giovedì 20 dicembre 2012

Il vizio che non perdiamo, di Daniele Manca

Ma che Italia esce dalla sua legge più importante, quella di Stabilità? E soprattutto perché ancora una volta la politica, la sua massima espressione che è il Parlamento, deve offrire l'immagine di un Paese dove si tenta di cogliere l'ultima possibilità per favorire i propri referenti, lobby o anche soltanto persone che sono state o saranno utili?

Non ha esagerato chi ha parlato di vergogna per quell'emendamento sul gioco d'azzardo che è passato nella notte tra lunedì e martedì. Due senatori del Pdl, Gilberto Tommaso Pichetto Fratin e Anna Cinzia Bonfrisco, sono riusciti, di fatto, a far passare la possibilità di mettere a gara da subito le concessioni per il gioco d'azzardo in mille circoli in Italia.
È chiaro che assieme a norme «sconcertanti» come quelle sul poker live (la definizione è del ministro della Salute, Renato Balduzzi) ce ne saranno altre che, prese una per una, isolate dal contesto, appariranno come dovute e senza alcun fine, se non quello di intervenire su situazioni difficili. Ma a scorrere le 16 pagine che contengono gli emendamenti approvati in questi ultimi giorni al Senato non si può che restare attoniti di fronte all'elenco di norme e codicilli.
Si tratta di misure che rappresentano lo spaccato di un'Italia costretta ad arrangiarsi. Di una politica capace di salvaguardare se stessa (vedi il rinvio del riordino delle Province); e, quando va bene, di rattoppare situazioni complicate, o elargire semplicemente mance, piuttosto che varare seri e meditati provvedimenti.

Norme comprensibili come i finanziamenti per risarcire i familiari delle vittime di un disastro aereo del 1977, la sospensione del pagamento di cartelle esattoriali per la popolazione che ha subito un terremoto nel 2009, si accompagnano a un altro lungo elenco: si va dall'abolizione dell'obbligo di usare gomme da neve a una serie di spese le più disparate. Ancora elencando, 10 milioni in tre anni per la revisione delle tariffe massime per le prestazioni di assistenza termale, 30 milioni in due anni per la statale Tirreno-Adriatica, altri 20, sempre in due anni, per il dissesto idrogeologico dell'Abruzzo.
Una teoria di misure, in qualche caso micro, più spesso per decine di milioni. Provvedimenti allegati a una legge di Stabilità che dovrebbe indicare e dare attuazione agli obiettivi programmatici del governo. E che invece mostra il vizio irrisolto del nostro Paese di non riuscire a darsi delle regole e a seguirle.
Ancora una volta ci troviamo a dover parlare di assalto alla diligenza. Guarda caso infatti le misure dell'ultima ora sono in un'unica direzione: quella della spesa. L'esatto contrario di quanto sta facendo ogni famiglia italiana da qualche anno a questa parte: risparmiare.

Chissà a quanti comizi assisteremo, di deputati e senatori che si lamenteranno del peso eccessivo delle tasse, quasi che le misure che hanno approvato e approveranno in queste ore non fossero tutte nel segno di maggiori uscite. Da ripianare come? Con l'unica leva a disposizione di uno Stato incapace di ridurre le spese: tassare ancora. E suona come beffa, dopo l'esperienza dell'Imu, la possibilità data alle Regioni di aumentare l'aliquota Irpef. Nonostante tutto questo l'assalto c'è stato. Facendo finta di dimenticare che le casse della diligenza da tempo sono vuote.

