mercoledì 28 settembre 2011

Link utili per il Precorso di Matematica - Lezione 9

http://math.ec.unipi.it/algebra/matric/pagine/introd.htm

http://spt.dibe.unige.it/IPRS/ttr1/Appendice%20B%20-%20Calcolo%20matriciale.pdf

http://www.ripmat.it/mate/a/aj/ajdf.html

http://calvino.polito.it/~adiscala/didattica/Lingotto/2009/Italiano/Lezioni/

http://dep.eco.uniroma1.it/~carlucci/docs/Modulo04-01-04.pdf

http://digilander.libero.it/van_rib/mat_didat/sist_lin/calcolo_rango.pdf

lunedì 26 settembre 2011

Analisi rispettosa e severa delle politiche tremontiane, di Francesco Forte

Giulio Tremonti è arrivato al vertice della cosa pubblica tramite l’autorevolezza acquisita come tecnocrate negli ambienti economici e intellettuali per la sua competenza e grazie alla sponsorizzazione  del Corriere della Sera, al quale a suo tempo collaborava. Un’iniziazione carismatica simile a quella di Marcello Pera e di Mario Monti che gli ha lasciato il segno, consistente nella convinzione di una superiorità intellettuale ed etica, e nella scarsa comunicabilità non solo con i peones del Parlamento, con cui si trova a disagio, e che invece sono il termometro del consenso popolare; ma anche con i vertici delle commissioni parlamentari e con gli intellettuali del partito in cui è assurto a leader economico.

Con i membri dei governi non fa squadra. 
Questo elitismo e anacoretismo politico gli è servito per governare il  ministero con rigore difendendo il bilancio dagli assalti, ma gli ha impedito di svolgere una funzione di leadership e di mediazione fraterna, quale si richiede a chi ha responsabilità gravose di timoniere di una nave che ha bisogno dell’apporto di ciascuno, dall’ultimo mozzo al capitano.

Nel Pdl convivono varie anime
 ma, sostanzialmente, il messaggio è neo liberale, orientato allo sviluppo, alla politica delle cose concrete. L’impostazione  di Tremonti è mutevole, ma ha venature di colbertismo e tende a privilegiare le affermazioni ideologiche astratte: Tremonti ha costantemente idealizzato una sua riforma tributaria, basata su tre aliquote Irpef e cinque imposte, di cui il messaggio principale non è l’orientamento alla produttività,  ma la semplificazione e la generica riduzione della pressione delle imposte dirette, passando dalle persone alle cose.  Non è chiaro se con “cose” si voglia riferire alla tassazione dei consumi o a quella dei beni patrimoniali.

A fronte di questo disegno generale
, ambizioso, ma anche generico, Tremonti non ha affrontato in modo sistematico la questione dello smantellamento dell’Irap e della riduzione strutturale del carico sui redditi di impresa e sui costi del lavoro; due temi su cui insiste la Banca d’Italia. Ha provveduto a ciò con interventi episodici che hanno complicato il sistema. Ha modificato i nomi delle imposte sugli immobili, ha introdotto una parziale cedolare secca sugli affitti ma non si è occupato del catasto.
Ha perseguito il rigore del bilancio con i tagli lineari. E’ così rimasta incompiuta  la riforma del bilancio di Carlo Azeglio Ciampi, che si doveva basare sulla programmazione del  bilancio per obiettivi, con la standardizzazione  dei  conti di tutti i soggetti  del settore statale e dei governi regionali e locali, la classificazione  europea e dell’Ocse delle varie voci di spese e la quantificazione degli obiettivi di ciascuna voce. Solo così si può controllare la spesa pubblica nella sua programmazione  e gestione. Invece di ciò abbiamo avuto una riforma della legge finanziaria di natura prevalentemente formale, il cui unico merito è di avere anticipato a metà anno le manovre di finanza pubblica.

E’ mancata una politica di spesa
 pubblica per le infrastrutture. Poste Italiane, Ferrovie e Anas sono rimaste nel perimetro del settore statale, anziché diventare società miste di economia di mercato. C’è stata una guerra per il latte italiano, ma la Cassa depositi e prestiti non è stata utilizzata per promuovere progetti ad alto contenuto tecnologico come la banda larga.
Il colbertismo tremontiano è difensivo, non sviluppista, mentre la sfida è la crescita in un’economia di mercato aperto.



http://www.ilfoglio.it/soloqui/10520

Link utili per il Precorso di Matematica - Lezione 7

http://dinamico2.unibg.it/ctd/matgen/index.html

http://www.biondinagaldi.it/file%20pdf%20Teoria/Rapporto%20incrementale.pdf

http://www.lorenzoroi.net/prelievi/Limiti.pdf

http://www.apav.it/eugenimat0304/lederivate.pdf

http://universitando.altervista.org/pdf/integrali.pdf


venerdì 16 settembre 2011

Lettera da Berlino (con risposta fogliante) ai fratelli spendaccioni del mezzogiorno d’Europa, di Clemens Wergin


Cari italiani e greci, ecco a quali condizioni la Germania potrebbe sobbarcarsi un altro po’ del vostro debito

Cari amici greci e italiani - Siamo oramai entrati nel secondo anno della crisi dell’euro. Si tratta di una fase della nostra storia comune segnata da toni aspri nel dibattito fra le società dei nostri paesi. Purtroppo le questioni europee sono organizzate in modo tale che siano i politici a incontrarsi e trattare fra loro ai vertici europei. Manca invece un foro comune e uno spazio mediatico condiviso per scambiare pareri e discutere. Ciò nonostante penso che sia arrivato il momento di parlarci, da cittadino a cittadino. Scrivo questa lettera per spiegarvi meglio perché i tedeschi abbiano una brutta sensazione quando pensano all’Europa nel suo stato attuale. Vorrei proporvi un patto tra cittadini dei nostri paesi, evitando la strada della politica. Un patto che protegga la nostra Europa e la renda migliore. Spero che possiate capire che gli avvenimenti delle settimane scorse ci hanno un poco, come dire, irritati. Nel momento in cui il nostro Parlamento stava discutendo di ampliare le misure a difesa dell’euro con somme che, quando saranno pretese, dovranno essere ripagate anche dai nostri figli, avevamo l’impressione che i vostri governi non prendessero veramente sul serio l’adempimento della loro parte del patto. La Grecia per esempio non ha portato avanti le riforme dell’apparato statale, malgrado sia noto che la loro burocrazia sia diventata troppo cara. Si tratta infatti dell’ostacolo più serio alla concorrenza e allo sviluppo economico; l’apparato statale è servito per decenni a soddisfare il clientelismo dei partiti. Non è stata portata avanti anche la realizzazione della privatizzazione delle imprese statali. Quindi c’era da aspettarsi che la delegazione europea, incaricata di controllare le misure assunte dalla Grecia, non sarebbe stata assolutamente soddisfatta della situazione e avrebbe lasciato Atene in conflitto con le autorità greche.
Anche in Italia, che si trova all’inizio della sua crisi, abbiamo visto sviluppi simili. Al momento dello scoppio della crisi il governo Berlusconi aveva promesso solennemente drastiche riforme per tranquillizzare i mercati.

Appena tali dichiarazioni – che hanno indotto la Banca centrale europea a comprare titoli di stato italiani ora quindi garantiti da tutti i cittadini europei – avevano alleggerito la pressione del mercato sul governo italiano, sono improvvisamente scomparse le misure più importanti dalla manovra del governo. Dopo forti pressioni di altri governi europei l’Italia ha dovuto inserire nuovamente, almeno in parte, alcuni dei provvedimenti eliminati. Potete quindi immaginare che noi ci siamo sentiti presi un po’ per i fondelli. A causa di questi raggiri e traccheggiamenti ci sono sempre più francesi, olandesi e tedeschi che si pongono una semplice domanda: perché vi dobbiamo salvare, se neanche voi siete veramente pronti a salvare voi stessi?

