domenica 2 ottobre 2011

Il romanzo di Giulio Tremonti, un genio senz'ali, di Salvatore Merlo

Così il ministro dell'Economia ha innalzato un monumento di superbia che può diventare la sua tomba politica
Silvio Berlusconi non è uno che licenzia con facilità. “Quasi tutti i meridionali, quando sono stanchi della moglie, tentano di farsi lasciare”, dice il senatore Andrea Augello, che nella politica porta ironia e sensibilità letteraria. E forse ha ragione. Per rimuovere, persino quando ne ha le tasche piene, il Cavaliere promuove, disloca, semmai accetta con affettata riluttanza di sacrificare qualcuno, ma solo perché inevitabile, come nel 2004, quando fu Gianfranco Fini a far rotolare la testa di Giulio Tremonti sul patibolo della stabilità del governo: “O me o lui”.
Così adesso Tremonti forse sceglierà di dimettersi (ma dicono di no), o forse Angelino Alfano troverà l’ispirazione e si farà (come Fini) tremonticida. Altrimenti il ministro dell’Economia rimarrà lì dov’è, per niente amato, ancora irriso dai colleghi di governo per le sue stranezze caratteriali, sempre mal sopportato dal Cavaliere che mai gli darà quel ben servito che pure abita i suoi sogni più dolci. Per temperamento, per equivoco sulla natura della politica, per cinismo ludico, Berlusconi ritiene che lasciar trascorrere il tempo equivalga a “guadagnare tempo”, e guadagnare è ovviamente un verbo che a lui piace: l’unica cosa che conta è durare. “Completeremo la legislatura”, ripete ogni qual volta i guai sembrano sommergerlo, anche nel caso di Tremonti.
E dunque se per durare dovrà tenersi il ministro presuntuoso, lo terrà, pur considerandolo intercambiabile con Vittorio Grilli o Renato Brunetta, pur ritenendolo “insopportabile” o peggio, come gli è scappato di dire, “un incubo”. In fondo il centrodestra a trazione leghista ha la sua dose di napoletanità (il Cav. dice di essere “un napoletano nato a Milano”), e dunque, come in una commedia di Eduardo, come in casa Cupiello, anche a casa Berlusconi vale la regola “facite ammuina”. E infatti ieri lo hanno difeso tutti, Tremonti: Gasparri, Alemanno, Mussolini, Quagliariello. Solo la sorella del ministro, Angiola, dalle frequenze di Radio2, ospite di “Un giorno da Pecora”, ha squarciato il cielo di carta: “Io direi a Giulio sinceramente di mandare tutti al diavolo”.
Non c’è spirito di vendetta nel governo e nel partito del Cavaliere, ma sorrisetti, battutine, braccia che si spalancano per lo stupore. Parlando di Giulio Tremonti, in queste ore, nel Pdl, per lo più ci si spiega a gesti: la punta del dito indice che batte sulla tempia. Fabrizio Cicchitto, che divide il mondo in “uomini” e “teste di cazzo”, alla domanda su Tremonti non risponde. Ma forse dal sorriso, muto e sornione, si può intuire cosa pensi il capogruppo del Pdl. “Testa di cazzo” per lui vuol dire tutto, cattivo o sleale o nemico, magari soltanto antipatico o arrogante. “E’ chiaramente nevrotico, altrimenti come spiegare il suo indefesso impegno nel risultare odioso a chiunque”, dice Antonio Martino. E bisogna proprio immaginarsela l’espressione di Paolo Romani e Renato Brunetta quando giovedì hanno varcato la soglia del Consiglio dei ministri, a Palazzo Chigi, scoprendo, prima con meraviglia, poi con irritazione incontenibile, che Tremonti, prima di partire per l’America, aveva fatto i compiti per tutti: il documento economico già pronto sul tavolo del governo, solo da firmare; due volumoni rilegati, a colori e su carta patinata. “E noi che ci stiamo a fare qui?”. Pare che Brunetta abbia avuto la tentazione improvvisa di scagliare fuori dalla finestra uno dei due tomi. Alla fine, come al solito, è stato Gianni Letta a calmare tutti: “Non facciamone un caso politico, non un altro”. E il gran ciambellano del berlusconismo si riferiva al voto su Marco Milanese, concluso poche ore prima, Tremonti assente alla Camera malgrado gli fosse stato chiesto di esserci, e il malumore, il borbottio offeso dei peones: si erano mobilitati in gran massa per essere tutti presenti, qualcuno, come l’onorevole Luciano Rossi, ha rinunciato persino al matrimonio della figlia. “E dire che votavamo anche per salvare Tremonti”, dice Daniela Santanchè. Mentre l’ex ministro Martino, che nel cinismo della politica riconosce anche delle dinamiche umane, si abbandona a un paradosso di inquietante verosimiglianza: “A dire la verità, non presentandosi, Tremonti lo ha salvato Milanese. I franchi tiratori sarebbero raddopiati solo per vedere l’effetto che la sconfitta avrebbe fatto sulla sua faccia. Non ha amici Tremonti”.