domenica 16 dicembre 2012

Europe’s Debt-Relief Calculus, by Andres Velasco


Europe has long been menaced by the threat of two crises. The first would erupt with a successful speculative attack on a large eurozone country’s bonds, immediately jeopardizing the single currency’s survival. European Central Bank President Mario Draghi’s vow to do “whatever it takes” to prevent a sovereign default in the eurozone seems to have diminished that danger – at least for now.
This illustration is by Paul Lachine and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
The other looming danger is a growth crisis – a threat that has become increasingly serious. The ECB’s most recent macroeconomic forecast, which cut expected GDP growth for both 2012 and 2013, makes the threat all too clear: The eurozone will certainly contract this year, and grow by just 0.3%, at best, next year.
Europe persistently undershoots its growth targets because European policymakers persistently underestimate fiscal multipliers, pursuing austerity instead. And slower growth means lower revenues, which imply larger deficits and heavier debt burdens – at which point, as Wolfgang Munchau of the Financial Times and others have stressed, the entire belt-tightening exercise begins to look self-defeating.
This is all pretty worrisome. But things could get worse. The problem is not just that slow growth is driving up debt levels. It is also increasingly plausible that the debt overhang is itself becoming the cause of slow growth.
Few people want to go down that route, because it leads directly to the question of debt forgiveness. But the issue can no longer be ignored – and not just in the case of Greece.
The concept of a debt overhang has been around forever, but it became prominent during the Latin American debt crisis of the 1980’s. Like many aspects of that crisis, it is applicable to Europe’s situation today.
A debt overhang exists when a country’s debt is large enough that the benefits of adjustment and growth go entirely to the creditors. As the Nobel laureate economist Paul Krugman pointed out a quarter-century ago, a country in this situation will be unwilling to undertake additional painful adjustment, because it gets nothing in return. And, because the proceeds of any new investment will be taxed away to service existing obligations, the debt overhang discourages private investment and growth.
If the disincentive is large enough, then a larger debt burden may cause the country’s repayment capacity to fall. This gives rise to a debt-relief Laffer curve. For low levels of debt, increasing the debt burden increases the flow of payments that creditors get; but this relationship is reversed once the debt volume crosses a certain threshold. Reducing the face value of the debt is good not just for debtor countries on the “wrong side” of the curve; it is also good for creditors, who stand to get more of their money back.
But, while this neat theoretical construct clarifies the problem, figuring out where a country lies on its debt-relief Laffer curve is no easy matter. Many doctoral dissertations were written on this issue during the Latin American debt crisis of the 1980’s.
In retrospect, two things seem clear. First, Latin American countries did not start growing again until debt had been substantially reduced through a series of initiatives – the most important being the Brady Plan of 1989, under which Latin American countries enacted reforms in exchange for debt relief. Second, creditors who stayed in – by swapping old obligations either for new Brady bonds or for local equity – typically did very well.
Skeptics will reply that Europe is not Latin America, and that the interest rates levied on European governments today are much lower than what Argentina or Mexico had to pay back then. Perhaps. But many European countries are more indebted than their Latin American counterparts were.
France’s public debt is 90% of GDP and rising, and five European countries’ debt/GDP ratios are above 100%. Latin American countries had to seek debt reduction when their debt burdens were smaller. And the recent spike in the interest-rate spread on Italian government bonds should remind optimists that, with sovereign debt so high, many things can go wrong at any time.
More and more Europeans are coming around to the view that Greece needs to have its debt cut yet again, and that this time official claims on Greece should be cut as well. But few Europeans today believe that Italy, Spain or Portugal, much less France, will need debt reduction. Give them time. It was not so long ago that few Europeans could imagine a euro crisis.

http://www.project-syndicate.org/commentary/brady-bonds-to-eliminate-europe-s-debt-overhang-by-andres-velasco

“Il Fiscal compact è nullo, il governo lo certifichi”. Parla Guarino, di Marco Valerio Lo Prete


Dopo Monti la priorità è quella di archiviare un trattato illegale che strangola l’economia, dice l’ex ministro