Non scrivo questo né per avarizia né per arroganza. 
Lo scrivo perché sono preoccupato che un bel giorno i miei concittadini dicano basta e forzino i nostri politici a chiudere il rubinetto dei soldi per il sud dell’Europa. Non voglio neanche che gli europei del sud diventino tedeschi nella loro mentalità. Perché stimo il contributo e il colore che voi date all’Europa – e anche alla mia famiglia. Sono sposato con una donna italiana, per cui passiamo ogni vacanza estiva in Italia, anche perché vogliamo che le nostre figlie parlino la lingua della loro mamma e dei loro nonni. Nella nostra famiglia romana è ancora viva la tradizione di raccontare storie di famiglia. Ed entrambe le mie bimbe amano gli aneddoti di famiglia e le storielle più o meno comiche di vita quotidiana che racconta loro il nonno. Appena termina un racconto gridano all’unisono: “Un’altra storia ancora, un’altra storia ancora!” (con leggero accento tedesco). Non si stancano mai di ascoltare.
Mi piace anche molto il calore con cui i nostri parenti greci ci hanno ospitato quando un mio cugino ha sposato ad Atene una donna greca. Mi ricordo come in uno di quei giorni il patriarca della famiglia greca avesse raccontato delle sue esperienze di guerra, tentando con tanta gentilezza di non farle troppo pesare sui nuovi parenti tedeschi. Abbiamo poi individuato nell’italiano la lingua comune in cui comunicare. Lui l’aveva imparato durante la guerra, avendo la sua famiglia nascosto un soldato italiano disertore. Questi sono momenti che insegnano a noi tedeschi un po’ di umiltà. E anche di gratitudine per come la disastrosa storia tedesca sia convogliata così felicemente nell’Europa unita. Posso però anche capire i miei concittadini che si chiedono perché debbano farsi carico di varie misure per il salvataggio dell’euro e fungere come garanti per titoli di debito pubblico greci e italiani assunti dalla Banca centrale europea. Questo perché anche noi abbiamo accumulato un debito pubblico notevole, che una popolazione in declino numerico come la nostra potrà difficilmente ripagare in futuro. Ci devono essere quindi buone ragioni per caricarci anche delle responsabilità altrui. Proteggere l’Europa è una buona ragione. Sarebbe più semplice per noi se avessimo da voi la dimostrazione che voi contribuite seriamente in prima persona prima di chiedere aiuto agli altri. Dovete a tale scopo dare un taglio agli interessi particolari. Tutti sanno che non avete solo un problema di spesa pubblica ma anche di entrate. Perché date la possibilità soprattutto ai lavoratori autonomi di evadere il fisco, facendo pesare gli oneri fiscali in gran parte sulle spalle dei lavoratori dipendenti? Perché dovremmo pagare noi con i nostri soldi al posto dei vostri evasori fiscali? In Italia e in Grecia ci sono ancora molte corporazioni professionali privilegiate che si chiudono al mercato, tenendo così i prezzi alti con grave danno per la concorrenza. I tassisti greci hanno preso in ostaggio il paese la scorsa estate e messo così in pericolo uno dei pochi settori redditizi dell’economia, il turismo. E la burocrazia pesa sul paese come un enorme idrocefalo che toglie ogni energia al proprio corpo.

In Italia i sindacati difendono gli insostenibili privilegi d’oro del passato che hanno immobilizzato il paese, impedendogli praticamente di crescere da dieci anni. D’altro canto l’uomo più ricco del paese cercava di sottrarre i ricchi da ogni sacrificio. Inoltre i parlamentari non sono stati disposti ad accettare più elevati tagli ai loro introiti nonostante si tratti dei politici più cari d’Europa. Date l’impressione di società che non siano in grado di mettere da parte gli interessi particolari di singoli gruppi a favore dell’interesse comune. Pretendete allo stesso tempo che noi ci consideriamo parte di una grande comunità europea solidale e disposta a sovvenzioni. D’altra parte non riuscite nemmeno nel piccolo, al livello nazionale, a definirvi voi come una comunità, nella quale gli interessi particolari si mettano da parte in nome del bene comune. Prima che il disappunto nel nord dell’Europa si trasformi in tempesta vorrei suggerire ai cittadini dei nostri paesi un patto. Noi vogliamo aiutarvi. Ma non perché tutto resti come è. Nei vostri mass media si dà l’impressione che gli stati del nord Europa, che non vogliono mettere a disposizione i fondi necessari, siano contro di voi, gli altri invece a favore. Una visione troppo semplicista. Sarebbe al contrario effettivamente irresponsabile se dessimo ai vostri governi, nelle cui mani “colabrodo” è scomparso anche l’ultimo centesimo, ulteriori fondi senza legarli a precise condizioni. Sarebbe come continuare a dare droga a un tossicodipendente. Sappiamo quanto sia difficile dare atto a riforme. Noi tedeschi abbiamo impiegato anni ad accettare l’Agenda 2010 dell’ex cancelliere Schröder. Questa dolorosa riforma dell’assistenza sociale è uno dei motivi per cui il nostro paese è oggi preparato per la sfida della globalizzazione. Questa esperienza ci ha insegnato che le crisi sono troppo preziose per essere sprecate. E’ quindi necessario che i mercati e i nostri politici tengano alta la pressione sui vostri politici. Perché soltanto così saranno costretti a fare le necessarie riforme affinché le vostre finanze pubbliche abbiano una solida base. E – cosa ancora più importante – affinché i vostri sistemi economici e sociali tornino a essere concorrenziali. La nostra parte del patto è che noi vogliamo tentare di aiutarvi a passare questo brutto momento. Ma soltanto se voi rispettate la vostra parte del patto.

Ciò significa che i vostri politici non attribuiscano la colpa solo a “speculatori” ma che riconoscano che la crisi sia il risultato di decenni di politiche irresponsabili di spesa e di riforme mancate – da parte di persone da voi elette per cui non potete sottrarvi alle vostre responsabilità. Ci dà poche speranze il fatto che i conservatori in Grecia abbiano buoni consensi nei sondaggi mentre la sinistra sta cercando di porre rimedio al disastro che questi hanno prodotto. Chi crede ai demagoghi, che raccontano sia possibile superare la crisi anche senza sacrifici, ha perso ogni senso della realtà. Anche delle riforme di cui l’Italia necessita per diventare nuovamente appetibile per investitori e imprese si trova scarsa traccia nel pacchetto di riforme appena varato.

Ci aspettiamo tuttavia che voi 
infrangiate le incrostazioni delle vostre strutture, che tagliate privilegi e interessi particolari nelle vostre società e debelliate l’evasione fiscale. Questi sono compiti che spettano sia alla politica sia a ogni singolo cittadino. Bisogna che ognuno di voi non aiuti più nessuno a sottrarre allo stato gli introiti necessari e che pretendiate quindi una fattura dal medico, dal parrucchiere, dal giornalaio e ovunque acquistiate. Non sarete altrimenti in grado di distribuire sulle spalle di tutti i costi di tutte le attività dello stato. Ci sono in Germania ancora molti filo europei ben disposti, ai quali sta a cuore il progetto europeo. Ci auguriamo una Grecia migliore e più solida come anche un’Italia che non ostacoli l’enorme potenziale creativo dei suoi cittadini e consenta invece loro di realizzarlo. Questo sarà possibile solo se non vi aggrapperete a vecchi punti di vista e abitudini. Siamo disposti ad aiutarvi, ma prima di tutto dovete aiutarvi in prima persona. Un caro saluto.

