mercoledì 11 gennaio 2012

La revisione dell’imperativo di crescita, di Kenneth Rogoff


CAMBRIDGE – La macroeconomia sembra spesso considerare una crescita economica rapida e stabile come lo scopo principale di tutte le politiche, un messaggio che viene ribadito nei dibattiti politici, nelle sale di consiglio delle banche centrali e nei titoli di prima pagina dei quotidiani. Ma ha effettivamente senso continuare a considerare la crescita come il principale obiettivo sociale, proprio come presuppongono implicitamente i manuali di economia?
Diverse critiche nei confronti delle statistiche economiche standard sostengono l’importanza di considerare misure welfare più allargate a livello nazionale, tra cui l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione, ecc. Queste valutazioni sono state espresse anche dal United Nations Human Development Report e, più recentemente, dalla Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress sponsorizzata dai francesi e presieduta dagli economisti Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi.
Ma ci potrebbe essere un problema ben più profondo della limitatezza delle statistiche, ovvero il fallimento della teoria della crescita moderna nell’enfatizzazione in termini adeguati degli individui quali creature sociali che valutano il proprio benessere sulla base di ciò che vedono intorno a loro e non solo di standard assoluti.
L’economista Richard Easterlin ha osservato che i sondaggi sulla “felicità” dimostrano, sorprendentemente, un’evoluzione minima nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale a dispetto di un trend consistente di crescita del reddito. Non c’è bisogno di dire che i risultati di Easterlin risultano meno plausibili per i paesi molto poveri dove i redditi in rapida crescita spesso permettono alle società di godere di importanti miglioramenti della qualità di vita che sono presumibilmente strettamente correlati a qualsiasi misura adeguata per il benessere generale.
Nelle economie avanzate, tuttavia, la metodologia del benchmarking è un fattore decisamente importante per la modalità di valutazione del benessere personale degli individui. In tal caso, la crescita generalizzata del reddito potrebbe far evolvere queste valutazioni molto più lentamente di quanto ci si possa aspettare se si osserva il modo in cui un aumento del reddito individuale influisce sul proprio benessere rispetto agli altri. In relazione a ciò, la metodologia del benchmarking potrebbe implicare un calcolo diverso dei trade-off tra la crescita e le altre sfide economiche, tra cui il degrado ambientale, rispetto a quanto suggeriscono i modelli convenzionali di crescita. 
Bisogna riconoscere che esiste una ridotta ma importante documentazione che sostiene che gli individui attingono pesantemente ai parametri storici o sociali nelle loro scelte e nelle loro opinioni economiche. Purtroppo questi modelli tendono ad essere difficili da manipolare, valutare o interpretare e tendono, di conseguenza, ad essere utilizzati in contesti molto specializzati, come ad esempio per spiegare il cosiddetto “equity premium puzzle” (ovvero l’osservazione empirica che dimostra che nel lungo termine il rendimento delle azioni è superiore a quello delle obbligazioni).
L’ossessione di continuare a massimizzare la crescita a lungo termine del reddito medio trascurando altri rischi e considerazioni è in parte assurda. Prendiamo in esame un semplice esperimento teorico. Immaginate che la prospettiva di aumento del reddito nazionale pro capite (o una qualche misura più ampia di welfare) sia pari all’1% su base annuale per i prossimi due secoli. Si tratta dello stesso trend del tasso di crescita pro capite del mondo avanzato registrato negli ultimi anni. Con una crescita annuale del reddito pari all’1% la generazione che nascerà tra settant’anni godrà di quasi il doppio del reddito medio attuale. Fra due secoli il reddito aumenterà addirittura di otto volte.
Supponiamo ora di vivere in un contesto di crescita economica molto più rapida con un aumento del reddito pro capite pari al 2% su base annuale. In tal caso, il reddito pro capite aumenterebbe del doppio dopo solo 35 anni, mentre arriverebbe a crescere di otto volte dopo solo un secolo.
Chiedetevi, infine, quanto vi importa veramente se ci vogliono 100, 200 o persino 1000 anni affinché il welfare aumenti di otto volte rispetto al valore attuale. Non sarebbe più logico preoccuparsi della sostenibilità e della durata della crescita globale a lungo termine? E non avrebbe più senso preoccuparsi del fatto che un conflitto, oppure il riscaldamento globale, potrebbero provocare una catastrofe in grado di far deragliare la società nel corso dei prossimi secoli se non addirittura oltre?
Anche se ognuno pensa limitatamente ai propri discendenti, spera senza dubbio che possano avere successo e dare un contributo positivo alla società futura. Presupponendo poi che saranno più ricchi della propria generazione, quanto è realmente importante il livello assoluto del loro reddito?
Forse una logica più profonda alla base dell’imperativo di crescita in molti paesi deriva dalle preoccupazioni per il prestigio e la sicurezza nazionale. Nel suo influente libro del 1989, The Rise and Fall of the Great Powers (La crescita e la caduta delle grandi potenze, ndt), lo storico Paul Kennedy è giunto alla conclusione che, nel lungo termine, la ricchezza e la potenza produttiva di una paese, rispetto a quello dei suoi contemporanei, sono i fattori determinanti del suo status globale.
Ma mentre Kennedy si era focalizzato in particolar modo sul potere militare, nel mondo attuale le economie di successo godono di uno status in diversi contesti ed i policymaker si preoccupano, legittimamente, della graduatoria economica nazionale. La competizione economica per il potere globale è di certo una logica comprensibile se il fine è quello di focalizzarsi sulla crescita a lungo termine, ma se questa stessa competizione risulta invece essere la giustificazione proprio per potersi focalizzare sulla crescita a lungo termine, allora bisogna necessariamente riesaminare i modelli macroeconomici standard che non prendono affatto in considerazione quest’aspetto.
Ovviamente, nel mondo reale, i paesi considerano, giustamente, la crescita a lungo termine come parte integrante della sicurezza nazionale e dello status globale. I paesi altamente indebitati, che al giorno d’oggi sono gran parte delle economie avanzate, hanno bisogno della crescita per sanare le proprie difficoltà. Ma, come proposito a lungo termine, il motivo per focalizzarsi sulla crescita non è poi così onnicomprensivo come molti policymaker e teorici dell’economia vogliono farci credere.  
In un periodo di estrema incertezza economica potrebbe sembrare inappropriato mettere in dubbio l’imperativo della crescita. Ma in effetti il contesto di una crisi è forse proprio l’occasione per rivedere gli obiettivi a lungo termine della politica economica globale.

 http://www.project-syndicate.org/commentary/rogoff88/Italian

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