Esistono ragioni politiche, economiche e culturali per rifiutare la dottrina dell’austerityche si è imposta in Europa, ma prim’ancora c’è una motivazione giuridica che dovrebbe obbligare il governo italiano – questo in carica e soprattutto quello che gli succederà – a liberarsi dagli attuali vincoli che gravano sulla politica di bilancio. A meno di non voler continuare ad “attentare alla Costituzione dell’Unione europea”. La tesi è di Giuseppe Guarino, giurista classe 1922, uno dei primi professori ordinari di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, che all’Università di Sassari ebbe come assistente Francesco Cossiga, poi a Roma esaminò Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. Guarino è stato inoltre amministratore e sindaco di società e istituzioni pubbliche, deputato con la Democrazia cristiana nella decima legislatura (1987-1992), quindi ministro delle Finanze nel quinto governo Fanfani (1987) e infine dell’Industria nel governo Amato tra 1992 e 1993. “Oggi però il mio atteggiamento è quello del medico”, esordisce in questa conversazione con il Foglio. E lo ripete spesso: “Sono come un medico, e mi limito a esporre la diagnosi, non voglio consigliare ricette. Il problema è che in troppi, anche tra i miei amici e colleghi, nemmeno mi contraddicono. L’atteggiamento è quello dei pazienti che non vogliono sentirsi dire la verità dal loro dottore”.
Il malato, in questo caso, è l’Europa intera. Guarino non lancia allarmi generici sulla disoccupazione o sul disagio sociale, piuttosto da mesi esamina il paziente e raccoglie tutti i risultati degli esami in alcuni faldoni, sempre a portata di mano: “Guardi qui – dice indicando una tabella che ha appena fatto stampare – Nel quarantennio che va dal 1950 al 1991, la media del tasso di crescita del pil è stata del 3,86 per cento in Francia, del 4,05 in Germania, del 4,36 in Italia. Le percentuali, dopo i primi sei anni del trattato dell’Unione europea, sono invece impietose: la Francia scese all’1,7 per cento, la Germania all’1,4 e l’Italia passò all’ultimo posto. I dati che vanno dal 1999 al 2011 sono addirittura drammatici: la media per i tredici anni dell’euro è diminuita per la Francia all’1,61 per cento, per la Germania all’1,32, per l’Italia allo 0,68. Un crollo verticale”.
La causa della patologia, secondo Guarino, va ricercata nella disciplina giuridica dell’Eurozona e dell’Ue. In particolare, “non esiste precedente storico di stati che, per perseguire obiettivi di crescita, si siano rigidamente vincolati al rispetto della parità di bilancio”. Vincoli – è questo l’aspetto più originale del ragionamento di Guarino – imposti illegalmente. Incluso il Fiscal compact firmato lo scorso marzo e negoziato nel dicembre 2011, cioè nel momento di massima tensione sui mercati per le sorti dell’Europa. “Prendiamo l’articolo 3 del Fiscal compact – dice il giurista sollevando un sottile fascicolo già pronto sul tavolo della sua dimora romana – E’ qui che si introduce l’obbligo per gli stati di mantenere ‘la posizione di bilancio della pubblica amministrazione (…) in pareggio o in avanzo’”. Norma draconiana, non c’è che dire. “Inapplicabile, piuttosto. All’articolo 2 del Fiscal compact, infatti, si ripete per due volte che questo accordo internazionale dev’essere interpretato e applicato soltanto finché compatibile ‘con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea’”. Tuttavia i trattati costitutivi dell’Unione non restringono a tal punto la