mercoledì 14 settembre 2011

Un pareggio di bilancio allargato, di Giuseppe Vegas

Il pareggio di bilancio è la stella polare di ogni buon ministro del Tesoro. Mito più che realtà. Non a caso, in Italia solo Minghetti portò, nel 1875, il bilancio in pareggio. Ma durò poco e non ci riuscì nessun'altro, da 136 anni. Logico dunque che, nei momenti di difficoltà, lo s'invochi e si cerchi di applicarlo concretamente. In realtà non sarebbe necessaria nessuna legge per attuare un semplice principio di buonsenso ma, tenendo conto che il più delle volte il buonsenso va "aiutato", una prescrizione normativa può servire alla bisogna. A condizione che non finisca nel novero delle "grida" e non possa essere elusa. Quindi non basta statuire il principio nella legge di contabilità, è più saggio inserirlo direttamente in Costituzione; in modo che le ordinarie leggi di bilancio o di spesa non lo possano ignorare e che, in caso di violazione, possa intervenire la Corte costituzionale.
L'idea non è nuova. Basti pensare alle proposte della scuola americana del cosiddetto costituzionalismo economico, proposte riprese anche in Parlamento da noi, ad esempio da chi scrive a partire dal 1998. Il fatto dunque che il Consiglio dei ministri abbia approvato un disegno di legge di modifica della Costituzione in questa travagliata materia non può che essere salutato con soddisfazione. La circostanza poi che anche gli altri Stati della zona euro abbiano adottato o stiano approvando analoghe misure costituisce la migliore dimostrazione dell'esistenza di un reale spirito costituzionale europeo che va al di là di qualunque interesse contingente di questo o quel Paese.
Per fugare ogni possibile equivoco, occorre tuttavia essere estremamente chiari circa ciò che s'intende con l'espressione "bilancio in pareggio". Infatti ogni bilancio (il termine stesso richiama la stadera, dove pesi e merce devono porsi al medesimo livello) è per definizione in pareggio. Il problema è vedere da cosa sono formate le voci dell'entrata e della spesa. Per troppi anni parte consistente dell'entrata è stata composta da accensione di prestiti - cioè nuovi debiti - per far fronte a spese correnti. L'equilibrio formale era salvo, ma nel frattempo s'impegnavano le risorse che si sarebbero dovute realizzare in futuro per spendere oggi. E se il meccanismo può funzionare in periodi ordinari, quando serve a incrementare il capitale fisso - come è il caso di chi sottoscrive un mutuo per pagare la casa - è folle se è utilizzato per assumere nuovi impiegati o per aumentarne le paghe.
Precisare che per pareggio s'intende la corrispondenza del valore di tutte le spese a quello di tutte le entrate fiscali ed extrafiscali, a eccezione di quelle di carattere straordinario, di quelle derivanti dall'alienazioni di beni immobili e di partecipazioni, nonché di quelle provenienti da accensione prestiti, potrebbe essere utile. Quanto al ricorso al debito, che ordinariamente non può essere criticabile per le spese d'investimento - salvo ovviamente intendersi su ciò che queste significhino e sapendo che esse non possono certo ricomprendere alcuni sussidi di disoccupazione - in periodi eccezionali come questo può essere ragionevole escluderlo in linea di principio, nella consapevolezza tuttavia che tale scelta potrebbe comportare effetti sul tasso potenziale di crescita.
Un secondo tema riguarda il fatto che il bilancio dello Stato non è più significativo. Oggi lo Stato, pur essendo il soggetto che ne risponde a livello europeo per la totalità, intermedia circa la metà della spesa pubblica. Il resto è effettuato da Regioni, Province, Comuni ed enti previdenziali. Se pareggio deve essere, questo deve riguardare il complesso della spesa pubblica. Le attuali circostanze richiedono un ripensamento nella gerarchia dei valori costituzionali a favore della messa in sicurezza delle finanze pubbliche rispetto alla salvaguardia dell'autonomia finanziaria di tutti i soggetti che compongono il settore pubblico.
Ma la madre di tutte le riforme costituzionali è il rafforzamento dell'attuale quarto comma dell'articolo 81, quello che prescrive che le leggi che aumentano la spesa o riducono le entrate debbano trovare i mezzi per farvi fronte. Si tratta dell'articolo più eluso della nostra Costituzione. Quante volte il principio della copertura finanziaria è stato onorato nella forma e vilipeso nella sostanza: quando si sono decise spese aumentando il debito, o quando si è fatto finta che un beneficio riguardasse poche persone mentre invece era destinato a tanti, o quando infine ci si è illusi che un intervento valesse 100 quando in realtà costava mille? Tenere sotto controllo lo stock dei bilanci e magari cercare di ridurre la massa del debito è indispensabile, ma è obiettivo che non potrà avere successo se non si tira il freno a mano della spesa. Bloccare per un periodo (un biennio?) gli aumenti spontanei della spesa pubblica, quelli che derivano dai meccanismi automatici e dagli effetti dell'inflazione, e non decidere nuove spese salvo casi eccezionali e previa contestuale riduzione di altre spese in corso non è un optional. Il bilancio pubblico non è diverso da quello di una qualsiasi famiglia: non si può spendere più di quanto si guadagna.
Come fare? Se la Costituzione stabilisse che non si possono finanziare le spese a debito, se non si trovano altre spese da tagliare non si può far altro che incrementare la tassazione. E se la Costituzione stabilisse che ogni aumento d'imposte deve essere approvato con la maggioranza dei due terzi del Parlamento, il gioco sarebbe fatto. Niente lievitazione della spesa e rapida messa in sicurezza dei conti pubblici. Senza trascurare il fatto che frenare le tasse vuol dire più risorse private per lo sviluppo.



http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-14/pareggio-bilancio-allargato-064022.shtml?uuid=Aa7r9D4D

