ALLEANZE E PROGRAMMI DIVERGENTI
Angela Merkel, nel suo colloquio con Giorgio Napolitano, ha chiesto, fra l'altro, chiarimenti sulle prospettive dell'Italia in caso di caduta del governo Berlusconi. Se andasse al governo, quali provvedimenti prenderebbe l'attuale opposizione? La domanda è sicuramente pertinente tenuto conto del grave stato di salute della maggioranza. Ma è destinata a rimanere priva di risposta.
Per capire come mai occorre fare un passo indietro, occorre ricostruire le ragioni di quella che è forse la più deleteria delle tradizioni italiane: il politicismo , la tendenza a costruire alleanze e aggregazioni prescindendo da accordi chiari sulle policies , sulle politiche di governo.
Il politicismo è una malattia tanto delle forze di governo che di quelle di opposizione. L'attuale maggioranza in difficoltà ha ripetutamente ricercato l'alleanza dell'Udc di Casini senza però mai chiarire che cosa tale nuova alleanza di governo avrebbe dovuto fare: per esempio, come potessero conciliarsi il federalismo di Bossi e l'antifederalismo di Casini.
Il maggior partito d'opposizione, il Partito democratico, per parte sua, fa esattamente la stessa cosa. Bersani decide una alleanza con Vendola e Di Pietro i cui contenuti (quali politiche farebbe una tale variopinta compagnia?) possiamo certamente immaginare, conoscendo i protagonisti, ma che non vengono comunque esplicitati. E Massimo D'Alema, nella sua intervista al Corriere (Dario Di Vico, 16 ottobre), non ha forse invitato Casini a una alleanza di cui farebbe parte anche Vendola dimenticandosi però di spiegare su che cosa Vendola e Casini, una volta messi insieme in un governo, potrebbero convergere o concordare?
È falso ciò che dicono i nemici del bipolarismo, ossia che queste forme di deteriore politicismo siano il frutto di un sistema bipolare mal funzionante. Il politicismo, infatti, è una tradizione che risale alla Prima Repubblica. All'epoca, in virtù della Guerra fredda, c'era un sistema politico bloccato. Il Pci, condannato all'opposizione perenne, si era specializzato nell'abbaiare alla luna e nel promettere agli elettori il paradiso in terra: tanto, non ci sarebbe mai stata alcuna verifica sulla sua capacità di mantenere le promesse. A loro volta, i partiti anticomunisti erano condannati a governare insieme. Non c'era bisogno di reali convergenze programmatiche, era sufficiente il possesso della tessera di appartenenza al «club occidentale». Era allora del tutto normale mettere insieme al governo il Diavolo e l'Acqua Santa, per esempio (e scusate l'ironia) Bettino Craxi e la sinistra democristiana.
Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate.
Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate.
È questa, secondo me, la vera ragione per la quale tanti politici odiano il bipolarismo e guardano con nostalgia ai bei tempi in cui non c'era bisogno di render conto delle promesse fatte. È la combinazione fra bipolarismo e politicismo che spiega perché, dalle prime elezioni «bipolari» del 1994 fino ad oggi, chi vince le elezioni perde regolarmente le elezioni successive. Non c'è dunque speranza? Si continuerà anche in futuro con il vecchio andazzo: costruire alleanze fra i contrari, mettere insieme, per vincere, coalizioni ultra-eterogenee, sperando, una volta al governo, di sopravvivere il più possibile navigando a vista? Non è sicuro. Perché oggi le circostanze esterne sono diverse. A causa della crisi internazionale c'è ora sull'Italia, e promette di durare a lungo, una pressione internazionale fortissima. Le coalizioni eterogenee, condannate all'immobilismo a causa dei veti e contro-veti interni, diventano sempre più ingestibili. Ne sa qualcosa il governo Berlusconi che continua a rinviare il decreto sullo sviluppo a causa delle sue divisioni interne, e che proprio per questo rischia sempre più, ogni giorno che passa, il suicidio. La pressione esterna cambia le condizioni del gioco: il politicismo, anziché un atout , una opportunità, può diventare un rischio. È davvero molto interessante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo dentro il Partito democratico: esso si sta dilaniando fra posizioni, queste sì finalmente programmatiche, fra loro incompatibili: accettare o respingere le condizioni poste dalla Bce all'Italia in materia di privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, eccetera. Non sono quisquiglie. Coloro che, contro il responsabile economico del partito Stefano Fassina (e quindi anche contro il segretario Bersani), sostengono che il Pd dovrebbe sottoscrivere le tesi della Bce sanno benissimo che, ove accettata come linea ufficiale, la loro posizione renderebbe impossibile l'alleanza con la sinistra estrema di Vendola. Forse, alla fine, tutto si risolverà col solito politicismo, con un segretario che si colloca «al centro» pronto a dare un colpo al cerchio e uno alla botte (dando ragione a quelli che sostengono le tesi della Bce «ma anche» a quelli che le contrastano, agli amici della Cgil «ma anche» ai suoi nemici, eccetera). Ma si tratterebbe di un equilibrismo sempre più difficile da praticare: come spiegarlo alla Merkel e soprattutto ai mercati? Forse, proprio la gravità della crisi e la pressione internazionale potrebbero contribuire a rendere un po' più maturo il nostro bipolarismo. Maturità che arriverebbe se, anziché dare vita a grandi coalizioni politicamente eterogenee, i partiti che contano si orientassero verso «coalizioni minime vincenti»: sufficientemente grandi per vincere le elezioni e sufficientemente piccole per assicurare una certa coerenza programmatica. Ridotta all'osso questa mi sembra la vera posta in gioco nello scontro (anche generazionale) interno al Partito democratico. Si tratta della scelta fra una grande coalizione elettorale purchessia e una coalizione minima vincente.
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