possibilità di indebitarsi dei paesi membri. Il Trattato di Lisbona, documento fondamentale dell’Ue che è entrato in vigore nel 2009 “fondendo” il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, “fissa al 3 per cento il limite che l’indebitamento non può superare – ricorda Guarino – Il Fiscal compact, invece, riduce il limite a zero punti. Insomma il Fiscal compact sopprime la sovranità fiscale degli stati firmatari, in violazione del Trattato di Lisbona al quale pure si richiama. E’ probabile che il Fiscal compact sia stato una scorciatoia, visto che l’unanimità tra i 27 paesi membri necessaria a modificare il Trattato di Lisbona non sarebbe mai stata raggiunta. Fatto sta che questo trattato rimane illegale. Non ha la forza costituzionale per modificare il Trattato di Lisbona”. Non soltanto il riferimento ai trattati, anche quello al “diritto dell’Unione europea” contenuto nel Fiscal compact pare fuori bersaglio, visto che l’azzeramento del deficit non è previsto dal regolamento 1175 del 2011, vigente tuttora in materia di politica di bilancio. Gli stati europei, dunque, da qualche mese si stanno infliggendo più rigore fiscale – a colpi di azzeramento dei deficit e rientro dei debiti pubblici – di quanto il diritto comunitario ne preveda.
D’altronde non è la prima volta che “l’euro è gestito applicando principi privi di base giuridica certa”. Fino al 6 dicembre 2011, giorno d’entrata in vigore dell’attuale Regolamento numero 1175, infatti, Guarino ricorda che era già stato applicato un altro regolamento “viziato da incompetenza assoluta”, il numero 1466 del 1997. Nel 1997, mentre si concludeva la fase transitoria che avrebbe dovuto rendere più omogenee tra loro le economie dell’Eurozona in vista dell’introduzione della moneta unica, “la Commissione si arbitrò di sostituire l’articolo 104 C del trattato dell’Unione europea con due regolamenti, uno dei quali è appunto il 1466/97”. In sintesi: il parametro dell’indebitamento al 3 per cento – uno dei famosi “parametri di Maastricht” – veniva sostituito “con il parametro dello zero per cento, cioè il pareggio di bilancio, togliendo invece rilevanza al parametro del rapporto debito/pil al 60 per cento”. Guarino ammette: “Studiando la materia, sono rimasto sorpreso anch’io. Mi sono accorto di questo regolamento soltanto ora. I ministri della Repubblica italiana continuavano a parlare di ‘parametri di Maastricht’, in realtà operavano ottemperando a vincoli ancora più stringenti”.
Il professore rilegge ancora una volta, con un sorriso incredulo, l’articolo 2 del regolamento 1466/97 che stabilisce l’obbligo di raggiungere a medio termine un saldo del bilancio della Pubblica amministrazione “prossimo al pareggio o in attivo”. Fu un “attentato alla Costituzione europea”, spiega, ad opera di membri della stessa Commissione Ue. (E in quella Commissione – ma questo Guarino non lo dice – erano presenti due italiani, Mario Monti alla Concorrenza, ed Emma Bonino responsabile per la Politica dei consumatori, della pesca e degli aiuti umanitari). La motivazione di quella mossa? E’ probabile che quel regolamento dovesse servire come pungolo per gli stati meno rigorosi: “La sua adozione fu proposta in anticipo rispetto alla fine del periodo di ‘convergenza’ per accedere all’euro. Quindi gli stati che temevano di non superare lo scrutinio, se non avessero accettato questo ulteriore restringimento dei bulloni sulla loro politica fiscale, avrebbero dato segno di debolezza. Si trattò perciò di consensi formalmente volontari ma sostanzialmente coatti”. Lo schema, insomma, è simile a quello che si ripete oggi con il Fiscal compact. Nel 1997 fu un regolamento ad avere la pretesa di correggere le norme di un trattato che pure era legalmente sovraordinato, con la Commissione che si arrogò di inserire l’obiettivo del bilancio in pareggio o in attivo. Nel 2012 è stato firmato il Fiscal compact che, sul rigore di bilancio, ha tradito le norme vigenti del Trattato di Lisbona e quelle appena stabilite nel Regolamento 1175/2011.
Forse oggi anche la Germania, all’apice della crisi dell’euro, ha ottenuto consensi“formalmente volontari ma sostanzialmente coatti” attorno a una politica di bilancio che avvantaggia Berlino? D’altronde è stato lo stesso presidente del Consiglio, Mario Monti, a dire che il Fiscal compact è stato fortemente voluto da Angela Merkel. Guarino insiste: “Sono soltanto un medico, la mia diagnosi dal punto di vista legale è questa e nessuno finora me l’ha contestata”. Dice di non credere troppo a chi vede una macchinazione di Berlino dietro ogni mossa dell’Unione europea: “La realtà è che i risultati di questo impianto giuridico schizofrenico penalizzano tutti gli europei. Basti dire che Berlino nel 1953 aveva una quota del 5,3 per cento del commercio mondiale, che divenne dell’11,7 per cento nel 1973, del 10,2 per cento nel 2003, dell’8,5 per cento nel 2010. Negli anni 90, nel momento in cui tutto il mondo accelerava per avvantaggiarsi della rivoluzione informatica, la Germania ha scelto di autovincolarsi, di immobilizzarsi per fare da modello a tutti gli altri, ed ecco i risultati. Così sta forse acquistando la preminenza in Europa perdendo quella nel mondo, un errore in cui è già incappata altre volte nella storia. Il punto è che oggi è tutta l’Europa a rischiare l’irrilevanza”. Non a caso la settimana scorsa il Financial Times Deutschland ha dedicato quasi una pagina intera – in uno dei suoi ultimi numeri prima della chiusura – alle tesi del giurista italiano, definito nel titolo come “Der Euro-Chaostheoretiker”, cioè il teorico dell’euro-caos.
Ammettiamo ora che questa ricostruzione giuridica sia corretta. Che cosa cambia? “Il Fiscal compact non si applica, se vogliamo rispettare i trattati europei. Né va portata avanti la sua trasposizione nella Costituzione italiana, con la riforma dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio”. Quanto alla possibile reazione dei mercati, all’imperversare dello spread, Guarino parla di “grande imbroglio” e dice che il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi si può far salire e scendere “muovendo una decina di miliardi di euro”. E’ sulla base di queste premesse che l’ex ministro scruta i sommovimenti politici in atto e suggerisce la prima mossa da compiere per un esecutivo davvero responsabile, sia questo ancora in carica o il prossimo che verrà: “Esigere l’applicazione dei trattati vigenti, cioè del Trattato di Lisbona firmato nel 2007 e in vigore dal 2009. Quel trattato garantisce la possibilità di un indebitamento annuo pari al tre per cento del pil”. In calce al più stringente Fiscal compact, per quanto non applicabile, resta pur sempre la firma di un rappresentante del nostro paese: “Il governo – conclude Guarino nelle vesti di medico nient’affatto pietoso – dovrà esigere che sia la Commissione dell’Unione europea ad attestare pubblicamente che il limite valido all’indebitamento annuo è quello del 3 per cento, e non altro”.