domenica 11 settembre 2011

Divisi rischiamo la caduta, di Gordon Brown


Quest’estate la politica ha giocato tutte le sue carte con l’economia americana, quando il Congresso e il presidente Barack Obama non riuscivano a trovare un accordo su tasse, diritti all’assistenza sociale, deficit o incentivi per gli investimenti. Anche i leader europei erano paralizzati, in preda a default e svalutazioni, deficit e stimoli. Dopo aver tentato con i tassi di interesse negativi, stampato moneta, investito in liquidità e sovvenzionato le banche commerciali, anche i banchieri centrali di tutto il mondo, tra cui recentemente il presidente della Federal Reserve americana Ben Bernanke, sembrano essere giunti alla conclusione di aver fatto tutto il possibile e di essere giunti al limite.
Di conseguenza, alcuni temono che il mondo stia andando alla deriva, senza guida e senza leader, e stia puntando dritto verso una seconda stagnazione. Il dibattito scoppiato prima dell’estate sulla possibilità o meno che il mondo abbia attraversato la cosiddetta fase di “new normal” (ossia uno scenario post-crisi in cui la crescita è più lenta del previsto) è stato risolto: niente sembra normale. Cercare di cavarsela alla meno peggio non è bastato. Incapace di concludere un accordo sul commercio globale, un accordo sui cambiamenti climatici e un patto sulla crescita o di apportare modifiche al regime finanziario, il mondo rischia di piombare in una nuova fase di protezionismo, fatta di svalutazioni competitive, guerre valutarie, restrizioni commerciali e controlli sui capitali.
Ma non è il momento di essere disfattisti. I Paesi che sostengono di aver già fatto tutto il possibile in realtà hanno solo dato il massimo a livello di singolo Paese. La strada verso una crescita sostenuta e l’occupazione non si raggiunge attraverso un turbinio di singole iniziative nazionali, bensì con un coordinamento delle politiche globali.
Questa è stata la strada perseguita nell’aprile del 2009, quando il G20 si diede tre obiettivi importanti. Il primo, che era quello di evitare una depressione globale, è stato raggiunto. Gli altri due, un patto sulla crescita in tandem con una riforma del sistema finanziario mondiale, dovrebbero essere i principali temi in agenda nel prossimo incontro del G20.
Nel 2010 il Fondo monetario internazionale ha stimato che un’azione coordinata delle politiche macroeconomiche, commerciali e strutturali potrebbe garantire il 5,5% del Pil globale, creare 25-50 milioni di nuovi posti di lavoro e trascinare fuori dall’indigenza 90 milioni di persone. Il patto sulla crescita globale sembra oggi ancor più pressante, considerati i problemi strutturali dell’economia mondiale e gli ingenti squilibri tra produzione e consumi.
Potrebbe sembrare strano descrivere la peggiore crisi finanziaria dagli anni Trenta come il sintomo di un problema più grande. Ma, quando gli storici ripenseranno all’ondata di globalizzazione sopraggiunta dopo il 1990 – che ha portato due miliardi di nuovi produttori nell’economia mondiale – troveranno un punto di svolta attorno al 2010. Per la prima volta in 150 anni, l’Occidente (America e Unione europea) è stato surclassato dal resto del mondo in termini di manifattura, produzione, export, commercio e investimenti.
Entro i primi anni del 2020, il mercato dei consumatori asiatici sarà infatti due volte quello
americano. Oggi, l’Occidente e l’Asia restano comunque reciprocamente dipendenti. Due terzi delle esportazioni asiatiche finiscono ancora in Occidente, e gli scambi commerciali Sud-Sud rappresentano solo il 20% del giro d’affari globale.
In altre parole, dieci anni fa il motore americano riusciva a guidare l’economia mondiale, e tra dieci anni a partire da oggi i Paesi dei mercati emergenti saranno pronti ad assumere questo ruolo, soprattutto tenendo conto del crescente potere di acquisto delle classi medie. Per il momento l’America e l’Europa non possono comunque espandere la propria spesa al consumo senza incrementare le esportazioni, mentre la Cina e i mercati emergenti non possono facilmente aumentare produzione e consumi senza la garanzia dei forti mercati occidentali.
Dobbiamo innanzitutto rilanciare la visione di cooperazione globale contenuta nel patto sulla crescita del G20 (che da allora è stato declassato a ciò che il Fmi ora chiama “analisi approfondita di…quei paesi che incorrono in ampi squilibri”). Serve però un programma più ampio: la Cina dovrebbe concordare di aumentare la spesa delle famiglie e le importazioni dei consumi; l’India dovrebbe aprire i propri mercati in modo tale da garantire ai propri poveri l’accesso alle importazioni a basso costo; e l’Europa e l’America devono rilanciare la competitività con l’obiettivo di aumentare le importazioni.
Nel 2009 il G20 è stato altresì inflessibile sulla necessità di un nuovo regime finanziario globale per la futura stabilità. David Miles della Bank of England (BoE) prevede altre tre crisi finanziarie nelle prossime due decadi. E, se Andrew Haldane della BoE avesse ragione sul fatto che le crescenti pressioni in Asia minacciano rivolte future, l’Occidente rimpiangerà di non aver consolidato gli standard globali sull’adeguatezza dei capitali e sulla liquidità e di non aver assicurato un sistema più trasparente di “early warning” (allarme preventivo).
Il problema è già sotto gli occhi di tutti. Le passività del settore bancario dell’Europa, pari al 345% del Pil, sono quasi cinque volte superiori a quelle degli Usa. Le banche tedesche hanno una leva finanziaria che è 32 volte superiore al patrimonio netto. Ai fini della stabilità finanziaria non serve quindi solo la ricapitalizzazione delle banche, ma anche una riforma dell’euro, fondata sul coordinamento delle politiche fiscali e monetarie e su un maggiore ruolo della Banca centrale europea, in veste di prestatore di ultima istanza, nel sostenere i singoli governi (non le singole banche).
Il G20 non raggiungerà crescita e stabilità senza concentrarsi su una riduzione del debito a lungo termine. Ma esiste anche un imperativo nel breve periodo, ossia evitare una spirale negativa. Dovremmo attingere dalle proposte avanzata da Robert Skidelsky sulle banche di investimento nazionali per preparare le nostre infrastrutture alle sfide future e per stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro. Un modello è rappresentato dalla Banca di investimento europea, che con un capitale da 50 miliardi di euro è stata in grado di investire 400 miliardi di euro. Ma forse bisogna fare un accordo con i cinesi per investire le loro riserve e con le multinazionali occidentali sul trattamento fiscale dei profitti rimpatriati.
Infine, come sostenuto dal Nobel Michael Spence, la crescita è una condizione necessaria ma insufficiente per creare posti di lavoro. L’odierna epidemia della disoccupazione giovanile, in particolare, richiede nuovi approcci, come ad esempio una Banca di sviluppo per l’occupazione giovanile in Medio Oriente e Nord Africa, e programmi di training e apprendistato in altre aree. L’accordo sulla crescita del G20 deve essere anche un accordo sull’occupazione.
Nel 2009 sembrava che il G20 (che rappresenta l’80% della produzione mondiale) potesse diventare l’unico organismo multilaterale in grado di coordinare la politica economica globale. I suoi Stati membri hanno però abbandonato presto quest’obiettivo e preferito soluzioni nazionali. Com’era prevedibile, muoversi da soli si è rivelato futile nel garantire la ripresa economica. Ora tocca nuovamente al G20. Prima il presidente francese Nicolas Sarkozy riunirà il G20, meglio sarà.

La catena del Novecento, di Enzo Bettiza



Le vasche d'acqua create dove si ergevano le due Torri Gemelle
E’ un anniversario troppo complesso per meritare solo immagini d’archivio tv, parole gonfie di retorica, amnesie calcolate di soloni strabici che da un decennio continuano a versare sentenze e lacrime su più piatti della bilancia. Convincono poco le celebrazioni quando i celebranti le proclamano correttamente «condivise», «inclusive», «aperte al dialogo» non si sa bene con chi. 
Non convincono neppure le «istruzioni» suggerite agli ambasciatori da Obama, che sembra voler chiedere scusa al mondo di essere il Presidente della nazione più colpita dai terroristi islamici. La ricorrenza di un simile tragico anniversario, che per estensione è anche anniversario di un decennio di crolli globali, merita qualche incursione fuori dal coro. Sobria e, nei limiti del possibile, disincantata.

Anzitutto bisognerebbe chiarire che cosa s’intende quando, di un evento o periodo storico, si dice che «ha cambiato il mondo». Qui si rischia di cadere nell’accattivante superficialità dello slogan giornalistico o addirittura del plagio più o meno subliminale. Ho per esempio letto, nella congerie di locuzioni esaltative, un paio che annunciavano: «Ecco la storia dei dieci anni che sconvolsero il mondo». L’annuncio rifaceva il verso al famoso titolo del libro di John Reed: «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ovvero i giorni che, nello scenario disastrato di Pietrogrado 1917, videro svolgersi il colpo di mano bolscevico contro un governo provvisorio allo stremo e contro un’assemblea costituente sotto la mira dei fucilieri lettoni indottrinati dal partito di Lenin e Trockij in minoranza.

Da quel golpe guarnito di qualche sparo finto, nacque il mito della Rivoluzione d’Ottobre: la quale, anziché il mondo, sconvolse la Russia e il leninismo, portandoli alle tenebre dello stalinismo. Lo sconvolgimento più inaudito fu la decimazione, voluta da Stalin, della vecchia guardia bolscevica e dei vertici dell’Armata Rossa. Dopodiché, spianata la strada, arriverà il patto con Hitler.

Attribuire quindi ad eventi storici, per quanto grandiosi e traumatici, una sconvolgente portata universale, un’unicità senza precedenti, è un esercizio non immune dal rischio di esagerazioni o previsioni falsanti. L’unicità di un grande evento, la quale si unisce perlopiù al senso del tragico, dura fino a quando un altro evento, altrettanto o più tragico, non la scavalca. Per la stessa America l’attacco contro le Torri e il Pentagono non è stato l’unico assalto nemico al suo territorio.

L’esercito britannico mise a ferro e fuoco Washington nel 1814. L’aviazione giapponese, con i suoi kamikaze, distrusse nel 1941 la flotta americana a Pearl Harbor, base militare nell’arcipelago delle Hawaii. L’unicità oltraggiosa dell’11 settembre non consiste perciò, come si è scritto, nell’attacco in sé a un territorio americano. Consisteva, semmai, nei modi dell’attacco e nell’indole insieme arcaica e postmoderna degli attaccanti.

Il kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale partiva, solitario, da basi conosciute e aveva alle spalle una bandiera, un imperatore, uno stato maggiore e una struttura bellica visibile. Invece il kamikaze di nuova generazione, il kamikaze islamista, ha alle spalle una sorta di vuoto operativo: una galassia mistica invisibile, fluida, guidata da centrali occulte, operante per cellule autonome largamente finanziate e sparpagliate all’interno di Stati non solo arabi.

Una volatile multinazionale del terrore, il cui supremo imprenditore, il defunto Bin Laden, si manifestava solo in brevi prediche televisive o in messaggi online, reclutando così proseliti anelanti al martirio per Allah e alla morte degli infedeli. Un’armata senza Stato, senza stendardi, senza generali, tranne un’accolita di spettri radunati, fra grotte o tendaggi lisi, attorno al fantasma di Bin Laden. Alberto Ronchey, in un memorabile articolo del 17 settembre 2001, aveva parlato con lucidità di «un’endemia diffusa, che stravolge la stessa nozione antica di guerra».

Tornando con la memoria alla visione dei grattacieli di New York trasformati in immensi vulcani urbani, si potrebbe forse accennare al tentativo jihadista, in gran parte fallito, di tenere sotto scacco l’America e l’Occidente con la minaccia di una guerra santa tecnologica e perenne. La nozione di guerra, antica o nuovissima, resta in qualche misura legata all’idea fissa quanto effimera di un «mutamento del mondo».

Se frughiamo nel pensiero di coloro che raccontavano la Storia in presa diretta, o altri che l’hanno reinterpretata a posteriori, storiografi, filosofi, romanzieri, poeti, vediamo spesso congiungersi nelle loro pagine l’idea della violenza con quella del cambiamento. Il cambiamento in quanto tale, non importa se positivo o negativo, è dato per certo ed è quasi sempre combinato al nome di una risolutiva battaglia navale o campale (Salamina, Zama, Lepanto, Trafalgar, Austerlitz, Borodino, Waterloo, Sedan, Verdun, Stalingrado eccetera).

Sembra riecheggiarvi ossessivo fra le righe, quale auspicio di un mutamento purchessia, il motto «Cartago delenda est». Lo sterminio del nemico, il massacro, il sangue versato appaiono sublimati come inevitabili motori di uno strappo senza ritorno da un’epoca all’altra. Ma quante volte noi occidentali, i nostri nonni, i nostri padri, infine noi stessi, avevamo già detto con enfasi pessimistica che «nulla sarà più come prima»?

Lo si disse ogni volta che un avvenimento distruttivo, una guerra, una rivoluzione, una catastrofe economica, una calamità naturale o, in tempi più moderni, perfino un semplice ricatto petrolifero sembravano stravolgere le nostre consuetudini e farci percepire il futuro come un incubo senza fine. Prendiamo però il caso paradossale delle due massime potenze europee. La Francia sanculotta, dopo le ghigliottinate giacobine, non ha visto risorgere nei suoi fasti una larga fascia della vecchia aristocrazia e decollare un potente ceto imprenditoriale, l’una e l’altro protette da due imperatori Buonaparte e da restaurati «monarchi borghesi»? La Germania, nel 1945 precipitata dentro l’abisso di un Ground Zero che sembrava averla inghiottita, non era diventata già all’epoca di Adenauer e di Erhard la nazione più ricca del vecchio continente?

Certo, l’attacco contro New York e Washington conteneva in sé molti elementi capaci di scatenare nel mondo, non solo in America, uno tsunami d’orrore metafisico e di angoscia collettiva. Quel nuovo tipo di guerra subdola e mostruosa, insieme suicida e omicida, scagliata con mezzi impropri contro gli Stati Uniti che non avevano mai subìto tante vittime in così poche ore, doveva purtroppo immergere l’inizio del terzo millennio in una tetra atmosfera da «Apocalypse now».

Gli americani si sono mobilitati istantaneamente non solo nella mastodontica impresa di soccorso ai sopravvissuti, ma, anche nell’organizazzione di una risposta immediata contro un nemico privo di volto. Nei giornali si è subito parlato dello scoppio di una «terza guerra mondiale contro ignoti». La replica dell’Amministrazione Bush, sostenuta con impeto di cuginanza dal governo Blair, si preparava ad essere durissima sia con i talebani che nelle caverne afghane proteggevano i capi di Al Qaeda, sia con Saddam Hussein che usava foraggiare e ospitare a Baghdad terroristi non solo mediorientali.

La sorte dell’Afghanistan e dell’Iraq era ormai segnata. L’Occidente o, meglio, una sua parte, entrata in fibrillazione, ha cominciato allora a prendere le distanze dall’America ferita e a domandarsi: che genere di conflitto anomalo sarà mai questo, quali saranno le armate che vi si affronteranno, dove, come, per quanto tempo dovranno combattere? Oggi possiamo dire che l’eco del grido di solidarietà lanciato dai francesi il 12 settembre - «Siamo tutti americani!» - si spense dopo quarantott’ore. La Francia tornò di colpo francesissima, antiamericana, filoaraba; Chirac promosse e inflisse alla coalizione atlantica, con incursioni diplomatiche all’Onu coordinate e aggressive, la più profonda spaccatura da essa patita dopo la fine della guerra fredda.

L’agghiacciante spettacolarità dei fumiganti crolli di Manhattan, a cui tutti abbiamo assistito in diretta tv, non dovrebbe farci dimenticare che, nonostante le sue tremende novità, non era stato l’avvìo di una presunta «terza guerra americana» destinata a trasformare, per il meglio o per il peggio, il mondo. Una trasformazione violenta o, se vogliamo ricorrere a termini meno iperbolici, una certa commutazione armata nei rapporti etnici, religiosi, nazionali in diverse regioni del mondo era già iniziata nei paraggi del 1989. Per molti aspetti una «terza guerra» a macchia di leopardo era già all’opera, nell’Europa balcanica e nella Russia meridionale, dopo o durante il crollo del comunismo.

In altre parole: dovremmo tenere a mente tutti i conflitti di civiltà (considero presuntuoso scialo culturale gettare l’intero Huntington in soffitta) che precedettero e, in modo sia pure obliquo, preannunciarono l’apocalisse newyorchese. Azeri contro armeni nel Caucaso, serbi ortodossi contro slavi islamizzati in Bosnia, ancora serbi contro albanesi musulmani nel Kosovo, quindi russi contro guerriglieri fondamentalisti in Cecenia e nel Daghestan. Lo stesso carattere di genocidio indiscriminato, che ha connotato la strage inflitta da Al Qaeda all’inerme popolazione delle Torri Gemelle, non s’era già profilato in termini rovesciati e ambigui (slavi cristiani contro slavi islamici) nel più esecrando degli olocausti perpetrati in Europa, a Srebrenica, dopo l’ultima guerra mondiale?

Non mi sembra possibile, né sul piano logico né su quello storico, separare gli anelli di questa mobile catena di catastrofi regionali che infine, allungandosi sempre più, sono diventati intercontinentali. Alla pace negativa, ma pur sempre pace, basata sull’equilibrio del terrore garantito per mezzo secolo dagli Usa e dall’Urss, è subentrato fra il 1989 e il 2000 lo squilibrio del terrore globalizzato: del caos in libertà. Il pianeta, che da quando esiste cambia in continuazione, sta già incorporando, assorbendo e forse sterilizzando tale incognita eccezionale e asimmetrica.

Fatto è che neppure l’11 settembre è riuscito o riuscirà a cambiare un universo che si cambia da solo, come gli pare e piace, nel bene e nel male. Non è un universo astratto, l’universo in generale caro agli astronomi e ai filosofi, che una discrasia storica per quanto temibile può ribaltare d’un tratto recidendone la radice oscura e irraggiungibile. Quello che invece è mutato, che sempre più sta mutando, è la percezione del mondo in cui viviamo. Volendoci vivere il più a lungo possibile, dovremo affrontarne le insidie e combatterle con i valori di fondo, non solo di superficie, della nostra civiltà tanto detestata da tutti quelli che la imitano per distruggerla.

venerdì 9 settembre 2011

La «tassa occulta» che paga il Paese, di Fabrizio Forquet


È stato calcolato che la corruzione in Italia pesa sulle tasche dei cittadini come una tassa occulta da 50-60 miliardi. Un fardello inaccettabile. Che è tuttavia solo una parte del l'enorme danno che deriva al Paese dal degrado morale, dal discredito, dalla dignità ogni giorno offesa delle istituzioni fondanti dello Stato.
Un giornale come Il Sole 24 Ore, che da oltre due mesi racconta ai suoi lettori i giorni più difficili della crisi dei debiti sovrani, dell'impennata degli spread, dei titoli tossici che continuano a inquinare i mercati finanziari, fa quasi fatica a seguire le indiscrezioni sulle telefonate dai contenuti osceni, sulle inchieste che rimbalzano dalle procure di tutta Italia, sui comportamenti indecenti o tout court illeciti di un ceto politico, di maggioranza e opposizione, arrivato ai minimi storici della sua credibilità.
Eppure è importante farlo. Perché è proprio il contrasto tra questi giorni angoscianti per la stabilità economico-finanziaria del Paese e una politica distratta a occuparsi d'altro, che rende la tenuta del quadro complessivo ancora più fragile.
Le telefonate tra il premier e i vertici delle istituzioni europee e finanziarie si intrecciano, sulle linee dei palazzi della presidenza, con quelle al faccendiere Lavitola, in cui si discute di oscenità di varia natura. Il coinvolgimento responsabile, auspicato dal capo dello Stato, dell'opposizione sulla manovra si vanifica in un dibattito interno al Pd sulla necessità della sospensione dell'ex braccio destro di Bersani Filippo Penati, accusato di corruzione.
Un Parlamento impegnato formalmente nella discussione della più difficile manovra economica degli ultimi vent'anni, si affolla (relativamente) di senatori e onorevoli, a loro volta in alcuni casi inquisiti, che dedicano molte più energie e parole all'ultimo gossip sull'ultima intercettazione piuttosto che ai miliardi di Iva in più che gli italiani saranno presto chiamati a pagare. Come non bastasse, gli impegni di maggioranza e opposizione sulla riduzione dei costi della politica vengono disattesi da continue retromarce imbarazzanti e offensive.
Ancora ieri il presidente della Repubblica ha sollecitato, per restare in Europa, «un esame di coscienza che tocchi i comportamenti individuali». Basta leggere i giornali internazionali, del resto, per capire quale danno ulteriore arrechi alla credibilità dell'Italia questa ordalia di un potere fuori controllo. Tra le diplomazie internazionali e sui mercati. Perché istituzioni senza autorevolezza possono costare più punti di differenziale con il BTp di qualche miliardo di euro di copertura della manovra.
In questo senso i prossimi giorni non annunciano niente di buono. Con il Parlamento che sarà chiamato a pronunciarsi sull'arresto dell'ex collaboratore del ministro Tremonti, Marco Milanese, e sull'utilizzabilità delle intercettazioni del premier nel caso Ruby. Di certo le inchieste faranno il loro corso e gli indagati potranno con ragione rivendicare la loro piena correttezza fino a sentenza definitiva. Ma c'è un Paese che assiste attonito alla distruzione, dall'alto, di ogni valore civile e del decoro pubblico.
È sbagliato e pericoloso accreditare la favoletta di una società buona contrapposta a un potere cattivo. Mai come oggi, però, la politica sembra impegnata a distruggere ogni giorno un tassello della sua residua credibilità. Va messo un punto a questa degenerazione. C'è una dignità delle istituzioni che va difesa e rigenerata. Il superamento della peggiore crisi finanziaria ed economica degli ultimi cinquant'anni passa anche da qui.

giovedì 8 settembre 2011

Ci vorrebbe la crescita


Ci vorrebbe la crescita

La manovra Draghi-Napolitano-Berlusconi-Tremonti è stata approvata dal Senato. Il rigore c’è, più del previsto (54,2 miliardi). Privatizzazioni, liberalizzazioni e misure sviluppiste languono. Dubbi del Colle sull’art. 8

La manovra Draghi-Napolitano-Berlusconi-Tremonti ha avuto ieri sera il voto di fiducia del Senato. Alla quarta versione del decreto che ha anticipato il pareggio del bilancio al 2013 i numeri, oltre ai contenuti, sono cambiati a sorpresa: il saldo della manovra è salito dai 45,5 miliardi di euro a 54,2 miliardi. E’ l’effetto numerico, tra l’altro, della “efficacia” e della “credibilità” chiesta al governo dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si è fatto interprete delle sollecitazioni giunte dalla Bce e dalla Banca d’Italia dopo le tensioni sui mercati di lunedì scorso. Il maxi emendamento presentato dall’esecutivo, comunque, ha contribuito a rassicurare le piazze finanziarie: lo spread fra Btp e Bund tedeschi ieri è sceso a 334 (anche grazie agli acquisti di titoli da parte dell’Istituto centrale di Francoforte) e con l’andamento positivo delle Borse europee anche Piazza Affari ha chiuso a più 4 per cento.
Restano comunque le perplessità del Quirinale sull’art. 8 della manovra sui contratti aziendali, come svelato ieri su Twitter dal direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli.
I saldi della manovra sono stati rafforzati – con il plauso ricevuto ieri da Bruxelles tramite il commissario per gli Affari economici e monetari, Olli Rehn – grazie in particolare all’incremento dell’aliquota Iva dal 20 al 21 per cento: una misura che farà affluire nelle casse statali circa 4 miliardi di euro l’anno. La seconda novità del maxi emendamento è il cosiddetto contributo di solidarietà del 3 per cento sui redditi superiori ai 300 mila euro. La terza novità è l’adeguamento dal 2014 dell’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne anche nel settore privato. Quest’ultima è una delle poche riforme strutturali della manovra: il decreto infatti non comprende dismissioni del patrimonio pubblico, contiene tenui misure per favorire le privatizzazioni delle aziende municipalizzate e sono pressoché assenti robuste liberalizzazioni.
Dalla maggioranza si fa notare la norma che favorisce l’apertura dei mercati locali dove operano le municipalizzate dei trasporti, ad esempio, ma per il concorso del governo e del Parlamento ci sono stati chiari arretramenti corporativi sui taxi, sulle farmacie e sul commercio.
Anche per questo i timori sul futuro economico dell’Italia non si sono dissolti. Il Fmi, ad esempio, abbassando ieri le stime mondiali di crescita (4 per cento rispetto al 4,2) ha limato anche quelle del nostro paese nel 2012 (0,5 contro il precedente 0,7 per cento). A preoccupare gli osservatori è il combinato disposto di quattro fattori: l’affievolirsi del sostegno della Bce sul mercato secondario dei titoli di stato, il maggiore costo del servizio sul debito pubblico, il potenziale effetto depressivo della manovra, sottolineato in Parlamento anche dalla Banca d’Italia, e l’asfittica crescita.
Dal governo si nota che sono ai primi passi gli otto tavoli per la crescita annunciati all’inizio di agosto in una conferenza stampa della presidenza del Consiglio. Industriali e banchieri (ieri è stato il consigliere delegato di Intesa, Corrado Passera, a ribadirlo) lo ripetono: crescere o perire.