Ecco come si spiega la tremonteide. Il ministro dell’Economia, che fu super e fu genio, diventa un caso politico perché (prima) è un caso umano: Tremonti esplode sul suo cattivo carattere prima di scivolare sulla sua cattiva (ma non sempre) politica, inciampa nei fili dei telefoni sbattuti in faccia agli interlocutori, sugli appuntamenti saltati, sugli sfoghi tipo “io con quello non ci parlo”, sul “cretino” scagliato in faccia a Brunetta, sul nomignolo di “nonnetto” affibbiato al Cavaliere, sull’arroganza del primo giorno di scuola a Palazzo Chigi: “Cari colleghi vi ricordo che in questo governo non ci sono ministri con il portafoglio e ministri senza portafoglio. Siete tutti senza portafoglio”. Gianni Alemanno ha definito lo studio di Tremonti al ministero “una sala di torture”, Andrea Augello, sottosegretario alla Funzione pubblica, ha paragonato il ministro al capitano William Bligh, quello degli ammutinati del Bounty. E’ sin dall’inizio della legislatura che il temperamento tremontiano ha trasceso la normale dialettica tra i ministri che battono cassa e il titolare dell’Economia che deve dire di no. “I ministri del Tesoro simpatici lasciano debiti”, ha detto una volta Giorgio La Malfa; eppure in Tremonti c’è qualcosa di più. Un’antipatia la più completa ed evoluta del momento, niente a che vedere con la rovinosa spavalderia di Massimo D’Alema, al narcisismo e alla tigna Tremonti somma estrema suscettibilità, pignoleria, gusto per il paradosso culturale: è il più prolifico scrittore di smentite, messe a punto e precisazioni ai giornali, innumerevoli e fulminanti provocazioni a base di “paralogismi”, “asimmetrie”, Aristotele, Kant e Leopardi… E che impressione fa? “Si parla addosso, ostenta superiorità intellettuale”, ha detto una volta Paolo Romani, che di professione è ministro dello Sviluppo, l’incarico che fu di quel Claudio Scajola che di Tremonti nel governo è stato a lungo “il nemico” per antonomasia. Ma se per Scajola Tremonti è stato “il mio nemico”, Tremonti in realtà non ha mai voluto concedergli nemmeno l’onore dell’inimicizia, come ha confessato lui stesso qualche tempo fa a un giornalista ritenuto affidabile: “Ogni grande uomo politico deve scegliersi un nemico. Il mio è Mario Draghi”. Draghi è per Tremonti quello che un tempo è stato Vincenzo Visco, quando l’uno era l’uomo delle partite Iva e l’altro il ministro del giacobinismo etico. Si sono odiati cordialmente, neppure si salutavano, l’uno l’opposto dell’altro. In privato Visco chiamava Tremonti “quel lestofante” e Tremonti ha detto di lui: “Mettergli in mano il fisco è come affidare l’Avis a Dracula”. Ecco, con Draghi è la stessa cosa: è in antipatia a Draghi che Tremonti sponsorizza inutilmente Vittorio Grilli (che invece potrebbe finire ministro del Tesoro al posto suo) per l’incarico di governatore della Banca d’Italia. A Berlusconi dice: “Grilli sarebbe un contrafforte per il governo contro il commissariamento europeo degli amici di Draghi”. Ma il Cavaliere, quando lo desidera, è sordo, così, al contrario, quando vuole fare arrabbiare Tremonti gli dice: “Giulio ascoltami, su questo è d’accordo anche Draghi”.