martedì 11 dicembre 2012

Innovation Crisis or Financial Crisis?, by Kenneth Rogoff


As one year of sluggish growth spills into the next, there is growing debate about what to expect over the coming decades. Was the global financial crisis a harsh but transitory setback to advanced-country growth, or did it expose a deeper long-term malaise?
This illustration is by Chris Van Es and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Recently, a few writers, including internet entrepreneur Peter Thiel and political activist and former world chess champion Garry Kasparov, have espoused a fairly radical interpretation of the slowdown. In a forthcoming book, they argue that the collapse of advanced-country growth is not merely a result of the financial crisis; at its root, they argue, these countries’ weakness reflects secular stagnation in technology and innovation. As such, they are unlikely to see any sustained pickup in productivity growth without radical changes in innovation policy.
Economist Robert Gordon takes this idea even further. He argues that the period of rapid technological progress that followed the Industrial Revolution may prove to be a 250-year exception to the rule of stagnation in human history. Indeed, he suggests that today’s technological innovations pale in significance compared to earlier advances like electricity, running water, the internal combustion engine, and other breakthroughs that are now more than a century old.
I recently debated the technological stagnation thesis with Thiel and Kasparov at Oxford University, joined by encryption pioneer Mark Shuttleworth. Kasparov pointedly asked what products such as the iPhone 5 really add to our capabilities, and argued that most of the science underlying modern computing was settled by the seventies. Thiel maintained that efforts to combat the recession through loose monetary policy and hyper-aggressive fiscal stimulus treat the wrong disease, and therefore are potentially very harmful.
These are very interesting ideas, but the evidence still seems overwhelming that the drag on the global economy mainly reflects the aftermath of a deep systemic financial crisis, not a long-term secular innovation crisis.
There are certainly those who believe that the wellsprings of science are running dry, and that, when one looks closely, the latest gadgets and ideas driving global commerce are essentially derivative. But the vast majority of my scientist colleagues at top universities seem awfully excited about their projects in nanotechnology, neuroscience, and energy, among other cutting-edge fields. They think they are changing the world at a pace as rapid as we have ever seen. Frankly, when I think of stagnating innovation as an economist, I worry about how overweening monopolies stifle ideas, and how recent changes extending the validity of patents have exacerbated this problem.
No, the main cause of the recent recession is surely a global credit boom and its subsequent meltdown. The profound resemblance of the current malaise to the aftermath of past deep systemic financial crises around the world is not merely qualitative. The footprints of crisis are evident in indicators ranging from unemployment to housing prices to debt accumulation. It is no accident that the current era looks so much like what followed dozens of deep financial crises in the past.
Granted, the credit boom itself may be rooted in excessive optimism surrounding the economic-growth potential implied by globalization and new technologies. As Carmen Reinhart and I emphasize in our book This Time is Different, such fugues of optimism often accompany credit run-ups, and this is hardly the first time that globalization and technological innovation have played a central role.
Attributing the ongoing slowdown to the financial crisis does not imply the absence of long-term secular effects, some of which are rooted in the crisis itself. Credit contractions almost invariably hit small businesses and start-ups the hardest. Since many of the best ideas and innovations come from small companies rather than large, established firms, the ongoing credit contraction will inevitably have long-term growth costs. At the same time, unemployed and underemployed workers’ skill sets are deteriorating. Many recent college graduates are losing as well, because they are less easily able to find jobs that best enhance their skills and thereby add to their long-term productivity and earnings.
With cash-strapped governments deferring urgently needed public infrastructure projects, medium-term growth also will suffer. And, regardless of technological trends, other secular trends, such as aging populations in most advanced countries, are taking a toll on growth prospects as well. Even absent the crisis, countries would have had to make politically painful adjustments to pension and health-care programs.
Taken together, these factors make it easy to imagine trend GDP growth being one percentage point below normal for another decade, possibly even longer. If the Kasparov-Thiel-Gordon hypothesis is right, the outlook is even darker – and the need for reform is far more urgent. After all, most plans for emerging from the financial crisis assume that technological progress will provide a strong foundation of productivity growth that will eventually underpin sustained recovery. The options are far more painful if the pie has ceased growing quickly.
So, is the main cause of the recent slowdown an innovation crisis or a financial crisis? Perhaps some of both, but surely the economic trauma of the last few years reflects, first and foremost, a financial meltdown, even if the way forward must simultaneously treat other obstacles to long-term growth.

http://www.project-syndicate.org/commentary/technological-stagnation-and-advanced-countries--slow-growth-by-kenneth-rogoff

