. Questo ritardo operativo si traduce in un ritardo nella disseminazione delle conoscenze, che può a sua volta comportare un ritardo nel progresso scientifico. La seconda ragione è la scarsa disponibilità di informazioni in tutti gli angoli del Pianeta, che va contro il principio galileiano dell’universalità della scienza. Gli alti costi delle riviste scientifiche limitano la loro distribuzione nei Paesi emergenti. La terza ragione è che i commenti o le critiche a un lavoro pubblicato su una rivista appaiono mesi dopo, e così le risposte degli autori: il processo che dovrebbe essere di «botta e risposta» può durare un anno, e in un mondo che è ormai abituato ai tempi di reazione di Twitter, questo non è più accettabile. Oggi dunque non c’è alternativa al web per la diffusione delle informazioni scientifiche, come succede per il resto delle comunicazioni. Ci sono progetti, come quello di Negroponte, che disegnano un futuro in cui ogni cittadino della Terra avrà accesso a un computer. Il mondo già si orienta verso questo scenario. Se tutti questi computer avranno accesso a un network, la disseminazione dell’informazione scientifica sarà garantita e i giornali cartacei rischierebbero di diventare un ricordo.


Noi ci siamo mossi in questa direzione creando la prima pubblicazione scientifica oncologica on-line che abbiamo chiamato «ecancermedicalscience».


Sulla nostra rivista i lavori sono esaminati immediatamente e l’accettazione o il rifiuto viene reso noto nel giro di una settimana; i commenti appaiono in diretta; l’accesso alla rivista è gratuito e la partecipazione alla discussione è gratuita. E’ un giornale aperto agli autori e aperto ai lettori. «Ecancer» sta avendo molto successo. Certo, è un modello scomodo da seguire, perché comporta lo scardinamento dei pilastri dell’autorevolezza scientifica. Ma vorrei rassicurare i giovani «ribelli»: l’open access alla scienza è un obiettivo che può solo essere ostacolato o ritardato, ma non può essere evitato. La rivoluzione del web ha fatto del nostro Pianeta un mondo globale, in grado di ascoltare anche la voce del singolo individuo da ogni angolo remoto: non c’è via di ritorno e la scienza non può che cogliere il lato positivo di questa nuova straordinaria realtà.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9659

martedì 17 gennaio 2012

L'odio è un tonico, fa vivere, ispira vendetta; invece la pietà uccide, indebolisce ancora di più la nostra debolezza (Honoré de Balzac).

Se la viltà batte il "compito della vita", di Pierangelo Sapegno

Non sappiamo se come Lord Jim anche il comandante Francesco Schettino dovrà correre tutta la sua vita, da un posto all’altro, fra la vergogna e il rimpianto, per sfuggire ai suoi demoni.

Anche nel romanzo di Joseph Conrad, il primo ufficiale era scappato su una scialuppa dalla sua nave in tempesta. Processato e degradato, fu costretto a scappare con la sua ignominia senza riuscire a perdonarsi il suo errore, trovando riscatto solo alla fine in una terra lontana. L’eroismo serve nei film, o nei libri. Francesco Schettino dev’essere costretto ad affrontare altri fantasmi, cercando fra i rimorsi di un errore. Ma come per Lord Jim, ormai niente sarà più come prima.


E’ che ci sono errori che cambiano la vita. L’errore dell’uomo ha sempre qualcosa di imponderabile in sé, qualcosa che resta difficile da giudicare, come il peccato: una paura, un sentimento, a volte solo un pensiero, che ne determina l’azione. In fondo, che cos’è l’errore se non un peccato. Sono le conseguenze che ne classificano la gravità. Ecco, la fuga e l’atto di viltà, hanno una accezione più grave di tutti gli altri, semplicemente perché appartengono anche a noi, alle nostre fragilità e alle nostre miserie, e noi sappiamo bene quanto dobbiamo combattere ogni giorno per superarle. La viltà di un altro ci indebolisce. Ma la viltà di chi comanda ci umilia, ha qualcosa in sé che non è spiegabile se non con il rifiuto e lo spregio. Il generale Giacomo Zanussi raccontava così in un suo diario la fuga del Re e degli Alti Comandi da Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: «Sono passate le sei. Qualche soldato, fermo sui marciapiedi, davanti agli edifici del Ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta. Ma gli altri, i più, restano come sono, berretto di traverso, viso torvo, mani in tasca. Annusano la fuga dei capi». Quel peccato costò la vita di 1300 soldati e cittadini anonimi, mentre una fila vociante di 250 ufficiali con le loro famiglie si riversava disordinatamente sulla tolda della corvetta Baionetta nel porto di Pescara, fra insulti preghiere e spintoni, per scappare a Brindisi.


Come si vede, c’è sempre, nella diversità delle azioni, una diversità ancora più evidente di comportamento. Non è solo la dignità del coraggio, o la vergogna della fuga. Il commissario di bordo Manrico Giampedroni risponde quasi sorridendo, sdraiato su un lettino, con la mano e il braccio fasciato e la gamba ingessata, che lui ha fatto quello che doveva fare, mica di più. «Quello era il mio compito», dice. «Credo che anche il comandante abbia fatto il suo». E’ il senso del dovere, quello che ti eleva, la fatica di fare il tuo compito ogni giorno e tutti i giorni. Non è così semplice come sembra. Molti di noi ci riescono. Ma sono i migliori. Perché non devi sbagliare. L’ammiraglio Persano, nel 1866, perse la battaglia di Lissa contro Wilhelm von Tegetthoff, il comandante austriaco che parlava in veneto ai suoi marinai, che erano tutti triestini, istriani, dalmati e veneziani. Ritornò in Italia annunciando una grande vittoria, fino a quando non vennero pubblicati i bollettini della battaglia: gli italiani, nonostante una flotta numericamente superiore, si erano ritirati con due navi corazzate affondate e 620 morti, contro i soli 38 degli austriaci, che non avevano perso alcuna unità. Il proprio compito bisogna farlo sino alla fine. Nessuno riuscì a capire l’enorme e inutile bugia raccontata dall’ammiraglio. Ma certo, per commettere un errore del genere, tutti pensarono che doveva averne nascosto uno più grande.


Quello più grande commesso da Francesco Schettino, non possiamo giudicarlo. Tocca agli altri farlo. Come quei soldati che vedevano correre via la Fiat 2800 grigioverde con il re e il generale Puntoni, anche a noi non resta che guardare. E lui non l’abbiamo visto fra i volti dolenti dei turisti disperati e di tutti quelli che adesso stanno lottando contro il mare e contro il tempo per salvare l’ultima vita. Lì c’erano solo gli uomini di tutti i giorni, quelli che accettano il compito della vita. Fino in fondo.


http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9657

lunedì 16 gennaio 2012

Agnese, di Ivan Graziani


Spalle al muro, di renato Zero


Golden Globe a "Paradiso amaro", Clooney e Meryl Streep

E' andato a "Paradiso amaro" il Golden Globe per il miglior film, nella categoria "drama" e George Clooney, protagonista della pellicola di Alexander Payne, e' stato premiato come miglior attore drammatico avendo la meglio sugli amici Brad Pitt e Leonardo di Caprio.

FILM MUTO "THE ARTIST" FA INCETTA DI PREMI
"The Artist" ha fatto incetta di premi ai Golden Globes tributati ieri sera al Beverly Hilton hotel di Los Angeles. Il film muto in bianco e nero, scritto e diretto da Michel Hazanavic, ha vinto il Golden Globe come migliore film nella categoria commedia o musical, come miglior attore con il riconoscimento al protagonista Jean Dujardin e come migliore colonna sonora originale.
 


MERYL STREEP MIGLIOR ATTRICE PER "LADY DI FERRO"
Meryl Streep si e' aggiudicata il Golden Globe come migliore attrice per la sua interpretazione della "Lady di Ferro" nel film diretto da Phyllida Lloyd e dedicato all'unico primo ministro donna della storia del Regno Unito: Margaret Thatcher.
  L'attrice, al suo ottavo Golden Globe, e' salita sul palco del Beverly Hilton hotel di Los Angeles per ritirare il prestigioso riconoscimento nella categoria "drama", tributato ogni anno dall'Associazione stampa estera di Hollywood, sfoggiando un lungo abito nero con il corpetto in pizzo in style cowgirl.
  Dopo i ringraziamenti di rito si e' dichiarata "molto orgogliosa di questo film". Meryl Streep ha vinto il Golden Globe anche nel 2010 per "Julia & Julia" e nel 2007 per il "Diavolo veste Prada", solo per citare i piu' recenti.
 

SCORSESE MIGLIOR REGISTA,A FREEMAN PREMIO SPECIALE
A Martin Scorsese il premio come miglior regista per "Hugo Cabret", mentre a Morgan Freeman e' andato lo speciale riconoscimento Cecil B. De Mille. Per i due giganti del cinema di Hollywood c'e' stata una standing ovation.

MIGLIOR SCENEGGIATURA A WOODY ALLEN
E' andato a Woody Allen per "Midnight in Paris" il Golden Globe per la migliore sceneggiatura. Alla cerimonia di consegna, Woody Allen, notoriamente 'allergico' agli 'oscar', non ha partecipato.
 

"MASTERPIECE" DI MADONNA MIGLIOR CANZONE
La pop star Madonna ha vinto il Golden Globe per la miglior canzone originale nel film "Masterpiece". "Questa e' una vera sorpresa", ha detto la cantante ritirando il premio durante la cerimonia di consegna. (AGI) .

domenica 15 gennaio 2012

SANREMO 2012 - I 14 "Artisti", ecco la lista ufficiale

L'attesa è finita. Nel corso dell'Arena di Massimo Giletti, il salotto domenicale di RaiUno, Gianni Morandi ha reso noti i nomi dei 14 cantanti che parteciperanno al Festival di Sanremo 2012. La kermesse canora, giunta quest'anno alla 62esima edizione, promette scintille.

Ecco i nomi:
Dolcenera
Irene Fornaciari
Nina Zilli
Samuele Bersani
Pierdavide Carone
Noemi
Matia Bazar
Arisa
Francesco Renga
Emma Marrone
Gigi D'Alessio-Loredana Bertè
Chiara Civello
Eugenio Finardi
Marlene Kuntz


Accompagnati da star internazionali di assolito rilievo, quali Patti Smith e Al Jarreau, dal 14 al 18 febbraio gli "Artisti" si daranno battaglia sul palco della manifestazione canora italiana per eccellenza.

Eccomi, di Marco Frisina


Prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi (6, 13-15 17-20)

Fratelli, il corpo  non è per l'impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito.
State lontani dall'impurità! Qualsiasi peccato l'uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all'impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque a Dio nel vostro corpo!

sabato 14 gennaio 2012

Maledette malelingue, di Ivan Graziani


Il coraggio che non c'è, di Maurizio Ferrera

LAVORO, TROPPI TIMORI

Con le consultazioni avviate dal ministro Fornero, la partita sul mercato del lavoro sta entrando nel vivo. Sinistra e sindacati hanno levato gli scudi a difesa dell'articolo 18. Per ora, dunque, la discussione riguarda essenzialmente il cosiddetto contratto unico o «prevalente» (che dovrebbe sostituire la pletora di contratti atipici) e gli ammortizzatori sociali.
Precarietà e scarse tutele contro la disoccupazione sono problemi molto seri, che creano crescente disagio sociale. Su entrambi i fronti le soluzioni non possono che essere di tipo «difensivo»: ciò che serve è infatti maggiore protezione. L'agenda delle riforme non può però esaurirsi con questo tipo di misure. Occorrono anche provvedimenti di tipo «espansivo», capaci di stimolare l'occupazione.
In Italia mancano i posti di lavoro. Non è solo colpa della crisi, il problema ha radici strutturali. I nostri tassi di occupazione sono fra i più bassi d'Europa: rispetto alla Gran Bretagna (che ha la stessa popolazione dell'Italia) abbiamo quasi sette milioni di occupati in meno, soprattutto donne. La via maestra per creare lavoro è ovviamente la crescita. Ma attenzione: la struttura del mercato occupazionale è a sua volta un fattore di crescita. Se ci sono troppe strozzature, i posti di lavoro non arrivano neppure quando l'economia si espande. Le riforme possibili sono tante, ma la più promettente è una drastica semplificazione delle norme. Agli imprenditori stranieri il diritto del lavoro italiano appare come un indecifrabile mosaico bizantino, privo di certezze interpretative e applicative. Il risultato è che abbiamo pochissimi investimenti esteri e così rinunciamo a centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
C'è poi la riforma dei servizi per l'impiego. Mancano programmi efficienti di reinserimento e riqualificazione dei disoccupati, soprattutto i più anziani. Chi è in cerca di lavoro è abbandonato a se stesso, mentre ai beneficiari di sussidi non viene chiesta alcuna contropartita. Scuola e università non parlano con le imprese, che a loro volta non sanno valorizzare le competenze di diplomati e laureati. Abbiamo un enorme deficit di occupazione nel terziario: se non incentiviamo l'economia dei servizi è impensabile raggiungere i livelli d'impiego di Francia o Gran Bretagna.
Le parti sociali possono far molto, anche sul piano bilaterale. Ma sulle questioni decisive occorre l'iniziativa del governo. Ciò vale soprattutto per la semplificazione. La proposta Ichino sul nuovo Codice del lavoro costituisce un'ottima base da cui partire. La questione della flessibilità in uscita potrebbe anche essere accantonata e affrontata, per il momento, con sperimentazioni volontarie.
Sul mercato del lavoro dal governo Monti ci aspettiamo non un compromesso al ribasso, ma un progetto ambizioso che combini l'obiettivo dell'equità protettiva con quello dell'efficienza regolativa e organizzativa. E ci auguriamo che, al momento buono, sinistra e sindacati sappiano mostrare disponibilità e lungimiranza: non solo sul primo, ma anche sul secondo obiettivo.