Le tre lezioni (subito) dimenticate, di Alberto Alesina

Bilancio e risanamento


Le tre lezioni (subito) dimenticate

Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Portogallo hanno imboccato la strada dei tagli. Noi no



I Paesi che oggi stanno attuando manovre economiche di rientro dai deficit hanno la possibilità di guardare al passato per trarne indicazioni su come meglio disegnarle. Ci sono tre lezioni che la storia recente ci insegna per quelle Nazioni come l'Italia che hanno ormai un rapporto tra spesa pubblica e Prodotto interno lordo (Pil) ben oltre il 40 per cento.
Primo: aggiustamenti dal lato della spesa strutturale (cioè non tagli una tantum ) sono gli unici che consentono una stabilizzazione e riduzioni durature del rapporto tra debito e Pil. Aumenti di imposte, invece, non fanno che rincorrere la spesa con i suoi incrementi automatici. Secondo: gli effetti recessivi di tagli alla spesa sono inferiori a quelli di aumenti di imposte. Terzo: le conseguenze negative sull'economia di riduzioni di spesa si possono contenere o persino evitare quasi del tutto con politiche strutturali di stimolo che accompagnino la manovra, dando così ai mercati un senso di fiducia sul futuro del bilancio pubblico.
Paesi come Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Portogallo hanno capito la lezione e si stanno muovendo faticosamente in quelle direzioni. In tutti questi Paesi sono in attuazione programmi che dovrebbero ridurre la spesa pubblica di parecchi punti di Pil nei prossimi anni. Certo, affronteranno un paio d'anni difficili ma il messaggio che stanno dando è di aver capito la gravità della situazione e di aver assimilato la lezione. Ne usciranno rafforzati. L'Italia no. Stiamo facendo esattamente l'opposto, ignorando tutto ciò che la storia ci insegna. La manovra è basata molto più su aumenti di imposta che su tagli di spesa veri e di riforme strutturali per la crescita non se ne vedono. L'elaborazione della manovra era dettata dal seguente obiettivo: come aumentare le tasse agli italiani minimizzando le perdite di voti. Quindi ha ragione il Fondo monetario internazionale a predire un effetto negativo sulla crescita di questa manovra perché anche il Fondo conosce bene le tre lezioni di cui sopra, anzi ha contribuito a insegnarcele. Ai mercati non basta solo che il bilancio sia in pareggio nel 2012 o 2013 in qualunque modo, ma che l'Italia dimostri di aver capito quelle lezioni.
Mi azzardo allora a fare una previsione, sperando di esser smentito dai fatti. Da oggi fino alle prossime elezioni si farà ben poco e la Bce continuerà a fornire la «morfina» (come giustamente l'ha definita Francesco Giavazzi domenica scorsa, 4 settembre, sul Corriere ) derivante dall'acquisto di titoli pubblici italiani. In qualche modo si toglierà temporaneamente il dolore al malato Italia, che penserà di essersi risanato. Illudere i malati non è sempre la strategia migliore.
Comunque, dopo le elezioni (chiunque vinca) ci sarà quella patrimoniale già criticata dal direttore del Corriere , Ferruccio de Bortoli. Ormai questa carta la invocano in tanti, da ex banchieri che pare si accingano ad entrare in politica, alla sinistra anche quella più moderata, senza parlare di quella più estrema; sicuramente anche nel centrodestra in molti ci stanno pensando. Una patrimoniale che abbia un minimo di successo nel ridurre il rapporto debito-Pil sarà un'altra mazzata per la crescita. Nel frattempo, preoccupandosi di come disegnare la patrimoniale, non si farà nulla sulla spesa che continuerà a viaggiare sempre più verso la metà del Pil. Anzi, la riduzione di crescita (cioè del denominatore) dei rapporti debito su Pil e spesa su Pil tenderà a fare aumentare i rapporti stessi. Tra quatto o cinque anni saremo da capo. Un debito su Pil di ben più del 100 per cento, dopo aver sprecato una patrimoniale, e ricominceremo con un altro contributo di solidarietà, un rinnovato impegno di lotta all'evasione, un aumento di Iva o magari, perché no, una seconda patrimoniale. E il ciclo ricomincia.

http://www.corriere.it/economia/11_settembre_08/alesina-tre-lezioni-subito-dimenticate_81c2ed6e-d9e9-11e0-89f9-582afdf2c611.shtml

giovedì 1 settembre 2011

Quegli errori da non ripetere, di J. Bradford De Long

Spesso si ha l'impressione che i leader mondiali sottovalutino la crisi e la necessità della crescita. Il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, per esempio, non è considerato un oracolo come lo era il suo predecessore, Alan Greenspan, prima della grande crisi finanziaria. Ma i mercati sono stati con il fiato sospeso durante il suo discorso della settimana scorsa a Jackson Hole.

Quello che hanno sentito è stato un po' confuso.
In primo luogo, Bernanke non ha proposto nessun altro allentamento della politica monetaria a supporto della ripresa in stallo, o piuttosto della non-ripresa. Secondo, ha assicurato che «ci si aspetta che una ripresa moderata continui e che anzi si rafforzi».
Ciò è dovuto al fatto che «le famiglie hanno fatto progressi nel riequilibrare i loro bilanci, risparmiando di più, prendendo meno a prestito e riducendo il peso degli interessi da pagare e dei debiti». Inoltre anche la caduta dei prezzi dei beni di consumo «aiuterà ad aumentare il potere di acquisto delle famiglie».

In ultimo, Bernanke ha affermato che «i fondamentali della crescita degli Stati Uniti non sembrano essere stati alterati permanentemente dagli shock degli ultimi quattro anni». In particolare questa affermazione di Bernanke lascia perplessi. Se si prevede una ripresa economica rapida, prima che questa depressione si concluda, gli Stati Uniti avranno subito una diminuzione di investimenti pari a 4mila miliardi di dollari. Fino a quando questa diminuzione di investimenti non verrà compensata, la mancanza di capitale servirà a deprimere il livello del Pil reale statunitense di due punti percentuale pieni.

La traiettoria di crescita americana sarà del 2% inferiore a quanto sarebbe stata se la crisi finanziaria fosse stata gestita con successo e la leggera depressione evitata. E c'è di più: i tagli statali e delle amministrazioni locali hanno rallentato il ritmo degli investimenti in capitale umano e infrastrutture, aggiungendo un terzo punto percentuale al ribasso nella traiettoria di crescita di lungo periodo del Paese.
Dopo la Grande depressione degli anni 30, la grossa ondata di investimenti in capacità industriale durante la Seconda guerra mondiale negli Usa e nel mondo compensarono il buco del decennio perduto. Di conseguenza, la depressione non gettò ombra sulla crescita futura - o, piuttosto, l'ombra fu sopraffatta dagli accecanti riflettori di cinque anni di mobilitazione per la guerra totale contro la Germania nazista e l'impero nipponico.

Non c'è un analogo set di riflettori, in tutto il mondo occidentale, dispiegato per sconfiggere l'ombra che questa depressione di portata minore sta provocando. Al contrario, l'ombra si sta allungando ogni giorno che passa, a causa dell'assenza di politiche efficaci per riportare il flusso della spesa dell'economia intera sulla sua vecchia traiettoria.
Inoltre, c'è una fonte addizionale di difficoltà. Un fattore potente che diminuì la percezione del rischio e incoraggiò investimenti e imprese nel secondo dopoguerra fu il cosiddetto "contributo Roosevelt". I governi dei Paesi industrializzati in tutto il mondo iniziarono subito a considerare la sconfitta della depressione come la loro prima e più importante priorità in materia economica, cosicché i risparmiatori e gli investitori non ebbero alcuna ragione di preoccuparsi che i periodi neri che seguirono le crisi del 1873, 1884 o 1929 sarebbero ritornati.

Tutto ciò non vale più. Il mondo nel futuro sarà un posto più rischioso di quanto pensavamo fosse - non perché i governi non offriranno più garanzie che non avrebbero mai dovuto offrire, ma piuttosto perché il rischio reale che i mercati cadano in una depressione prolungata è di nuovo reale.
Non sono in grado di sapere di quanto questo rischio in più ostacolerà la crescita degli Stati Uniti e dell'economia globale. Un calcolo approssimativo suggerisce che una depressione della durata di circa cinque anni ogni 50 anni che spinge l'economia un 10% extra al di sotto del suo potenziale ridurrebbe i rendimenti dei capitali investiti e ritarderebbe gli investimenti privati tanto da tagliare i due decimi di un punto percentuale di crescita economica ogni anno. Come risultato, l'America non soltanto terminerebbe questo periodo di un 3% più povera di come avrebbe potuto essere; il gap arriverebbe a 7% nel 2035 e a 11% dal 2055.

Così staranno le cose se non si fanno oggi i passi necessari per risalire rapidamente da questa depressione, e se poi non si mettono in atto politiche in grado di riportare ai precedenti trend gli investimenti privati, in infrastrutture e nel settore educativo. Magari ciò sarebbe sufficiente a rassicurare tutti che l'attuale condiscendenza dei politici nei confronti di una crisi prolungata sia stata un terribile errore che non verrà ripetuto.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-01/quegli-errori-ripetere-073749.shtml?uuid=AaMoeb0D

L’Economia della Felicità, di Jeffrey D. Sachs

NEW YORK – Viviamo in un’epoca di grande ansietà. Nonostante la ricchezza totale della terra abbia raggiunto livelli mai visti prima, c’è una generale insicurezza, agitazione, insoddisfazione. Negli Stati Uniti, una gran parte degli americani crede che il paese sia “sulla strada sbagliata”. Il pessimismo è alle stelle e lo stesso vale per tanti altri posti.

In un simile contesto, è arrivato il tempo di riconsiderare quali siano le fonti basilari di felicità nella nostra vita economica. La ricerca sfrenata di guadagni sempre più elevati sta portando a livelli di diseguaglianza e ansietà mai visti prima piuttosto che rendere le persone più felici o più soddisfatte della propria vita. Il progresso economico è importante e può migliorare la qualità della vita sostanzialmente, ma unicamente se è perseguito insieme ad altri obiettivi.

A questo riguardo, il regno del Buthan nella catena himalayana è un precursore. Quarant’anni fa, il quarto re del Buthan, giovane ed appena asceso al trono, ha fatto una scelta rimarcabile: il Buthan deve perseguire la “felicità nazionale lorda” invece del Prodotto Nazionale Lordo. Da allora il paese sta sperimentando un approccio alternativo, olistico allo sviluppo che enfatizza non solamente la crescita economica ma anche la cultura, la salute mentale, la compassione e la comunità.

Decine di esperti si sono recentemente riuniti nella capitale del Buthan, Thimphu, per fare tesoro dell’esperienza del paese. Io sono stato ospite di questa iniziativa insieme al primo ministro del Buthan, esperto di sviluppo sostenibile e paladino del concetto di “Felicità Nazionale Lorda”. Ci siamo visti sulla scia di una dichiarazione fatta a luglio dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che invitava i paesi ad esaminare come le politiche nazionali potessero promuovere la felicità nelle proprie società.

Tutti coloro ritrovatisi a Thimphu hanno concordato sull’importanza di perseguire la felicità invece del prodotto nazionale. Ci siamo posti il problema di come raggiungere la felicità in un mondo caratterizzato da una rapida urbanizzazione, mass media, capitalismo globale e degrado ambientale. Come la nostra vita economica può essere riorganizzata in maniera tale da ricreare un senso di comunità, di fiducia e sostenibilità ambientale?

Qui ci sono alcune delle conclusioni provvisorie. Primo, non dovremmo denigrare il valore del progresso economico. Quando gli esseri umani hanno fame, sono private dei loro bisogni fondamentali come l’acqua potabile, l’assistenza sanitaria e l’educazione, senza un lavoro che aiuti a sostentarsi, inevitabilmente soffrono. Lo sviluppo economico che allevia la povertà è un passo vitale verso la felicità.

Secondo, il perseguimento accanito del PNL al punto da escludere qualsiasi altro obiettivo è anch’esso un percorso che preclude il raggiungimento della felicità. Negli Stati Uniti il PNL è aumentato considerabilmente negli ultimi 40 anni, ma altrettanto no ha fatto la felicità. Invece, inseguire ottusamente il PNL ha portato a grandi disuguaglianze di ricchezza e di potere, alimentato l’espansione degli strati più bassi della società, intrappolato milioni di bambini in condizioni di povertà e causato un serio degrado ambientale.

Terzo, la felicità si raggiunge attraverso un approccio equilibrato alla vita sia da parte degli individui che delle società. In quanto individui, siamo infelici se ci vengono negati i nostri bisogni materiali primari, ma siamo anche infelici se nelle nostre priorità la ricerca di livelli di reddito sempre più alti prende il posto della famiglia, degli amici, della comunità, della compassione e dell’equilibrio interiore. Come società, una cosa è organizzare politiche economiche per mantenere costante il miglioramento degli standard di vita, un’altra è di subordinare tutti i valori della società in questione al raggiungimento del profitto.

Tuttavia la politica americana sta permettendo sempre di più agli interessi aziendali di dominare tutte le altre aspirazioni: onestà, fiducia, salute mentale e fisica, e sostenibilità ambientale. I contributi delle imprese alle campagne elettorali stanno minando il processo democratico, con il benestare della Corte Suprema americana.

Quarto, il capitalismo globale presenta molte minacce dirette alla felicità. Sta distruggendo l’ambiente naturale attraverso i cambiamenti climatici e altri tipi di inquinamento, mentre uno sfrenato afflusso di propaganda da parte dell’industria petrolifera riesce a mantenere molte perone all’oscuro di tutto ciò. Sta indebolendo la fiducia sociale e la stabilità mentale, con la diffusione della depressione clinica apparentemente in aumento. I mass media sono diventati canale di sbocco dei “messaggi aziendali”, molti dei quali sono apertamente anti-scientifici, e gli americani soffrono di una gamma crescente di dipendenze da consumo.

Si consideri come l’industria dei fast food usa oli, grassi, zucchero ed altri additivi alimentari per creare dipendenze malate al cibo che contribuisce all’obesità. Un terzo di tutti gli americani sono in questo momento obesi. Il resto del mondo finirà allo stesso modo a meno che i paesi pongano restrizioni alle pratiche aziendali pericolose, inclusa la pubblicità, rivolta ai bambini, di cibi dannosi alla salute e che creano dipendenza.

Il problema non è solamente il cibo. La pubblicità di massa contribuisce a generare molte altre dipendenze che implicano pesanti costi per la sanità pubblica, inclusi l’eccessiva esposizione televisiva, il gioco d’azzardo, l’uso di droghe, il consumo di sigarette, e l’alcolismo.

Quinto, per promuovere la felicità, dovremmo identificare i numerosi fattori diversi dal PNL in grado di elevare o comprimere il benessere sociale. La maggior parte dei paesi investe per misurare il PNL, ma spende poco per mettere a fuoco le cause della salute a rischio (come i fast food e il guardare in modo eccessivo la televisione), del declino della fiducia sociale, e del degrado ambientale. Una volta compresi questi fattori, si può agire.

L’inseguimento folle dei profitti aziendali minaccia tutti noi. Per essere al sicuro, dovremmo supportare la crescita economica e lo sviluppo, ma soltanto in un contesto più ampio: quello che promuove la sostenibilità ambientale e i valori della compassione e dell’onestà che la fiducia sociale richiede. La ricerca della felicità non dovrebbe essere confinata nel bel regno montuoso del Buthan.

Jeffrey D. Sachs è Professore di Economia e Direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University. Inoltre è Consulente Particolare del segretario Generale delle Nazioni Unite riguardo agli Obiettivi di Sviluppo per il Millennio.

http://www.project-syndicate.org/commentary/sachs181/Italian