lunedì 31 ottobre 2011

Riforme, l'opposizione è un bluff, di Luca Ricolfi

C’è un fatto nuovo, e a suo modo positivo, nel quadro politico degli ultimi giorni: la lettera di Berlusconi all’Europa. Non perché quella lettera, tanto prodiga di buone intenzioni quanto avara di impegni precisi, rappresenti una garanzia per il futuro dell’Italia. Ma per la ragione opposta, e cioè che - benché quella lettera sia rimasta piuttosto sul vago - è stata sufficiente a dissolvere il bluff su cui si è retta la politica italiana negli ultimi 90 giorni.
Quale bluff?

Fondamentalmente il bluff con cui un po’ tutti - sindacati, Confindustria, opposizione - hanno finto che il problema fosse solo l’inerzia del governo, e che invece le cosiddette parti sociali fossero perfettamente consapevoli della gravità della situazione, dell’urgenza di intervenire, della strada da imboccare, delle misure da prendere. Erano così sicure, le parti sociali, di essere la parte sana e modernizzatrice del Paese, che il 4 agosto avevano firmato un «documento comune» in cui davano le loro dritte al governo, sintetizzate in sei «priorità sulle quali operare immediatamente».

Dritte molto generiche anche quelle, ma apparentemente concordi. Ma era un bluff: non appena il governo, incalzato dall’Europa, ha timidamente manifestato l’intenzione di agire su alcuni di quegli stessi nodi che le parti sociali avevano imprudentemente evocato - «modernizzare il sistema di Welfare», «liberalizzazioni», «mercato del lavoro» - sono esplosi i conflitti sia fra le parti sociali sia dentro l’opposizione. Sulla ancora vaga idea di ritoccare le regole del mercato del lavoro sindacati e Confindustria si sono ritrovati immediatamente su sponde opposte, con la Marcegaglia (presidente di Confindustria) che approva le intenzioni del governo e la Camusso (segretario della Cgil) che annuncia uno sciopero prima ancora di conoscere il contenuto delle norme che il governo si appresterebbe a varare. Per non parlare del tema delle pensioni, che non ha scatenato un putiferio solo perché la Lega si è incaricata di bloccare tutto, mostrandosi in questo assai più capace di tutelare gli interessi dei già garantiti di quanto ormai lo siano i sindacati confederali e i Cobas.

Quanto all’opposizione, lo spettacolo che sta dando in questi giorni è desolante, almeno per chi si augurerebbe che - prima della fine del terzo millennio - si trovasse una qualche alternativa al governo Berlusconi. Sia le misure sulle pensioni di anzianità, sia le timidissime proposte per rendere più flessibile il mercato del lavoro, spaccano inesorabilmente la sinistra in due blocchi: una maggioranza conservatrice che si oppone a qualsiasi ridimensionamento dei diritti acquisiti, e una minoranza modernizzatrice che quando va bene si prende «solo» gli insulti dei benpensanti del Pd (vedi il trattamento riservato al sindaco di Firenze Matteo Renzi, subito bollato come uomo «di destra»), e quando va male deve girare con la scorta, come continua purtroppo a succedere ai giuslavoristi che si occupano di mercato del lavoro da posizioni riformiste.

Ecco perché dicevo, all’inizio, che la lettera di Berlusconi all’Europa è stata, per certi versi, un fatto positivo. Positivo perché chiarificatore, come una cartina di tornasole. Quella lettera ha chiarito, per chi coltivasse ancora qualche timida speranza, che il governo non è in grado di assumere impegni precisi né di varare misure coraggiose. Che le parti sociali, appena si scende nei dettagli, sono divise. E che l’opposizione, se mai andasse al governo, varerebbe misure ancora meno incisive di quelle già blande dell’attuale governo, oppure sarebbe paralizzata dai litigi interni, come ai tempi dell’ultimo esecutivo Prodi (2006-2008).

E allora diciamolo con chiarezza: il governo è uscito rafforzato dalle vicende della scorsa settimana, e probabilmente anche da quelle dell’ultimo mese. Perché più diventa evidente che il governo non è all’altezza della situazione, più diventa evidente che non lo è neppure l’opposizione, e che la concordia fra le parti sociali è solo di matrice assistenziale.

Il nucleo forte del «documento comune» è il consueto ritornello delle misure per la crescita, ma la sostanza di tali misure invariabilmente si rivela essere la richiesta di più risorse pubbliche: pagamenti più veloci, sblocco di stanziamenti già deliberati, fondi per il mezzogiorno, «sostegno ai processi di ricerca e di innovazione». Tutte richieste giustissime, che tuttavia non si accompagnano mai ad una vera, concreta, disponibilità a fare la propria parte, al di là del retorico appello al senso di responsabilità di tutti. Provate a leggerlo, il documento del 4 agosto sottoscritto dalle parti sociali: non vi troverete una sola parola sulle pensioni di anzianità, sui licenziamenti, sul precariato giovanile, sulla pioggia di incentivi di cui beneficiano le imprese. Tutte materie su cui si preferisce tacere, perché parlarne significherebbe assumersi delle responsabilità per davvero, e non solo a parole.

E a proposito di parole, mi vengono in mente quelle famose del presidente John Fitzgerald Kennedy nel 1961: «Non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese». Ecco, forse è proprio questo che manca all’Italia, e non solo al suo sciagurato governo: la consapevolezza che per chiedere bisogna anche dare, per costruire bisogna anche rischiare, e che è troppo facile fare fronte comune limitandosi a sommare le rispettive rivendicazioni. No, finché parleremo solo di quello che siamo intenzionati a pretendere, omettendo di dire quali rinunce siamo disposti a fare, non ne verremo mai fuori. Né con questo governo, né con qualsiasi altro.



http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9381

Nessun commento: