Non convincono neppure le «istruzioni» suggerite agli ambasciatori da Obama, che sembra voler chiedere scusa al mondo di essere il Presidente della nazione più colpita dai terroristi islamici. La ricorrenza di un simile tragico anniversario, che per estensione è anche anniversario di un decennio di crolli globali, merita qualche incursione fuori dal coro. Sobria e, nei limiti del possibile, disincantata.
Anzitutto bisognerebbe chiarire che cosa s’intende quando, di un evento o periodo storico, si dice che «ha cambiato il mondo». Qui si rischia di cadere nell’accattivante superficialità dello slogan giornalistico o addirittura del plagio più o meno subliminale. Ho per esempio letto, nella congerie di locuzioni esaltative, un paio che annunciavano: «Ecco la storia dei dieci anni che sconvolsero il mondo». L’annuncio rifaceva il verso al famoso titolo del libro di John Reed: «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ovvero i giorni che, nello scenario disastrato di Pietrogrado 1917, videro svolgersi il colpo di mano bolscevico contro un governo provvisorio allo stremo e contro un’assemblea costituente sotto la mira dei fucilieri lettoni indottrinati dal partito di Lenin e Trockij in minoranza.
Da quel golpe guarnito di qualche sparo finto, nacque il mito della Rivoluzione d’Ottobre: la quale, anziché il mondo, sconvolse la Russia e il leninismo, portandoli alle tenebre dello stalinismo. Lo sconvolgimento più inaudito fu la decimazione, voluta da Stalin, della vecchia guardia bolscevica e dei vertici dell’Armata Rossa. Dopodiché, spianata la strada, arriverà il patto con Hitler.
Attribuire quindi ad eventi storici, per quanto grandiosi e traumatici, una sconvolgente portata universale, un’unicità senza precedenti, è un esercizio non immune dal rischio di esagerazioni o previsioni falsanti. L’unicità di un grande evento, la quale si unisce perlopiù al senso del tragico, dura fino a quando un altro evento, altrettanto o più tragico, non la scavalca. Per la stessa America l’attacco contro le Torri e il Pentagono non è stato l’unico assalto nemico al suo territorio.
L’esercito britannico mise a ferro e fuoco Washington nel 1814. L’aviazione giapponese, con i suoi kamikaze, distrusse nel 1941 la flotta americana a Pearl Harbor, base militare nell’arcipelago delle Hawaii. L’unicità oltraggiosa dell’11 settembre non consiste perciò, come si è scritto, nell’attacco in sé a un territorio americano. Consisteva, semmai, nei modi dell’attacco e nell’indole insieme arcaica e postmoderna degli attaccanti.
Il kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale partiva, solitario, da basi conosciute e aveva alle spalle una bandiera, un imperatore, uno stato maggiore e una struttura bellica visibile. Invece il kamikaze di nuova generazione, il kamikaze islamista, ha alle spalle una sorta di vuoto operativo: una galassia mistica invisibile, fluida, guidata da centrali occulte, operante per cellule autonome largamente finanziate e sparpagliate all’interno di Stati non solo arabi.
Una volatile multinazionale del terrore, il cui supremo imprenditore, il defunto Bin Laden, si manifestava solo in brevi prediche televisive o in messaggi online, reclutando così proseliti anelanti al martirio per Allah e alla morte degli infedeli. Un’armata senza Stato, senza stendardi, senza generali, tranne un’accolita di spettri radunati, fra grotte o tendaggi lisi, attorno al fantasma di Bin Laden. Alberto Ronchey, in un memorabile articolo del 17 settembre 2001, aveva parlato con lucidità di «un’endemia diffusa, che stravolge la stessa nozione antica di guerra».
Tornando con la memoria alla visione dei grattacieli di New York trasformati in immensi vulcani urbani, si potrebbe forse accennare al tentativo jihadista, in gran parte fallito, di tenere sotto scacco l’America e l’Occidente con la minaccia di una guerra santa tecnologica e perenne. La nozione di guerra, antica o nuovissima, resta in qualche misura legata all’idea fissa quanto effimera di un «mutamento del mondo».
Se frughiamo nel pensiero di coloro che raccontavano la Storia in presa diretta, o altri che l’hanno reinterpretata a posteriori, storiografi, filosofi, romanzieri, poeti, vediamo spesso congiungersi nelle loro pagine l’idea della violenza con quella del cambiamento. Il cambiamento in quanto tale, non importa se positivo o negativo, è dato per certo ed è quasi sempre combinato al nome di una risolutiva battaglia navale o campale (Salamina, Zama, Lepanto, Trafalgar, Austerlitz, Borodino, Waterloo, Sedan, Verdun, Stalingrado eccetera).
Sembra riecheggiarvi ossessivo fra le righe, quale auspicio di un mutamento purchessia, il motto «Cartago delenda est». Lo sterminio del nemico, il massacro, il sangue versato appaiono sublimati come inevitabili motori di uno strappo senza ritorno da un’epoca all’altra. Ma quante volte noi occidentali, i nostri nonni, i nostri padri, infine noi stessi, avevamo già detto con enfasi pessimistica che «nulla sarà più come prima»?
Lo si disse ogni volta che un avvenimento distruttivo, una guerra, una rivoluzione, una catastrofe economica, una calamità naturale o, in tempi più moderni, perfino un semplice ricatto petrolifero sembravano stravolgere le nostre consuetudini e farci percepire il futuro come un incubo senza fine. Prendiamo però il caso paradossale delle due massime potenze europee. La Francia sanculotta, dopo le ghigliottinate giacobine, non ha visto risorgere nei suoi fasti una larga fascia della vecchia aristocrazia e decollare un potente ceto imprenditoriale, l’una e l’altro protette da due imperatori Buonaparte e da restaurati «monarchi borghesi»? La Germania, nel 1945 precipitata dentro l’abisso di un Ground Zero che sembrava averla inghiottita, non era diventata già all’epoca di Adenauer e di Erhard la nazione più ricca del vecchio continente?
Certo, l’attacco contro New York e Washington conteneva in sé molti elementi capaci di scatenare nel mondo, non solo in America, uno tsunami d’orrore metafisico e di angoscia collettiva. Quel nuovo tipo di guerra subdola e mostruosa, insieme suicida e omicida, scagliata con mezzi impropri contro gli Stati Uniti che non avevano mai subìto tante vittime in così poche ore, doveva purtroppo immergere l’inizio del terzo millennio in una tetra atmosfera da «Apocalypse now».
Gli americani si sono mobilitati istantaneamente non solo nella mastodontica impresa di soccorso ai sopravvissuti, ma, anche nell’organizazzione di una risposta immediata contro un nemico privo di volto. Nei giornali si è subito parlato dello scoppio di una «terza guerra mondiale contro ignoti». La replica dell’Amministrazione Bush, sostenuta con impeto di cuginanza dal governo Blair, si preparava ad essere durissima sia con i talebani che nelle caverne afghane proteggevano i capi di Al Qaeda, sia con Saddam Hussein che usava foraggiare e ospitare a Baghdad terroristi non solo mediorientali.
La sorte dell’Afghanistan e dell’Iraq era ormai segnata. L’Occidente o, meglio, una sua parte, entrata in fibrillazione, ha cominciato allora a prendere le distanze dall’America ferita e a domandarsi: che genere di conflitto anomalo sarà mai questo, quali saranno le armate che vi si affronteranno, dove, come, per quanto tempo dovranno combattere? Oggi possiamo dire che l’eco del grido di solidarietà lanciato dai francesi il 12 settembre - «Siamo tutti americani!» - si spense dopo quarantott’ore. La Francia tornò di colpo francesissima, antiamericana, filoaraba; Chirac promosse e inflisse alla coalizione atlantica, con incursioni diplomatiche all’Onu coordinate e aggressive, la più profonda spaccatura da essa patita dopo la fine della guerra fredda.
L’agghiacciante spettacolarità dei fumiganti crolli di Manhattan, a cui tutti abbiamo assistito in diretta tv, non dovrebbe farci dimenticare che, nonostante le sue tremende novità, non era stato l’avvìo di una presunta «terza guerra americana» destinata a trasformare, per il meglio o per il peggio, il mondo. Una trasformazione violenta o, se vogliamo ricorrere a termini meno iperbolici, una certa commutazione armata nei rapporti etnici, religiosi, nazionali in diverse regioni del mondo era già iniziata nei paraggi del 1989. Per molti aspetti una «terza guerra» a macchia di leopardo era già all’opera, nell’Europa balcanica e nella Russia meridionale, dopo o durante il crollo del comunismo.
In altre parole: dovremmo tenere a mente tutti i conflitti di civiltà (considero presuntuoso scialo culturale gettare l’intero Huntington in soffitta) che precedettero e, in modo sia pure obliquo, preannunciarono l’apocalisse newyorchese. Azeri contro armeni nel Caucaso, serbi ortodossi contro slavi islamizzati in Bosnia, ancora serbi contro albanesi musulmani nel Kosovo, quindi russi contro guerriglieri fondamentalisti in Cecenia e nel Daghestan. Lo stesso carattere di genocidio indiscriminato, che ha connotato la strage inflitta da Al Qaeda all’inerme popolazione delle Torri Gemelle, non s’era già profilato in termini rovesciati e ambigui (slavi cristiani contro slavi islamici) nel più esecrando degli olocausti perpetrati in Europa, a Srebrenica, dopo l’ultima guerra mondiale?
Non mi sembra possibile, né sul piano logico né su quello storico, separare gli anelli di questa mobile catena di catastrofi regionali che infine, allungandosi sempre più, sono diventati intercontinentali. Alla pace negativa, ma pur sempre pace, basata sull’equilibrio del terrore garantito per mezzo secolo dagli Usa e dall’Urss, è subentrato fra il 1989 e il 2000 lo squilibrio del terrore globalizzato: del caos in libertà. Il pianeta, che da quando esiste cambia in continuazione, sta già incorporando, assorbendo e forse sterilizzando tale incognita eccezionale e asimmetrica.
Fatto è che neppure l’11 settembre è riuscito o riuscirà a cambiare un universo che si cambia da solo, come gli pare e piace, nel bene e nel male. Non è un universo astratto, l’universo in generale caro agli astronomi e ai filosofi, che una discrasia storica per quanto temibile può ribaltare d’un tratto recidendone la radice oscura e irraggiungibile. Quello che invece è mutato, che sempre più sta mutando, è la percezione del mondo in cui viviamo. Volendoci vivere il più a lungo possibile, dovremo affrontarne le insidie e combatterle con i valori di fondo, non solo di superficie, della nostra civiltà tanto detestata da tutti quelli che la imitano per distruggerla.
Anzitutto bisognerebbe chiarire che cosa s’intende quando, di un evento o periodo storico, si dice che «ha cambiato il mondo». Qui si rischia di cadere nell’accattivante superficialità dello slogan giornalistico o addirittura del plagio più o meno subliminale. Ho per esempio letto, nella congerie di locuzioni esaltative, un paio che annunciavano: «Ecco la storia dei dieci anni che sconvolsero il mondo». L’annuncio rifaceva il verso al famoso titolo del libro di John Reed: «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ovvero i giorni che, nello scenario disastrato di Pietrogrado 1917, videro svolgersi il colpo di mano bolscevico contro un governo provvisorio allo stremo e contro un’assemblea costituente sotto la mira dei fucilieri lettoni indottrinati dal partito di Lenin e Trockij in minoranza.
Da quel golpe guarnito di qualche sparo finto, nacque il mito della Rivoluzione d’Ottobre: la quale, anziché il mondo, sconvolse la Russia e il leninismo, portandoli alle tenebre dello stalinismo. Lo sconvolgimento più inaudito fu la decimazione, voluta da Stalin, della vecchia guardia bolscevica e dei vertici dell’Armata Rossa. Dopodiché, spianata la strada, arriverà il patto con Hitler.
Attribuire quindi ad eventi storici, per quanto grandiosi e traumatici, una sconvolgente portata universale, un’unicità senza precedenti, è un esercizio non immune dal rischio di esagerazioni o previsioni falsanti. L’unicità di un grande evento, la quale si unisce perlopiù al senso del tragico, dura fino a quando un altro evento, altrettanto o più tragico, non la scavalca. Per la stessa America l’attacco contro le Torri e il Pentagono non è stato l’unico assalto nemico al suo territorio.
L’esercito britannico mise a ferro e fuoco Washington nel 1814. L’aviazione giapponese, con i suoi kamikaze, distrusse nel 1941 la flotta americana a Pearl Harbor, base militare nell’arcipelago delle Hawaii. L’unicità oltraggiosa dell’11 settembre non consiste perciò, come si è scritto, nell’attacco in sé a un territorio americano. Consisteva, semmai, nei modi dell’attacco e nell’indole insieme arcaica e postmoderna degli attaccanti.
Il kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale partiva, solitario, da basi conosciute e aveva alle spalle una bandiera, un imperatore, uno stato maggiore e una struttura bellica visibile. Invece il kamikaze di nuova generazione, il kamikaze islamista, ha alle spalle una sorta di vuoto operativo: una galassia mistica invisibile, fluida, guidata da centrali occulte, operante per cellule autonome largamente finanziate e sparpagliate all’interno di Stati non solo arabi.
Una volatile multinazionale del terrore, il cui supremo imprenditore, il defunto Bin Laden, si manifestava solo in brevi prediche televisive o in messaggi online, reclutando così proseliti anelanti al martirio per Allah e alla morte degli infedeli. Un’armata senza Stato, senza stendardi, senza generali, tranne un’accolita di spettri radunati, fra grotte o tendaggi lisi, attorno al fantasma di Bin Laden. Alberto Ronchey, in un memorabile articolo del 17 settembre 2001, aveva parlato con lucidità di «un’endemia diffusa, che stravolge la stessa nozione antica di guerra».
Tornando con la memoria alla visione dei grattacieli di New York trasformati in immensi vulcani urbani, si potrebbe forse accennare al tentativo jihadista, in gran parte fallito, di tenere sotto scacco l’America e l’Occidente con la minaccia di una guerra santa tecnologica e perenne. La nozione di guerra, antica o nuovissima, resta in qualche misura legata all’idea fissa quanto effimera di un «mutamento del mondo».
Se frughiamo nel pensiero di coloro che raccontavano la Storia in presa diretta, o altri che l’hanno reinterpretata a posteriori, storiografi, filosofi, romanzieri, poeti, vediamo spesso congiungersi nelle loro pagine l’idea della violenza con quella del cambiamento. Il cambiamento in quanto tale, non importa se positivo o negativo, è dato per certo ed è quasi sempre combinato al nome di una risolutiva battaglia navale o campale (Salamina, Zama, Lepanto, Trafalgar, Austerlitz, Borodino, Waterloo, Sedan, Verdun, Stalingrado eccetera).
Sembra riecheggiarvi ossessivo fra le righe, quale auspicio di un mutamento purchessia, il motto «Cartago delenda est». Lo sterminio del nemico, il massacro, il sangue versato appaiono sublimati come inevitabili motori di uno strappo senza ritorno da un’epoca all’altra. Ma quante volte noi occidentali, i nostri nonni, i nostri padri, infine noi stessi, avevamo già detto con enfasi pessimistica che «nulla sarà più come prima»?
Lo si disse ogni volta che un avvenimento distruttivo, una guerra, una rivoluzione, una catastrofe economica, una calamità naturale o, in tempi più moderni, perfino un semplice ricatto petrolifero sembravano stravolgere le nostre consuetudini e farci percepire il futuro come un incubo senza fine. Prendiamo però il caso paradossale delle due massime potenze europee. La Francia sanculotta, dopo le ghigliottinate giacobine, non ha visto risorgere nei suoi fasti una larga fascia della vecchia aristocrazia e decollare un potente ceto imprenditoriale, l’una e l’altro protette da due imperatori Buonaparte e da restaurati «monarchi borghesi»? La Germania, nel 1945 precipitata dentro l’abisso di un Ground Zero che sembrava averla inghiottita, non era diventata già all’epoca di Adenauer e di Erhard la nazione più ricca del vecchio continente?
Certo, l’attacco contro New York e Washington conteneva in sé molti elementi capaci di scatenare nel mondo, non solo in America, uno tsunami d’orrore metafisico e di angoscia collettiva. Quel nuovo tipo di guerra subdola e mostruosa, insieme suicida e omicida, scagliata con mezzi impropri contro gli Stati Uniti che non avevano mai subìto tante vittime in così poche ore, doveva purtroppo immergere l’inizio del terzo millennio in una tetra atmosfera da «Apocalypse now».
Gli americani si sono mobilitati istantaneamente non solo nella mastodontica impresa di soccorso ai sopravvissuti, ma, anche nell’organizazzione di una risposta immediata contro un nemico privo di volto. Nei giornali si è subito parlato dello scoppio di una «terza guerra mondiale contro ignoti». La replica dell’Amministrazione Bush, sostenuta con impeto di cuginanza dal governo Blair, si preparava ad essere durissima sia con i talebani che nelle caverne afghane proteggevano i capi di Al Qaeda, sia con Saddam Hussein che usava foraggiare e ospitare a Baghdad terroristi non solo mediorientali.
La sorte dell’Afghanistan e dell’Iraq era ormai segnata. L’Occidente o, meglio, una sua parte, entrata in fibrillazione, ha cominciato allora a prendere le distanze dall’America ferita e a domandarsi: che genere di conflitto anomalo sarà mai questo, quali saranno le armate che vi si affronteranno, dove, come, per quanto tempo dovranno combattere? Oggi possiamo dire che l’eco del grido di solidarietà lanciato dai francesi il 12 settembre - «Siamo tutti americani!» - si spense dopo quarantott’ore. La Francia tornò di colpo francesissima, antiamericana, filoaraba; Chirac promosse e inflisse alla coalizione atlantica, con incursioni diplomatiche all’Onu coordinate e aggressive, la più profonda spaccatura da essa patita dopo la fine della guerra fredda.
L’agghiacciante spettacolarità dei fumiganti crolli di Manhattan, a cui tutti abbiamo assistito in diretta tv, non dovrebbe farci dimenticare che, nonostante le sue tremende novità, non era stato l’avvìo di una presunta «terza guerra americana» destinata a trasformare, per il meglio o per il peggio, il mondo. Una trasformazione violenta o, se vogliamo ricorrere a termini meno iperbolici, una certa commutazione armata nei rapporti etnici, religiosi, nazionali in diverse regioni del mondo era già iniziata nei paraggi del 1989. Per molti aspetti una «terza guerra» a macchia di leopardo era già all’opera, nell’Europa balcanica e nella Russia meridionale, dopo o durante il crollo del comunismo.
In altre parole: dovremmo tenere a mente tutti i conflitti di civiltà (considero presuntuoso scialo culturale gettare l’intero Huntington in soffitta) che precedettero e, in modo sia pure obliquo, preannunciarono l’apocalisse newyorchese. Azeri contro armeni nel Caucaso, serbi ortodossi contro slavi islamizzati in Bosnia, ancora serbi contro albanesi musulmani nel Kosovo, quindi russi contro guerriglieri fondamentalisti in Cecenia e nel Daghestan. Lo stesso carattere di genocidio indiscriminato, che ha connotato la strage inflitta da Al Qaeda all’inerme popolazione delle Torri Gemelle, non s’era già profilato in termini rovesciati e ambigui (slavi cristiani contro slavi islamici) nel più esecrando degli olocausti perpetrati in Europa, a Srebrenica, dopo l’ultima guerra mondiale?
Non mi sembra possibile, né sul piano logico né su quello storico, separare gli anelli di questa mobile catena di catastrofi regionali che infine, allungandosi sempre più, sono diventati intercontinentali. Alla pace negativa, ma pur sempre pace, basata sull’equilibrio del terrore garantito per mezzo secolo dagli Usa e dall’Urss, è subentrato fra il 1989 e il 2000 lo squilibrio del terrore globalizzato: del caos in libertà. Il pianeta, che da quando esiste cambia in continuazione, sta già incorporando, assorbendo e forse sterilizzando tale incognita eccezionale e asimmetrica.
Fatto è che neppure l’11 settembre è riuscito o riuscirà a cambiare un universo che si cambia da solo, come gli pare e piace, nel bene e nel male. Non è un universo astratto, l’universo in generale caro agli astronomi e ai filosofi, che una discrasia storica per quanto temibile può ribaltare d’un tratto recidendone la radice oscura e irraggiungibile. Quello che invece è mutato, che sempre più sta mutando, è la percezione del mondo in cui viviamo. Volendoci vivere il più a lungo possibile, dovremo affrontarne le insidie e combatterle con i valori di fondo, non solo di superficie, della nostra civiltà tanto detestata da tutti quelli che la imitano per distruggerla.
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