Se la ciambella gli fosse riuscita con il buco, il che raramente succede nel sistema italiano quando non si sia esperti, sì, ma soprattutto di politica, Tremonti avrebbe fatto vedere a tutti i sorci verdi. Di lui si è detto di tutto: animatore di un polo laico e socialista, fondatore di un “vero partito del nord”, sindaco di Milano, successore di Umberto Bossi, leader alternativo di un Pdl deberlusconizzato. Poi invece è nato Angelino Alfano (e lui si è offeso), il Cavaliere, dopo essersi liberato di Gianfranco Fini, ha vestito della toga di Delfino il suo ex segretario (quello cui chiedeva “per cortesia” le fotocopie), mentre per Tremonti “il genio dell’Economia” non c’è stata più storia ma solo la casa di via Campo Marzio pagata più o meno a sua insaputa da Marco Milanese. Come quando è declinata anche l’ambizione di padanizzarsi definitivamente, e in quel caso toccò a Roberto Maroni – che non lo ama affatto – chiarire che “per noi Tremonti è il primo degli amici e l’ultimo dei leghisti”. Così il superministro, che concentra su di sé il Tesoro, il Bilancio e le Finanze, l’uomo che telefonava ai giornalisti per segnalare compiaciuto che Tony Blair lo aveva definito “il più colto tra i ministri economici d’Europa”, è finito con l’affilare perfidie, ma non ha fatto la rivoluzione promessa già nel 2001. Guido Crosetto, un gigante buono che fa il deputato e il sottosegretario, pensa che le proposte economiche di Tremonti “andrebbero analizzate da uno psichiatra” ed è – manco a dirlo – un sentimento diffuso nel Pdl. Questa estate Crosetto, assieme ad Antonio Martino, si sa, ha animato una violentissima fronda sviluppista e liberale contro il ministro che un tempo fece sognare ogni possessore di buon reddito e l’intera massa dei padroncini veneti, il ministro nel cui nome furono innalzati capannoni anziché cattedrali, insomma, colui che segnò e incarnò e predicò il tempo felice del sogno delle partite Iva al potere intestandosi la Tremonti bis. Un ministro che invece, negli anni, talvolta persino da un mese all’altro, ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento e riadattamento. A seconda del meteo politico. Antipapista scoprì il fascino delle encicliche di Papa Ratzinger, socialista e poi liberista, Tremonti ha inventato, da uomo di fantasia e da letterato del tributarismo chic qual è, una parola spregiativa per ribattezzare il liberismo: mercatismo. Dopo aver a lungo sostenuto che tutto dipendesse dal bilancio, e che ci volevano flemma e tagli (e tasse), resistendo persino agli slanci del Cavaliere cui “sanguinava il cuore”, impermeabile alle campagne sviluppiste anche di questo giornale, ha di recente dichiarato, tra una citazione di Bismarck e “una supercazzola” (copyright Claudio Scajola) che “servono le grandi opere, un piano per lo sviluppo”. Ma mai darlo per finito, Tremonti. Augello lo ha paragonato al capitano del Bounty, l’odiosoBligh che, lasciato alla deriva senza bussola e con un sestante rotto, coprì 6.700 chilometri, tornò in Inghilterra e fece impiccare i suoi nemici.

Nessun commento: