lunedì 31 ottobre 2011

La religione nelle scuole non è contro la laicità, di Marco Tosatti

"L'insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, oltre a non ferire la laiciàt' dello Stato, garantisce il diritto dei Paesi a scegliere l'educazione dei propri figli, contribuendo in tal modo alla promozione del bene comune". Lo ha sottolineato Benedetto XVI nel discorso rivolto ad Almir Franco de Sa' Barbuda, nuovo ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede, ricevuto in udienza, questa mattina per la presentazione delle lettere credenziali. Il Papa - si legge sull'Osservatore Romano - ha evidenziato che è opportuno riaffermare che l'insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, lungi dal significare che lo Stato assume o impone un determinato credo religioso, indica il riconoscimento della religione come un valore necessario per la formazione integrale della persona. E l'insegnamento in questione, ha rilevato il Pontefice, non si puo' ridurre a una generica sociologia delle religioni, poiche' non esiste una religione generica, aconfessionale. Benedetto XVI, riferendosi poi al campo della giustizia sociale, ha affermato che il Governo brasiliano sa di poter contare sulla Chiesa come partner privilegiato in tutte le iniziative che mirano allo sradicamento della fame e della miseria. Benedetto XVI ha inoltre rivolto un pensiero all'organizzazione della prossima Giornata mondiale della gioventu', che si terra' nel 2013 a Rio de Janeiro. Il Papa ha sottolineato "con vivo apprezzamento e profonda riconoscenza" la disponibilita' manifestata dalle diverse autorita' dello Stato brasiliano "come pure dalla sua Rappresentanza diplomatica presso la Santa Sede" in vista dell'importante appuntamento.


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Riforme, l'opposizione è un bluff, di Luca Ricolfi

C’è un fatto nuovo, e a suo modo positivo, nel quadro politico degli ultimi giorni: la lettera di Berlusconi all’Europa. Non perché quella lettera, tanto prodiga di buone intenzioni quanto avara di impegni precisi, rappresenti una garanzia per il futuro dell’Italia. Ma per la ragione opposta, e cioè che - benché quella lettera sia rimasta piuttosto sul vago - è stata sufficiente a dissolvere il bluff su cui si è retta la politica italiana negli ultimi 90 giorni.
Quale bluff?

Fondamentalmente il bluff con cui un po’ tutti - sindacati, Confindustria, opposizione - hanno finto che il problema fosse solo l’inerzia del governo, e che invece le cosiddette parti sociali fossero perfettamente consapevoli della gravità della situazione, dell’urgenza di intervenire, della strada da imboccare, delle misure da prendere. Erano così sicure, le parti sociali, di essere la parte sana e modernizzatrice del Paese, che il 4 agosto avevano firmato un «documento comune» in cui davano le loro dritte al governo, sintetizzate in sei «priorità sulle quali operare immediatamente».

Dritte molto generiche anche quelle, ma apparentemente concordi. Ma era un bluff: non appena il governo, incalzato dall’Europa, ha timidamente manifestato l’intenzione di agire su alcuni di quegli stessi nodi che le parti sociali avevano imprudentemente evocato - «modernizzare il sistema di Welfare», «liberalizzazioni», «mercato del lavoro» - sono esplosi i conflitti sia fra le parti sociali sia dentro l’opposizione. Sulla ancora vaga idea di ritoccare le regole del mercato del lavoro sindacati e Confindustria si sono ritrovati immediatamente su sponde opposte, con la Marcegaglia (presidente di Confindustria) che approva le intenzioni del governo e la Camusso (segretario della Cgil) che annuncia uno sciopero prima ancora di conoscere il contenuto delle norme che il governo si appresterebbe a varare. Per non parlare del tema delle pensioni, che non ha scatenato un putiferio solo perché la Lega si è incaricata di bloccare tutto, mostrandosi in questo assai più capace di tutelare gli interessi dei già garantiti di quanto ormai lo siano i sindacati confederali e i Cobas.

Quanto all’opposizione, lo spettacolo che sta dando in questi giorni è desolante, almeno per chi si augurerebbe che - prima della fine del terzo millennio - si trovasse una qualche alternativa al governo Berlusconi. Sia le misure sulle pensioni di anzianità, sia le timidissime proposte per rendere più flessibile il mercato del lavoro, spaccano inesorabilmente la sinistra in due blocchi: una maggioranza conservatrice che si oppone a qualsiasi ridimensionamento dei diritti acquisiti, e una minoranza modernizzatrice che quando va bene si prende «solo» gli insulti dei benpensanti del Pd (vedi il trattamento riservato al sindaco di Firenze Matteo Renzi, subito bollato come uomo «di destra»), e quando va male deve girare con la scorta, come continua purtroppo a succedere ai giuslavoristi che si occupano di mercato del lavoro da posizioni riformiste.

Ecco perché dicevo, all’inizio, che la lettera di Berlusconi all’Europa è stata, per certi versi, un fatto positivo. Positivo perché chiarificatore, come una cartina di tornasole. Quella lettera ha chiarito, per chi coltivasse ancora qualche timida speranza, che il governo non è in grado di assumere impegni precisi né di varare misure coraggiose. Che le parti sociali, appena si scende nei dettagli, sono divise. E che l’opposizione, se mai andasse al governo, varerebbe misure ancora meno incisive di quelle già blande dell’attuale governo, oppure sarebbe paralizzata dai litigi interni, come ai tempi dell’ultimo esecutivo Prodi (2006-2008).

E allora diciamolo con chiarezza: il governo è uscito rafforzato dalle vicende della scorsa settimana, e probabilmente anche da quelle dell’ultimo mese. Perché più diventa evidente che il governo non è all’altezza della situazione, più diventa evidente che non lo è neppure l’opposizione, e che la concordia fra le parti sociali è solo di matrice assistenziale.

Il nucleo forte del «documento comune» è il consueto ritornello delle misure per la crescita, ma la sostanza di tali misure invariabilmente si rivela essere la richiesta di più risorse pubbliche: pagamenti più veloci, sblocco di stanziamenti già deliberati, fondi per il mezzogiorno, «sostegno ai processi di ricerca e di innovazione». Tutte richieste giustissime, che tuttavia non si accompagnano mai ad una vera, concreta, disponibilità a fare la propria parte, al di là del retorico appello al senso di responsabilità di tutti. Provate a leggerlo, il documento del 4 agosto sottoscritto dalle parti sociali: non vi troverete una sola parola sulle pensioni di anzianità, sui licenziamenti, sul precariato giovanile, sulla pioggia di incentivi di cui beneficiano le imprese. Tutte materie su cui si preferisce tacere, perché parlarne significherebbe assumersi delle responsabilità per davvero, e non solo a parole.

E a proposito di parole, mi vengono in mente quelle famose del presidente John Fitzgerald Kennedy nel 1961: «Non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese». Ecco, forse è proprio questo che manca all’Italia, e non solo al suo sciagurato governo: la consapevolezza che per chiedere bisogna anche dare, per costruire bisogna anche rischiare, e che è troppo facile fare fronte comune limitandosi a sommare le rispettive rivendicazioni. No, finché parleremo solo di quello che siamo intenzionati a pretendere, omettendo di dire quali rinunce siamo disposti a fare, non ne verremo mai fuori. Né con questo governo, né con qualsiasi altro.



http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9381

Quegli economisti euroscettici (proprio come Berlusconi), di Giuliano Ferrara


Paul Krugman critica l'euro tutti i gironi (ma Repubblica finge di non vedere), e non è il solo a farlo

Il premio Nobel per l'economia, il progressista e keynesiano Paul Krugman, scrive sul New York Times un giorno sì e un giorno no, ripreso con titoli camuffati da Repubblica che usa il copyright del giornalone americano, che l'euro è una ben strana moneta, e non convince, perché non risponde a un'autorità politica comune ai Paesi che la adottano, e perché non ha una vera banca centrale a sostegno come il dollaro con la Fed, la sterlina con la Banca d'Inghilterra, lo yen con la Banca centrale giapponese. Berlusconi dice esattamente la stessa cosa, testimoniata da un video. Ma non una cosa simile, esattamente la stessa cosa. Appena ha finito di parlare il premier italiano, invece di domandarsi se abbia detto una cosa giusta, sulla quale concordano il presidente della Università Bocconi e cento altri economisti di grido nel mondo, i nemici di Berlusconi si mettono a strillare: Berlusconi attacca l'euro!, vergogna!, e il presidente del Consiglio in poche ore è obbligato a una correzione di prammatica, di patriottismo monetario, sicché l'euro, com'è ovvio, ridiventa anche una bandiera dei Paesi che l'adottano. Ci mancherebbe.
Che cosa significa questo fatto di cronaca politica, che si ripete invariabilmente da anni quando parla il capo del governo italiano? Non c'è dubbio che i giornalisti italiani siano un po' asini, siamo un po' asini. La faziosità implica quella che Carlo Fruttero chiamerebbe la "risorgenza del cretino", un fenomeno pericoloso e attualissimo. Guareschi parlava di "cervello all'ammasso", come le merci inerti quando, appunto, si ammassano in un magazzino, che in questo caso non è di grano o colza ma di sciocchezze. Scegliete voi, ma di asinità in primo luogo si tratta.Però la spiegazione è anche troppo semplice. C'è qualcosa di più sottile, oltre alla "risorgenza". C'è un rapporto malato, come avrebbe detto un celebre filosofo francese che se ne intendeva, Michel Foucault, tra le parole e le cose. Se il titolo di un editoriale di Repubblica è: "L'ultimo strappo di un Cavaliere disperato", e il titolo è stampato senza alcun pudore a stigmatizzare come una stecca una dichiarazione intelligente, fatta sulla scia di un intelligentone come Krugman e del senso comune condiviso dalla maggioranza degli intelligentoni, a parte il consenso dei cittadini investitori e risparmiatori e contribuenti ( questo è ovvio), vuol dire che non siamo nel teatrino della politica, come direbbe il Cav., ma in pieno melodramma.
La stonatura, il sovracuto scemo e ispido, segnalano che si tratta però di musica di serie B, non il magnifico melodramma interpretato dal Cav. sulla scia di Donizetti e del suo «Elisir d'amore»: siamo in ascolto di cattiva musica, di una roba che dovrebbe far rimbombare le redazioni di fischi, con lancio di gatti morti e pomodori e altri ortaggi come nel "Roma" di Fellini. C'è una frase della gente che piace a me odiosa: "Mi vergogno di essere italiano". Parla proprio e inconsapevolmente di questo linguaggio, di questo oltraggio alla coerenza logica, alla semplicità di pensiero, al buonsenso elementare che anche un bambino piccolo e disinformato comincia a disegnare nelle sue parole come mappa per il suo rapporto con le cose. Non è l'Italia, non è l'italianità, è un italianismo o un italianese fradicio. Krugman aggiunge sempre nelle sue note fulminanti che il guaio è il moralismo, lo spirito autopunitivo delle classi dirigenti europee, l'incapacità di capire che la crisi da debito si cura con misure di difesa della moneta, e naturalmente con riforme di struttura, non con la lagna declinista e catastrofista.
E' precisamente la linea esposta sabato da Berlusconi nella lettera al Foglio, in cui l'austerità, vecchio arnese ideologico di un tempo in cui danzavamo intorno all'idolo della lotta di classe, è messa all'angolo e respinta come vocalizzo moraleggiante da rimpiazzare con un programma di sviluppo fondato sull'ottimismo della volontà e della ragione.Abbiamo dunque un presidente del Consiglio che ha un pensiero progressista e liberale, con una punta di paradossale spirito keynesiano, e un' opposizione di carta che, mentre i giovani del Partito democratico e il buon Renzi si sgolano per spiegargli come stiano effettivamente le cose, stecca e prende tormentosi lapsus per dire delle scemenze reazionarie, per imporre protocolli di facciata, per invocare la menzogna contro il senso di realtà. Non è un motivo in più per tenere duro?
Giuliano Ferrara

sabato 29 ottobre 2011

La ridistribuzione del reddito riduce la povertà?, di Jagdish Bhagwati


Molti sostenitori di sinistra rimangono sospettosi di fronte alla teoria secondo cui la crescita economica aiuterebbe a ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo. Secondo loro, infatti, le politiche mirate alla crescita hanno in realtà lo scopo di aumentare il PIL e non di migliorare la povertà, mentre, a loro avviso, sarebbe la ridistribuzione la chiave per la riduzione della povertà. Queste affermazioni non sono tuttavia supportate da alcuna prova.
Sin dagli anni ’50 gli economisti dello sviluppo hanno capito che la crescita del PIL non è sinonimo di aumento del benessere. Ma già nel periodo precedente all’indipendenza, i leader indiani consideravano comunque la crescita come un elemento essenziale per la riduzione della povertà e l’accrescimento del benessere sociale. In termini economici, la crescita era uno strumento e non un obiettivo, ovvero il mezzo attraverso il quale venivano raggiunti obiettivi reali tra cui la riduzione della povertà ed il progresso sociale delle masse.
Un quarto di secolo fa ho evidenziato due diverse modalità tramite cui la crescita economica potrebbe avere questo effetto. Innanzitutto la crescita garantirebbe ai poveri un lavoro rimunerativo aiutandoli ad uscire dallo stato di povertà. Attraverso dei redditi più elevati sarebbero inoltre in grado di aumentare la propria spesa su educazione e sanità (come sembra essere successo in India nell’ultimo periodo di crescita accelerata).
In secondo luogo, la crescita aumenta le entrate statali, il che significa che il governo può potenzialmente spendere di più in sanità ed educazione a favore dei poveri. Ovviamente un paese non decide necessariamente di finanziare queste aree solo a seguito di un aumento delle sue entrate, e qualora lo facesse, potrebbe decidere di finanziare dei progetti che potrebbero rivelarsi non efficaci.
Fingendo di ignorare il fatto che il modello centrato sulla crescita è stato di tanto in tanto riconfermato, gli scettici sostengono invece un modello di sviluppo “ridistributivo” alternativo che avrebbe, a loro avviso, un impatto maggiore sulla riduzione della povertà. Coloro che criticano il modello centrato sulla crescita affermano che sia d’obbligo ridistribuire il reddito e la ricchezza quanto prima. A loro avviso, lo stato indiano di Kerala ed il Bangladesh sono esempi che dimostrano che la ridistribuzione ha portato, rispetto alla crescita, a risultati migliori per i poveri in confronto al resto dell’India.
Ciò nonostante, come dimostra lo studio recente dell’economista della Colombia University, Arvind Panagariya, le statistiche sociali di Kerala sono risultate migliori rispetto a quelle del resto del paese ancor prima che l’attuale modello ridistributivo fosse introdotto. Inoltre, Kerala ha tratto enorme profitto dalle rimesse inviate a casa dai suoi lavoratori emigrati nel Medio Oriente, un fattore totalmente slegato alla politica di ridistribuzione. Il Bangladesh invece è stato classificato ad un livello inferiore rispetto all’India dall’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, una fonte dichiaratamente problematica.
Nei paesi impoveriti dove i poveri sono per un ampio margine più numerosi dei ricchi la ridistribuzione aumenterebbe il consumo dei poveri solo in minima parte, al pari, ad esempio, di un chapati al giorno, tanto che l’aumento non sarebbe sostenibile in un contesto di redditi bassi e di una crescita demografica elevata. In breve, per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo la crescita rappresenta la strategia principale per uno sviluppo esaustivo, ovvero un processo di sviluppo che arrivi a comprendere i membri più poveri ed emarginati di una società.
Ma la sostenibilità politica del modello che mette al primo posto la crescita richiede sia uno sforzo simbolico che materiale. Se da un lato i poveri traggono dei benefici dalla crescita, i ricchi lo fanno in maniera sproporzionata. Pertanto, al fine di mantenere costante l’impegno dei poveri nei confronti del sistema anche nel momento in cui le loro aspirazioni economiche vengono innalzate, sarebbe auspicabile che i benestanti limitassero un consumo eccessivo.
Allo stesso tempo, e ancor più importante, i poveri hanno bisogno di una più ampia accessibilità all’educazione al fine di aumentare le proprie opportunità economiche e la mobilità sociale. Il principio che guida la politica di sviluppo dovrebbe diventare “meno eccesso e più accessibilità”.

