MODI DI GOVERNO E RUOLO DEI PARTITI
È una sensazione diffusa che nella politica italiana dopo Monti —
sempre che il suo governo concluda con successo il compito che si è
assegnato — nulla sarà più come prima. Ma per quale ragione? E che cosa
più precisamente potrebbe cambiare? E quale significato dunque potrebbe
avere la novità da lui rappresentata nella vicenda italiana?
Il punto è che per rappresentare effettivamente tale novità, e insieme per
avere successo, il premier deve adottare un modo nuovo di governare. È
questa, mi pare, la condizione cruciale, di cui forse egli e i suoi
ministri ancora faticano a rendersi conto. Un modo nuovo di governare
significa evitare le snervanti trattative, le infinite mediazioni, le
mezze misure. Significa mostrare capacità di decisione, prontezza, non
lasciare marcire i problemi, scegliere donne e uomini nuovi (non gli
eterni pur ottimi consiglieri di Stato, non gli eterni pur ottimi alti
burocrati, «gabinettisti» in servizio permanente effettivo). Significa
insomma prender sul serio «l’emergenza » — cioè la vera ragion d’essere e
la vera legittimazione di questo governo — per farne uno strumento di
rinnovamento dell’azione e quindi dell’immagine dell’esecutivo.
Se Monti riuscisse in tutto ciò, egli segnerebbe un punto di non
ritorno. La maggioranza dell’opinione pubblica italiana, infatti, non
sarebbe più disposta a ripiombare nel passato, a essere governata come è
stata governata fino al novembre dell’anno scorso. Non sarebbe più
disposta, in particolare, a sopportare governi di coalizione: governi
fisiologicamente divisi sulle cose da fare, lottizzati in feudi
partitici, intimiditi dai sindacati e dalle lobby di ogni genere,
vittime sempre di veti incrociati. Come per l’appunto sono stati più o
meno tutti i governi della seconda Repubblica (ma anche la prima non
scherzava). Non sarebbe più disposta, infine, a essere governata da un
personale politico da decenni inamovibile, logorato, popolato di mezze
calzette.
I partiti italiani si trovano di fatto presi in una tenaglia: non
possono decentemente augurarsi che il governo Monti fallisca, ma d’altro
canto il suo successo segna l’inevitabile tramonto della loro forma
attuale. È dunque incominciata per essi una corsa contro il tempo. Sono
chiamati a cambiare il proprio modo d’essere, i criteri di scelta dei
propri esponenti e dei propri rappresentanti nelle assemblee politiche.
Ma soprattutto sono chiamati a cambiare il modo di governo del Paese:
più precisamente le regole che presiedono alla sua formazione e al suo
funzionamento. In altre parole, la legge elettorale da un lato e
dall’altro le prerogative dell’esecutivo e del suo capo, cioè gli
articoli della Costituzione che regolano tale materia.
Con Mario Monti gli italiani hanno già in qualche modo iniziato a
prendere confidenza con una leadership di tipo nuovo, democratica ma
forte, che mira diritto allo scopo. Un’analoga indicazione, verso lo
stesso tipo di leadership, viene da tempo dall’azione innovativa e dalla
figura popolarissima del presidente Napolitano. Si tratta ora di dare a
tale nuovo modo di governo forma stabile e regole conformi. Da qui alla
primavera dell’anno prossimo questo deve essere il compito dei partiti.
Tutto il resto equivale solo a una perdita di tempo e ad aria fritta e
il Paese, c’è da giurarci, questa volta non sarebbe un giudice clemente.
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