venerdì 28 ottobre 2011

In Germania socialisti e liberali sono certi che l’Italia ce la farà da sola, di Giovanni Boggero


Le condizioni del Bundestag

Oppermann, speaker parlamentare dei socialdemocratici, dice al Foglio che Roma non crollerà come Atene
Mentre il Parlamento tedesco è tornato a esprimersi sulle modifiche del Consiglio europeo al Fondo di stabilizzazione finanziaria (Efsf), il portavoce del gruppo parlamentare dell’Spd al Bundestag, Thomas Oppermann, ha scelto un colloquio mattutino con la stampa per spiegare la posizione dei socialdemocratici sulla crisi debitoria. Oltre alla necessità di ricorrere alla leva finanziaria per stabilizzare l’euro, ormai anche i socialdemocratici sembrano convinti che la Grecia non possa evitare il default: “A differenza di Atene – dice Oppermann al Foglio – credo proprio che l’Italia, se lo vuole, ce la possa fare da sola, senza bisogno di un haircut”, ovvero un taglio del valore nominale dei propri titoli di debito pubblico.


A rispondergli a stretto giro di posta è Frank Schäffler, l’euroribelle del Partito liberale (Fdp) contrario a qualsiasi paracadute per gli stati: “L’Italia ce la può certamente fare da sola – ammette anche lui – e a maggior ragione non si spiega perché vi sia stata tanta fretta nel deliberare la leva finanziaria per l’Efsf. Quella leva e il voto del Bundestag servono, ci hanno detto, soltanto all’Italia”.


Visto il rischio di un deterioramento della situazione, i socialdemocratici hanno comunque votato favorevolmente, con la maggioranza, per dare mandato alla Merkel per negoziare al Consiglio Ue sul Fondo salva stati: 503 i deputati favorevoli, 89 contrari, 4 astenuti.
Deliberazione cui alla fine ha dovuto concorrere l’intera assemblea e non soltanto la commissione Bilancio, come inizialmente preventivato. “Il passaggio da una democrazia del cancelliere a una democrazia parlamentare si rende necessario perché questo governo non è in grado di agire da solo, ma deve per forza chiedere aiuto al Parlamento per mascherare la sua debolezza”, spiega ancora il socialdemocratico Oppermann. “Una volta tornati al governo – aggiunge – ripristineremo la democrazia del cancelliere. Qualunque sia il nostro candidato, avremo di nuovo un governo autorevole”. Secondo l’esponente dell’Spd, il rallentamento delle operazioni in sede europea non può essere banalmente imputato alla richiesta di un dibattito parlamentare proveniente dalle file rosso-verdi, bensì alle divisioni interne alla coalizione di governo.


A dirla tutta, però, il ruolo dell’Spd nella stesura della mozione autorizzatoria (Entschliessungsantrag) approvata nel pomeriggio di ieri da una maggioranza trasversale di 503 deputati (con 14 contrari nella maggioranza e un astenuto) è stato di estrema rilevanza, tanto è vero che l’Fdp, il Partito liberale alleato della Merkel, ha dovuto semplicemente accettarla, senza poter evitare un riferimento esplicito al leverage, definita pochi giorni fa “arma di distruzione di massa” dal capogruppo al Bundestag, Rainer Brüderle. Dietro le vibranti critiche alla cancelliera, si cela insomma una stretta collaborazione parlamentare tra Spd e Cdu/Csu, che sembra preludere a una riedizione della grande coalizione. Come qualche osservatore non ha mancato di rilevare, l’atteggiamento dei socialdemocratici è però radicalmente cambiato rispetto allo scorso anno. Nelle prime due votazioni riguardanti gli aiuti alla Grecia risalenti al 2010, l’Spd si astenne, considerando le misure del governo del tutto minimaliste. “Ci astenemmo, perché non v’era alcun riferimento a una tassa sulle transazioni finanziarie. Nella mozione di oggi invece c’è”, chiarisce Oppermann.


L’esponente socialdemocratico infine cita un altro successo del proprio partito nelle trattative con la Cdu/Csu: “Abbiamo fatto in modo che il governo prendesse atto dell’inopportunità di una monetizzazione del debito attraverso la Bce. Nella mozione abbiamo messo nero su bianco la nostra contrarietà ad acquisti sul mercato primario e secondario da parte dell’Eurotower”. Il Parlamento tedesco ha detto dunque di aspettarsi che la Bce cessi gli acquisti di titoli di stato dopo la conferma dell’ampliamento del fondo Efsf. E su questo l’accordo con la cancelliera è totale. La Merkel, parlando ieri mattina al Bundestag prima di recarsi a Bruxelles con gli altri capi di governo, ha ricordato infatti che la via per un’“Unione europea della stabilità” non può passare da un coinvolgimento diretto di Francoforte, bensì necessariamente dell’Efsf. Ovvero il Fondo salva stati il cui raggio d’azione è stato ampliato con le decisioni del Consiglio europeo, ma sulle cui potenziali perdite la cancelliera ha glissato: “Il contributo massimo per la Germania rimane fissato a 211 miliardi più gli interessi”, spiegano da ambienti della maggioranza. Cifra che, con l’introduzione della leva, difficilmente resterà d’attualità.

mercoledì 26 ottobre 2011

Consigli liberali per Draghi, di Michele Arnese


Tabellini (rettore Bocconi) per una Bce che difenda la moneta

Solo una svolta nella politica monetaria europea potrà risolvere sia la crisi dei debiti sovrani sia la recessione. Guido Tabellini non è un economista noto per idee rivoluzionarie o eterodosse: il rettore della Bocconi è saldamente ancorato a principi liberali. Non è un teorico di politiche economiche interventiste né un fautore di politiche monetarie lassiste, in tempi normali. Ma questi non sono più tempi normali. Perciò, in una conversazione con il Foglio, dice di conoscere e apprezzare le idee di Adam Posen, il membro del board della Bank of England che da tempo invoca un ruolo più attivo delle Banche centrali per difendere la moneta, le banche e quindi gli stati: “Quelle che fino a poco tempo fa potevano essere considerate tesi eccentriche – spiega Tabellini – sono rivalutate perché Posen ha studiato a fondo gli effetti della crisi del debito giapponese sull’economia. Uno scenario simile a quello che affronta l’Europa per una persistente crescita debole. Quindi i suoi consigli affinché gli Istituti centrali, quello inglese e quello di Francoforte, non siano inerti, devono essere valutati con attenzione”.
L’esperienza della crisi finanziaria globale di questi anni induce a cambiare paradigma. L’economia mondiale, secondo Tabellini, deve ancora smaltire la sbornia dell’eccesso di debito accumulato: “Come hanno sottolineato le ricerche storiche di due economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui consumi e investimenti languono e la disoccupazione resta elevata”. “In questa situazione – aggiunge Tabellini – le economie restano fragili e qualunque choc imprevisto può far deragliare la ripresa”. Per questo il rettore dell’ateneo privato milanese pensa che “la Bce ha sbagliato quando ha iniziato a far salire i tassi, riducendo troppo presto lo stimolo monetario e sopravvalutando la forza dell’economia europea”.
Ma c’è un secondo fattore che contribuisce a fermare la crescita mondiale, oltre alla mole del debito: è, secondo Tabellini, “la mancanza di fiducia”. Com’era avvenuto nel 2008 dopo il fallimento di Lehman, così ora l’aggravarsi della crisi del debito sovrano in Europa “sta scatenando un crollo di fiducia generalizzato”. I due fattori – l’eccesso di debito e la mancanza di fiducia – si saldano. Non solo: il rallentamento della crescita rende più difficile smaltire il debito e aumenta la rischiosità degli investimenti, espandendo la sfiducia. Tutto ciò fa salire il costo del debito, visto che l’aumento del costo del denaro provoca una restrizione del credito e maggiori interessi da pagare per le imprese.
In questa situazione, è soprattutto l’azione dell’Istituto di Francoforte che deve cambiare: “La politica monetaria della Bce potrebbe svolgere un ruolo cruciale per arginare la crisi ed evitare che l’economia mondiale precipiti in recessione”, scandisce Tabellini: “Il crollo di fiducia sui mercati finanziari europei sta portando a una crisi generalizzata di liquidità, che si sta lentamente trasformando in una grave stretta creditizia”. Soltanto “la Bce ha gli strumenti per impedire che ciò avvenga e aumentare l’offerta di forme di investimento prive di rischio”.
Non c’è bisogno di rivedere lo statuto della Bce che sarà a giorni presieduta da Mario Draghi, secondo Tabellini: “A statuto vigente, l’Istituto di Francoforte potrebbe già effettuare operazioni di quantitative easing come quelle della Fed e della Bank of England. La congiuntura macroeconomica e finanziaria giustifica gli acquisti di titoli pubblici di tutti gli stati che la Bce potrebbe e dovrebbe effettuare”. La finzione di sterilizzare gli acquisti dei titoli di stato “dovrebbe essere abbandonata, in modo da attuare una vera e propria espansione quantitativa”, ha scritto di recente sul Sole 24 Ore diretto da Roberto Napoletano. Gli acquisti recenti dei titoli di stato italiani e spagnoli sono un passo in questa direzione, “ma rischiano di essere inutili se sono accompagnati dalla percezione che saranno presto abbandonati e che non vi è una vera svolta nella politica monetaria”.
Ecco, una svolta nella politica monetaria. Non solo e non più garantendo i titoli pubblici – il cui valore in picchiata incide negativamente sullo stato dei conti delle banche – ma anche con una manovra sui tassi di interesse. Tabellini non ricorre a perifrasi: “La Bce dovrebbe avere il coraggio di attuare una svolta radicale nella politica monetaria, tornando ad abbassare i tassi d’interesse”. Ma così non salirebbe l’inflazione e l’euro si svaluterebbe? “Non è affatto detto che ciò accadrebbe. Mi spiego. In ogni crisi di liquidità aumenta la domanda di moneta, e un’espansione monetaria non crea inflazione. Inoltre, oggi un po’ d’inflazione aiuterebbe a smaltire il debito, e rappresenta una via d'uscita. Per la stessa ragione, non è detto che il cambio si svaluterebbe, soprattutto se l’espansione monetaria fosse coordinata a livello mondiale. E comunque un euro più debole potrebbe solo aiutare la crescita”.

martedì 25 ottobre 2011

Bagnasco contro Marx


La visione socialista è incompatibile con la fede cattolica, ha ribadito oggi il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, aprendo a Rimini l'incontro dei responsabili diocesani della pastorale del lavoro. «L'errore fondamentale del socialismo - ha spiegato il cardinale - non è stato innanzitutto di carattere
economico, ma antropologico. Non è stata la decrepitezza economica o una modernizzazione ritardata ad essere la causa primaria della sua fine, ma la negazione della verità sull'uomo».«Se la persona non è riducibile a molecola della società e dello Stato, il bene del singolo - ha ricordato il cardinale Bagnasco, che ha insegnato per anni all'Università di Genova proprio teoria del marxismo -, non può essere del tutto subordinato al meccanismo economico-sociale, nè è possibile pretendere che il bene economico si possa realizzare prescindendo dalla responsabilità individuale. L'uomo sarebbe ridotto ad una serie di relazioni economiche, e scomparirebbe la persona come soggetto autonomo di decisione morale». Secondo il porporato, «è proprio grazie all'esercizio della moralità, cioè il suo agire libero e responsabile, che la persona costruisce la giustizia e quindi l'ordine sociale».Questo errore genetico del socialismo - ha poi aggiunto il presidente della Cei - è proprio anche del consumismo e quindi della nostra civiltà, che sembra essere malata di questo morbo che, se non corretto, la porta alla decadenza».


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Dall'Udinese al Manchester City, ecco l'Europa mai vista del calcio, di Sandro Bocchio

Il Levante davanti al Barcellona, il Paris Saint Germain di Leonardo ancora primo e le sorprese in Champions League


Un'Europa mai vista: in Inghilterra comanda il Manchester City, in Francia il Paris Saint Germain, in Spagna il Levante e in Italia l'Udinese. Resistono il Bayern in Germania, anche se ultimamente non si sente benissimo, e il Porto in Portogallo. Una rivoluzione inimmaginabile fino a poco tempo fa, in un'epoca scandita dalla supremazia dell'Inter (scudetto dal 2006 al 2010), del Lione (primo dal 2002 al 2008) e dalle alternanze dal 2005 ai giorni nostri delle coppie Manchester United-Chelsea e Barcellona-Real Madrid.
Ancor più inimmaginabile se si va a vedere quanto abbia vinto chi oggi comanda: nessun titolo per l'Udinese, una coppa del Re (nel 1937, e non ufficiale, per il Levante), appena due primi posti (ma l'ultimo nel 1968) per il City e per il Paris Saint Germain. Che, a sua parziale giustificazione, può portare una militanza di minore longevità, visto che è nato soltanto nel 1970. Numeri che rendono eclatante il riposizionamento cui stiamo assistendo. Un riposizionamento giustificabile – a livello sportivo – con un miglioramento della qualità tecnica e con il livellamento verso l'alto delle capacità tattiche. Solo in questo modo si spiega, per esempio, il primo posto nel suo girone di Champions dell'Apoel Nicosia, portabandiera di un calcio (quello cipriota) ancora considerato di ultima fascia nel panorama mondiale. Ma è anche un cambiamento derivante da dinamiche totalmente diverse tra loro che però, alla fine, conducono allo stesso traguardo: primeggiare.
Pur se nel caso di Spagna e Italia la sensazione è che si tratti di un fenomeno significativo ma non ancora tale per dettare un'inversione di rotta. Il Levante, seconda squadra di Valencia, è il frutto di una campagna acquisti che ha saccheggiato il mercato alla ricerca dell'usato sicuro a costo zero: uno schiaffo in faccia ai bilanci milionari di Real e Barcellona. Mentre l'Udinese, in estate ha venduto – e bene – Sanchez, Zapata e Inler: ha portato a casa 53 milioni, spendendone una ventina per costruire la nuova squadra. L'eliminazione ai preliminari di Champions aveva fatto alzare la cresta ai critici della famiglia Pozzo, accusata di aver pensato soltanto all'incasso anziché agli investimenti. Il concreto cammino in campionato (zero sconfitte, un solo gol incassato), insieme con il lancio di nuove proposte per il prossimo mercato, hanno immediatamente trasformato le critiche in applausi, sport in cui eccelliamo.
Ben diverso è il caso di Manchester City e Paris Saint Germain perché, alla base, ci sono gli investimenti a cinque stelle dei danarosi padroni venuti da fuori. In Inghilterra sono quelli degli Emirati Arabi Uniti dello sceicco Mansur bin Zayd Al Nahyan, in Francia quelli della Qatar Investment Authority, che da quest'anno griffa la maglia del Barcellona con la Qatar Foundation per 30 milioni di euro a stagione. Spendaccioni sì, ma non sprovveduti. E con un'idea ben precisa del calcio visto che, per crescere, hanno cercato professionisti educati in Italia, dove il pallone è ragione di vita. Al Manchester City, che ha frantumato lo United nel derby, il centro dell'universo è Roberto Mancini, comandante in campo di un'unità tricolore che ha cambiato mentalità e abitudini del gruppo. Con i risultati sotto gli occhi di tutti.
Al Paris Saint Germain il motore è invece Leonardo che, dopo aver trascorso 14 anni da noi (e guidando in rapida successione Milan e Inter), è tornato in Francia per fare ciò che più ama: il dirigente. Ma senza dimenticare l'Italia, dove ha acquistato Sissoko dalla Juventus, Menez dalla Roma, Pastore e Sirigu dal Palermo: 40 milioni versati senza colpo ferire per tornare in vetta. Magari prima del previsto. E per durare più a lungo del previsto.

Dieci proposte (a costo zero) per dare una scossa all’Italia, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


UNA SVOLTA PER LA CRESCITA


In extremis il premier annuncia un intervento sulle pensioni. Ma le ipotesi valutate finora per far riprendere la crescita sono pannicelli tiepidi per un malato che rischia l’arresto cardiaco. I provvedimenti fiscali di mezza estate ridurranno il deficit di un ammontare pari a sei punti di prodotto interno lordo (pil) sull’arco di un triennio, intervenendo quasi esclusivamente con maggiori imposte.

L’ultima volta che ciò accadde in Italia, nell’autunno del 1992, la crescita l’anno successivo segnò meno un per cento e i consumi meno 3, nonostante in quell’occasione, diversamente da oggi, l’effetto dell’aumento delle tasse fosse in parte temperato dalla svalutazione della lira. Una forte caduta del pil nel prossimo anno, e forse nei prossimi due, non è quindi da escludere. E questo dopo un decennio in cui l’Italia è cresciuta metà del resto d’Europa. In queste condizioni, mettere in rete le ricette mediche, snellire qualche procedura burocratica, progettare qualche nuova infrastruttura sono interventi palesemente inadeguati. L’Italia ha bisogno di una scossa, non di pannicelli. Innanzitutto, smettiamola di illuderci che grandi progetti come l’Expo di Milano o qualche nuova autostrada siano la via per la crescita. Il rendimento di queste opere è ampiamente sopravvalutato. La scarsità di infrastrutture fisiche non è la priorità del Paese. E allora che fare? Le proposte, certo non nuove, su cui ancora una volta torniamo, hanno una caratteristica comune: non costano nulla, anzi alcune consentirebbero allo Stato di risparmiare.
1) Sbloccare il mercato del lavoro con una progressiva introduzione di contratti unici che eliminino al tempo stesso sia l’eccessiva precarietà sia la perfetta inamovibilità dei dipendenti di alcuni settori.
2) Sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei, ispirandosi alla flex security dei Paesi nordici.
3) Tornare alla formulazione originale dell’articolo 8 della manovra finanziaria di agosto, quella inizialmente scritta dal ministro Sacconi e poi modificata su richiesta dei sindacati e con l’accordo di Confindustria: maggiore libertà per imprenditori e lavoratori di fare, se d’accordo, scelte a livello aziendale.
4) Permettere ai salari del settore pubblico di essere diversi da una regione all’altra a seconda del costo della vita. Al Sud il costo della vita è in media il 30 per cento inferiore rispetto a quello del Nord, ma i salari monetari dei dipendenti pubblici sono uguali. Questo permetterebbe un risparmio di spesa pubblica e faciliterebbe l’impiego nel settore privato al Sud dove oggi invece conviene lavorare per le amministrazioni pubbliche.
5) Favorire l’occupazione femminile con agevolazioni fiscali quali le aliquote rosa per le donne che lavorano. L’occupazione femminile in Italia è la più bassa d’Europa.
6) Riformare con equità le pensioni di anzianità (oltre all’aumento dell’età pensionabile annunciato da Berlusconi) e prevedere, con la dovuta gradualità, che si possa lasciare il lavoro solo quando si raggiungono i requisiti per una pensione di vecchiaia o i massimi contributivi. Lo scorso anno l’Inps ha liquidato 200 mila nuove pensioni di vecchiaia e un numero simile (175 mila) di nuove pensioni di anzianità. Ma l’importo medio di un’anzianità è di 1.677 euro, contro 602 euro di una pensione di vecchiaia.
7) Riforma della giustizia civile che accorci i suoi tempi, oggi glaciali, uno dei maggiori ostacoli, soprattutto per i giovani imprenditori. In un articolo pubblicato su questo giornale il 5 giugno abbiamo fatto proposte concrete sull’organizzazione del lavoro dei giudici per raggiungere questo obiettivo a costo zero.
8) Eliminare alcuni dei privilegi garantiti agli ordini professionali. Aprire ai privati la gestione dei servizi pubblici locali (per esempio gestione dei rifiuti). Liberalizzare i mercati, partendo da ferrovie, poste ed energia.
9) Allargare la base imponibile riducendo l’evasione per poter abbassare le aliquote: niente condoni, perché i condoni sono un invito a evadere il fisco. Vincolarsi per legge a destinare le maggiori entrate derivanti dal recupero dell’ evasione unicamente alla riduzione delle aliquote fiscali, in particolare sul lavoro, con una specifica attenzione a quello femminile.
10) Dimezzare i costi della politica, nel vero senso della parola, cioè una riduzione del cinquanta per cento. Ciò non avrebbe un effetto macroeconomico diretto ma darebbe un importante segnale politico di svolta.
Dal punto di vista del metodo bisogna abbandonare la concertazione. Non è possibile che un governo debba decidere qualunque riforma intorno a un tavolo (reale o virtuale) in cui i difensori dei privilegi che quella riforma taglierebbe possono fare proposte alternative e contrattarle con il governo. Infine rimane il problema di «quale» governo abbia il coraggio di fare tutte queste cose. Berlusconi ha una grande occasione per dare un colpo d’ala al proprio governo. Oppure serve una grande coalizione? O un governo tecnico? Non siamo politologi e non lo sappiamo, ma di una cosa siamo convinti: se non si sblocca l’impasse in cui siamo caduti, se neppure il baratro cui ci stiamo affacciando spaventa questa classe politica, allora siamo veramente nei guai. E con noi l’Europa.

lunedì 24 ottobre 2011

L'opposizione senza risposte, di Angelo Panebianco


ALLEANZE E PROGRAMMI DIVERGENTI



Angela Merkel, nel suo colloquio con Giorgio Napolitano, ha chiesto, fra l'altro, chiarimenti sulle prospettive dell'Italia in caso di caduta del governo Berlusconi. Se andasse al governo, quali provvedimenti prenderebbe l'attuale opposizione? La domanda è sicuramente pertinente tenuto conto del grave stato di salute della maggioranza. Ma è destinata a rimanere priva di risposta.

Per capire come mai occorre fare un passo indietro, occorre ricostruire le ragioni di quella che è forse la più deleteria delle tradizioni italiane: il politicismo , la tendenza a costruire alleanze e aggregazioni prescindendo da accordi chiari sulle policies , sulle politiche di governo.
Il politicismo è una malattia tanto delle forze di governo che di quelle di opposizione. L'attuale maggioranza in difficoltà ha ripetutamente ricercato l'alleanza dell'Udc di Casini senza però mai chiarire che cosa tale nuova alleanza di governo avrebbe dovuto fare: per esempio, come potessero conciliarsi il federalismo di Bossi e l'antifederalismo di Casini.
Il maggior partito d'opposizione, il Partito democratico, per parte sua, fa esattamente la stessa cosa. Bersani decide una alleanza con Vendola e Di Pietro i cui contenuti (quali politiche farebbe una tale variopinta compagnia?) possiamo certamente immaginare, conoscendo i protagonisti, ma che non vengono comunque esplicitati. E Massimo D'Alema, nella sua intervista al Corriere (Dario Di Vico, 16 ottobre), non ha forse invitato Casini a una alleanza di cui farebbe parte anche Vendola dimenticandosi però di spiegare su che cosa Vendola e Casini, una volta messi insieme in un governo, potrebbero convergere o concordare?
È falso ciò che dicono i nemici del bipolarismo, ossia che queste forme di deteriore politicismo siano il frutto di un sistema bipolare mal funzionante. Il politicismo, infatti, è una tradizione che risale alla Prima Repubblica. All'epoca, in virtù della Guerra fredda, c'era un sistema politico bloccato. Il Pci, condannato all'opposizione perenne, si era specializzato nell'abbaiare alla luna e nel promettere agli elettori il paradiso in terra: tanto, non ci sarebbe mai stata alcuna verifica sulla sua capacità di mantenere le promesse. A loro volta, i partiti anticomunisti erano condannati a governare insieme. Non c'era bisogno di reali convergenze programmatiche, era sufficiente il possesso della tessera di appartenenza al «club occidentale». Era allora del tutto normale mettere insieme al governo il Diavolo e l'Acqua Santa, per esempio (e scusate l'ironia) Bettino Craxi e la sinistra democristiana.
Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate.
È questa, secondo me, la vera ragione per la quale tanti politici odiano il bipolarismo e guardano con nostalgia ai bei tempi in cui non c'era bisogno di render conto delle promesse fatte. È la combinazione fra bipolarismo e politicismo che spiega perché, dalle prime elezioni «bipolari» del 1994 fino ad oggi, chi vince le elezioni perde regolarmente le elezioni successive. Non c'è dunque speranza? Si continuerà anche in futuro con il vecchio andazzo: costruire alleanze fra i contrari, mettere insieme, per vincere, coalizioni ultra-eterogenee, sperando, una volta al governo, di sopravvivere il più possibile navigando a vista? Non è sicuro. Perché oggi le circostanze esterne sono diverse. A causa della crisi internazionale c'è ora sull'Italia, e promette di durare a lungo, una pressione internazionale fortissima. Le coalizioni eterogenee, condannate all'immobilismo a causa dei veti e contro-veti interni, diventano sempre più ingestibili. Ne sa qualcosa il governo Berlusconi che continua a rinviare il decreto sullo sviluppo a causa delle sue divisioni interne, e che proprio per questo rischia sempre più, ogni giorno che passa, il suicidio. La pressione esterna cambia le condizioni del gioco: il politicismo, anziché un atout , una opportunità, può diventare un rischio. È davvero molto interessante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo dentro il Partito democratico: esso si sta dilaniando fra posizioni, queste sì finalmente programmatiche, fra loro incompatibili: accettare o respingere le condizioni poste dalla Bce all'Italia in materia di privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, eccetera. Non sono quisquiglie. Coloro che, contro il responsabile economico del partito Stefano Fassina (e quindi anche contro il segretario Bersani), sostengono che il Pd dovrebbe sottoscrivere le tesi della Bce sanno benissimo che, ove accettata come linea ufficiale, la loro posizione renderebbe impossibile l'alleanza con la sinistra estrema di Vendola. Forse, alla fine, tutto si risolverà col solito politicismo, con un segretario che si colloca «al centro» pronto a dare un colpo al cerchio e uno alla botte (dando ragione a quelli che sostengono le tesi della Bce «ma anche» a quelli che le contrastano, agli amici della Cgil «ma anche» ai suoi nemici, eccetera). Ma si tratterebbe di un equilibrismo sempre più difficile da praticare: come spiegarlo alla Merkel e soprattutto ai mercati? Forse, proprio la gravità della crisi e la pressione internazionale potrebbero contribuire a rendere un po' più maturo il nostro bipolarismo. Maturità che arriverebbe se, anziché dare vita a grandi coalizioni politicamente eterogenee, i partiti che contano si orientassero verso «coalizioni minime vincenti»: sufficientemente grandi per vincere le elezioni e sufficientemente piccole per assicurare una certa coerenza programmatica. Ridotta all'osso questa mi sembra la vera posta in gioco nello scontro (anche generazionale) interno al Partito democratico. Si tratta della scelta fra una grande coalizione elettorale purchessia e una coalizione minima vincente.

Primi passi di Unione a più livelli, di Marta Dassù

E’ il primo summit europeo che si chiude per aprirne un secondo, mercoledì prossimo. Nei tre giorni che restano, Angela Merkel dovrà vendere a casa - alla Commissione bilancio del Bundestag - il pacchetto di salvataggio dell’euro. Al vertice di Bruxelles, l’approccio tedesco ha prevalso sui punti cruciali in agenda: l’unica Europa possibile sembra essere questa.

Un’Europa che dipende dalla politica interna della Germania: il Paese di centro, economicamente più forte ma con una leadership che ha le mani legate, quando è in ballo l’Europa, dal proprio Parlamento.

Nell’Europa tedesca che sta nascendo dalla crisi del debito, la Francia è solo in apparenza un partner «uguale». In realtà, Berlino pesa troppo e Parigi troppo poco per produrre un direttorio efficace. Gli altri hanno un ruolo minore (i nordici), sono azzoppati dal debito (i mediterranei), hanno ormai scelto di stare fuori da tutto ciò (la Gran Bretagna) o di aspettare (la Polonia). L’Europa tedesca nasce, in senso proprio, «by default»: non tanto il default parziale di un Paese periferico come la Grecia, ma l’evaporazione politica di una serie di altri attori europei tradizionali, Italia inclusa. Nel «Comitato di Francoforte» che ha preso il posto dei sei vecchi Paesi fondatori, le istituzioni comuni siedono a fianco di Merkozy, la coppia ineguale. Ma la Commissione di Bruxelles comincia a sembrare un segretariato tecnico, più che il potenziale governo dell’Unione; il Consiglio europeo riflette l'esistenza di questa gerarchia, di cui il futuro Mr. Euro non potrà che tenere conto; e la Bce resta in posizione ambigua. La Banca di Francoforte è intervenuta per tamponare la crisi del debito ma non può assumere il ruolo - come vorrebbe chi crede in un’Unione fiscale - di «prestatore di ultima istanza».

Questa fotografia (un po’ cruda, lo ammetto) dei rapporti di forza non elimina il punto sostanziale: l'Unione monetaria potrà superare la crisi attuale solo se i Paesi che la guidano oggi, la Germania anzitutto, aumenteranno il loro tasso di solidarietà (troppo basso, anche secondo le parole di un «grande vecchio» tedesco come Helmut Schmidt); e solo se i Paesi in debito aumenteranno il loro tasso di credibilità (riforme) e la loro disciplina di bilancio. Da questo punto di vista, il doppio vertice di questi giorni segna un progresso potenziale, almeno sulla carta. Perché, con le soluzioni analizzate altrove da Marco Zatterin (la ricapitalizzazione delle Banche, il potenziamento del Fondo Salva-Stati, la ristrutturazione del debito greco, gli impegni delle economie vulnerabili, fra cui l’Italia), il compromesso alla base dell’Unione monetaria - fra solidarietà e disciplina - riacquista un qualche senso. Sono decisioni che basteranno a calmare i mercati? La risposta onesta è: solo in parte e solo per un po’. Per una soluzione strutturale ci vorrebbe altro. Ci vorrebbe probabilmente un salto di qualità verso il coordinamento fiscale, di cui l’emissione congiunta di titoli europei (i famosi Eurobonds) sarebbe il primo passo. La realtà, tuttavia, è che le condizioni politiche per uno sviluppo del genere non esistono ancora; esiste anzi una notevole sfiducia reciproca, come ha dimostrato il brutto clima di Bruxelles. Per ora, incapaci di risposte strutturali in casa loro, gli europei stanno cercando rimedi fuori, fra cui nuovi crediti da parte dei Paesi ricchi di riserve finanziarie, come la Cina e gli emirati del Golfo. È una soluzione che ha dei costi politici (poco discussi) per l’Ue; ma che sono considerati inferiori, evidentemente, agli oneri economici di una soluzione propriamente europea.

C’è chi ritiene, guardando alle esitazioni tedesche degli ultimi mesi, che la Germania abbia in tasca in realtà un Piano B. Punti cioè alla creazione di un «piccolo» Euro del Nord, depurato dai debiti mediterranei. È una tesi diffusa ma non convincente: è vero che una parte dell’élite tedesca ha sempre avuto obiettivi del genere (li aveva già negli anni ‘90, prima del varo della moneta unica); ma è vero anche che i costi di una frattura dell’euro sarebbero, per la Germania stessa, molto superiori ai vantaggi. Angela Merkel ne è consapevole. Il suo progetto non è di disfare l’eurozona; è di rifarla a condizioni tedesche. Il che vuol dire, in sintesi estrema: senza troppi oneri per i propri contribuenti; e imponendo regole più rigide ai Paesi in debito, con sanzioni automatiche e nuovi poteri di intervento nelle politiche interne. L’erosione della sovranità nazionale in materia di bilancio sta diventando una delle conseguenze del debito sovrano, come l’Italia ha avuto modo di constatare ieri a Bruxelles: ciò significa che le riforme mancate, nell’Europa di oggi, hanno un prezzo politico crescente e non solo un prezzo economico.

Il Piano A della Germania è di ancorare questa Europa «alla maniera tedesca» ad una riforma ulteriore dei Trattati. La sola idea, visti i precedenti e data l’urgenza di oggi, sembra assurda. Ma rispecchia assai bene, oltre che i vincoli interni e costituzionali di Berlino, la conclusione che Angela Merkel ha tratto dalla crisi di Grecia e dintorni: regole più stringenti e molto più vincolanti sono necessarie, per evitare che l’Unione monetaria passi di crisi in crisi. D’accordo. Ma se il prezzo della cura del debito sarà un decennio di austerità, è probabile che l’Europa tedesca non si dimostri nel tempo sostenibile.

Se sopravviverà a una crisi finanziaria che è una specie di guerra moderna, l’Unione europea avrà un volto diverso. E magari il suo «Trattato di pace». In teoria, nascerà un’Europa a più livelli, con un cuore interno fondato sull’euro e su istituzioni in parte separate da quelle dell’Europa a 27. In un cerchio esterno, resteranno i Paesi membri del mercato unico ma non della moneta unica. Per i federalisti, un «nucleo duro» dell’euro può anche essere un’occasione. In una visione diversa, esiste il rischio che la creazione di un’Unione del genere - così differenziata al suo interno - finisca per danneggiare il mercato unico, ledendo così uno dei punti di forza dell’economia europea. È una discussione importante per il futuro del Vecchio Continente: peccato che dopo essere stata fra i fondatori dell’Europa del secolo scorso, l’Italia sembri più che altro un oggetto dell’Europa che si sta disegnando.



http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9356

Quella inutile lezione della Merkel e di Sarkozy, di Giuliano Ferrara


Angela Merkel e Nicolas Sarkozy meritano parole chiare e fredde. A nome dei loro paesi pretendono di guidare l’Unione europea e da due anni non sanno come fare. “Gestione disastrosa”, è il referto stilato dal capo dell’area euro Jean-Claude Juncker. La Germania è una grande economia motrice e la locomotiva ha sbuffato fino a ora, alla grande, con le esportazioni sulla sezione del mercato mondiale che tira. La Francia gode di infrastrutture ad alto livello e di un sistema decisionale gaullista. Ma Berlino da sola non ce la fa, e il suo sistema bancario è impaniato nella crisi del debito sovrano. Lo stesso vale per Parigi, che ha in più alle spalle una crescita patologica del debito pubblico ben oltre i parametri, goffi e cucitile su misura, di Maastricht, e nel presente soffre di un deficit troppo alto rispetto a quello dei partner e di una crisi finanziaria e bancaria di proporzioni più che rilevanti ( la fine ingloriosa di Dexia insegna, ma è solo un anticipo). Nessuno in Europa è in grado di dare lezioni ad alcuno dei Paesi fondatori.

Secondo il grande economista liberal Paul Krugman, un ebreo americano di genio al quale per qualche ragione è stato perfino comminato un premio Nobel, alla radice della crisi da debito, dell’altalena di sfiducia e speculazione in cui si dondolano i mercati finanziari, c’è il moralismo punitivo a sfondo calvinista che ha fatto dell’euro l’unica moneta al mondo priva di una banca centrale capace strutturalmente, non episodicamente, di fare la funzione delle banche centrali: il prestatore di ultima istanza. Aggiungiamo l’eco culturale della Repubblica di Weimar, l’idea apocalittica che il mostro inflazionista sia sempre in agguato, sempre sbuffante, sempre scalpitante dietro ogni angolo della storia, e che i bravi, gli operosi, i capaci, i parsimoniosi alla fine sono destinati a condividere la miseria comune con le cicale. Balle. L’inflazione si sta rivelando al momento un pericolo remoto, malgrado i potenti stimoli iniettati dagli americani nel circuito della liquidità dopo la crisi dei derivati e dell’immobiliare al quale erano collegati. E il debito, checché ne pensino economisti di valore ma a volte poco fantasiosi, come Alessandro Penati di Repubblica, si cura con la sua diluizione in altro debito, specie in emergenza, con la riduzione dei gradi di patrimonializzazione dell’economia, senza nuove tasse depressive, e con l’impiego delle risorse nella crescita economica a colpi di decise riforme liberalizzatrici e privatizzatrici.

Se questo è vero, e mi sembra difficile che una diagnosi convergente dei massimi economisti keynesiani e dei massimi economisti liberisti possa essere smentita da qualche improvvisato nuovo pensiero, Berlusconi è forse l’unico che possa dare, non dico lezioni, ma indicazioni puntute e responsabili ai suoi partner. Quale Berlusconi? Quello che non si lagna, che non si accoda, che non aspetta, che non scarica il barile, che non ha timidezze e complessi verso nessuno, il Berlusconi vero che non ha mai messo piede in Confindustria, che creava ricchezza e valore e mercato quando si accumulava il debito pubblico, e anche grazie al debito pubblico che ha reso ricco e forte (paradossalmente) questo Paese; quello che crede nella libertà delle aziende e delle persone e del lavoro, che ha promesso una storica rottura delle vecchie regole, sia quando è entrato in politica sia di recente, quando la crisi da debito prometteva sinistramente di diventare la boa intorno alla quale fare girare i soliti giochi di potere.

Se Berlusconi capisse,
 e mi sembra che sia sulla buona strada, quanto rapidamente può girare la ruota dell’intelligenza degli italiani, ché quella della fortuna è più volatile, e quanto converrebbe a lui stesso ma soprattutto al Paese una svolta dura, radicale, scandalosa e preziosa nella direzione di un’economia della libertà, quelle parole chiare, fredde, incisive, al summit europeo, e poi sempre, sistematicamente, in tv e nel Paese e nel circuito internazionale, si deciderebbe a tirarle fuori. Le parole da sole non bastano. Il debito lo onoriamo e siamo in grado di ridurlo con l’avanzo primario da primi della classe e il pareggio di bilancio, le nostre banche soffrono le conseguenze della solidarietà con il circuito impazzito del credito mondiale ma stanno meglio di quelle francesi e inglesi, il nostro patrimonio è immenso anche per ragioni patologiche, perché sebbene cattolici e dissipatori in realtà risparmiamo come ossessi e gli imprenditori attribuiscono dividendi spesso rinunciando a investire in ricerca e innovazione (ne tengano conto i giovani caprini di Confindustria riuniti senza i politici a far chiacchiere nell’isola bella).
Siamo in condizione di non subire alcun processo, come predicano per la gola i disfattisti troppo furbi alla Scalfari e alla De Benedetti, e possiamo dire la nostra a voce alta e con la testa all’in su. Basta che Berlusconi faccia il suo mestiere fino in fondo, sacrosante e serie riforme liberali, provvedimenti di finanza straordinaria capaci di foraggiare l’economia reale, insomma le cose stesse per cui fa politica da quasi vent’anni.
Giuliano Ferrara


http://www.ilfoglio.it/soloqui/10873
http://www.ilgiornale.it/interni/caos_politico_europeo_quella_inutile_lezione_della_merkel_e_sarkozy/merkel-sarkozy-ue/23-10-2011/articolo-id=553202-page=0-comments=1

Il laugh-in del Foglio, domani tutti a ridere davanti all'ambasciata di Francia

L'appuntamento alle 17 a piazza Farnese. Ci saranno Antonio Martino e Giuliano Ferrara


Domani martedì alle ore 17 in piazza Farnese, davanti all’Ambasciata di Francia, si terrà un “laugh-in”, cioè un sit-in scanzonato di allegra e serissima protesta contro la ridanciana pretesa di scaricare sull’Italia i guai di un governo direttoriale disastroso dell’area euro. Delle prodezze di Nicolas Sarkozy, alias Louis De Funès, parleranno con garbo e fermezza Antonio Martino e Giuliano Ferrara. La manifestazione è promossa dal quotidiano Il Foglio.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/10875

domenica 23 ottobre 2011

Il Tea Party si smarca dagli indignati, di Maurizio Molinari


Dai conservatori un duro attacco a “Occupy” “Gente poco istruita, vuole soltanto l'anarchia”
«Disoccupati, poco istruiti e male informati»: il Tea Party si scaglia contro i manifestanti di «Occupy Wall Street» insediati a Zuccotti Park, per sottolineare la loro differenza da un movimento di protesta che ha in realtà origini comuni a quello conservatore.

Le convergenze stanno nella denuncia del ricorso al denaro pubblico per salvare le istituzioni finanziarie responsabili del crack del 2008, nella contestazione delle scelte della Federal Reserve e nella volontà di dare voce alla rabbia di milioni di cittadini colpiti da recessione e disoccupazione. Non a caso, quando «Occupy Wall Street» ha messo le prime tende a Zuccotti Park, nei pressi di Ground Zero, c’erano anche dei militanti del Tea Party, al pari di alcuni seguaci di Ron Paul, il candidato repubblicano alla presidenza feroce avversario della Federal Reserve. Ma a sei settimane da allora, «Occupy Wall Street» è oramai un movimento di protesta dove a prevalere sono i temi dell’ala sinistra del partito democratico e dunque il Tea Party picchia duro.

«Sembrano essere in favore più dell’anarchia che della risoluzione dei problemi attraverso il rispetto della Costituzione» afferma Jenny Beth Martin, co-fondatrice dei «Tea Party Patriot», spiegando al «New York Times» che la differenza «sta nel fatto che noi abbiamo lavorato duro per richiamarci alle leggi esistenti mentre loro si battono per violarle, esprimendo mancanza di rispetto verso la nostra forma di governo».

Sono queste le motivazioni che hanno portato i «Tea Party Patriots» a diffondere un comunicato, in tutti i 50 Stati, intitolato «Occupy Wall Street non è il Tea Party», nel quale si afferma che «quando riescono a spiegare cosa vogliono, ciò che si comprende è l’intenzione di danneggiare l’America dando vita a un governo più invandente». Il «Daily Caller», uno dei fogli e siti web nei quali il Tea Party si riconosce, va oltre, accusando i militanti di Zuccotti Park di «aver ricevuto il sostegno del partito nazista americano» e di aver «esposto insegne ostili a Israele», spingendosi fino a «ingiurie contro gli ebrei di puro stampo antisemita».

Lu Busse, capo del Tea Party in Colorado, parla di «militanti di estrema sinistra che avevano fra i ranghi anche gente mortper overdose di cocaina» mentre Ed Morrissey su «The Week» scrive che «Occupy Wall Street vuole solo più burocrazia e spesa pubblica», ovvero l’esatto contrario del Tea Party.

Se questi sono alcuni dei motivi che hanno spinto gli iscritti al Tea Party che avevano partecipato ai sit in a Zuccotti Park ad andarsene, ciò che più distingue le due proteste è l’approccio alla riforma della Sanità promulgata da Obama perché, mentre gli ultraliberal vogliono rafforzarla, gli ultraconservatori puntano a cancellarla. A dispetto di tali divergenze c’è tuttavia chi, come Josh Eboch direttore del gruppo conservatore «Freedom Works», afferma che «restano importanti similitudini perché entrambi sono contro grandi corporation, banche e imprese salvate grazie all’intervento di politici che hanno sfruttato il denaro dei contribuenti».

Il duello a distanza fra gli opposti movimenti di protesta si profila come un tema della campagna presidenziale del 2012, anche se al momento nessuno dei due sembra godere del sostegno della maggioranza degli americani. Per un sondaggio Gallup-UsaToday «Occupy Wall Street» e Tea Party godono rispettivamente del 26% e 22% di sostegno, mentre coloro che si dicono «indifferenti» sono fra il 47% e 52%. «L’unica cosa certa - commenta il governatore del New Jersey, Chris Christie - è che dire a uno di questi due gruppi che assomiglia all’altro, significa rischiare grosso».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2230&ID_sezione=58