giovedì 6 dicembre 2012

Qui Italia, 285 ore l'anno solo per pagare le tasse, di Alberto Brambilla


L'Italia è indietro rispetto agli altri paesi non solo in termini di facilità nel fare impresa ma anche per quanto riguarda il regime fiscale. Infatti, se nella classifica della Banca Mondiale "Doing Business" l'Italia è penultima in Europa (dietro c'è solo la Romania) è anche a causa di "un fisco macchinoso e pesante", dice uno studio inedito dello studio Synergia Consulting Group che riunisce 14 istituti di commercialisti italiani in tutto il paese.
"Il Fisco italiano disincentiva le attività economiche, la crescita e gli investimenti. Il peso totale delle imposte sulle imprese (total tax rate) supera il 68% in Italia contro una media UE del 42%. Il tempo dedicato alle pratiche tributarie è di 285 ore all’anno (ben 35,6 giornate/uomo) contro una media nei Paesi UE di 208. Quanto a complicazioni burocratiche in Europa ci superano in peggio solo Lettonia, Bulgaria, Polonia e Repubblica Ceca. I Paesi europei in cui invece il Fisco favorisce di più le aziende sono Irlanda, Danimarca, Lussemburgo e Gran Bretagna", si legge. 
L'Italia ha un total tax rate, e cioè un peso fiscale complessivo, che arriva al 68,5 per cento e pesano sulle imprese. "In Europa – dice la ricerca – solo la Francia con il 65 per cento si avvicina al picco tricolore".
Ma non è tutto qui: servono 285 ore di lavoro l'anno per pagare le tasse. Dice Synergia: "Un altro elemento importante che frena il business in Italia - segnala l’indagine di Synergia Consulting Group - è costituito dalla lentezza della giustizia civile. Le cause fra aziende durano in media 1.210 giorni nel Belpaese (quasi 4 anni) contro 515 in Spagna, 399 in Gran Bretagna, 394 in Francia e soltanto 331 in Germania (meno di un anno). Nella Penisola il costo per la risoluzione delle controversie commerciali assorbe così il 30% del valore in gioco. In Gran Bretagna si ferma al 24,8%. L’impatto è molto minore in Germania (17,4%), Spagna (17,2%) e Francia (14,4%)".

Le conseguenze a catena dello spegnimento all’Ilva, di Alberto Brambilla


Acciaio fuso

Così rischia di andare in crisi l’intera filiera del settore. E pagano tutti

Roma. Con gli impianti dell’Ilva di Taranto rischia di spegnersi la filiera settore siderurgico italiano. E’ l’effetto economico della decisione della magistratura di accelerare, in contrasto con il governo, la chiusura degli altoforni di proprietà della famiglia Riva in Puglia perché fonte di inquinamento atmosferico a danno della salute dei cittadini. A novembre per ottemperare alle decisioni del giudice del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, un altoforno si avvierà verso lo spegnimento. I funzionari del ministero dell’Ambiente hanno lavorato all’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), un piano di riconversione degli impianti per ridurre le emissioni. Secondo la proposta presentata ieri, si prevede una riduzione del 30 per cento della produzione. Cifra che si basa sulla capacità potenziale a pieno regime di 15 milioni di tonnellate l’anno che verrebbe dunque ridotta a 8 milioni (in realtà quanto già l’Ilva ha prodotto nel 2011). L’auspicio espresso dal ministro, Corrado Clini, ieri in conferenza stampa, è che serva a risolvere il conflitto tra azienda e procura.
La prospettiva di peggiore è che la famiglia Riva, il 21esimo produttore mondiale di acciaio, abbandoni il sito. “Con lo spegnimento l’Ilva sparirebbe dalle classifiche internazionali”, è la certezza dei tecnici del ministero dello Sviluppo.
“Lo scenario complessivo sarebbe disastroso” commenta al Foglio Antonio Gozzi, il presidente di Federacciai, l’associazione che riunisce i produttori italiani. Gozzi descrive un effetto a catena su tutta l’economia nazionale. Dal momento che l’Ilva l’anno scorso ha prodotto a Taranto 8 milioni di tonnellate di lamiere e nastri di cui 5 vengono vendute in Italia, 2,5 nell’Unione europea, e 0,5 nel mercato extra Ue, ci sarebbe un danno per tutta la filiera. Federacciai quantifica un aumento del 10 per cento dei costi per le aziende che utilizzano la materia lavorata (2,5 miliardi) in momenti di congiuntura negativa, come questo, e il doppio di extra costi in caso di una ripresa (5 miliardi). Ciò si ricava da quanto dovrebbero spendere le aziende clienti di Ilva per importare le tonnellate che verrebbero a mancare, visti l’aumento dei costi per il trasporto e lo stoccaggio: Ilva produce in base agli ordini mensili (metodo “just in time”), i produttori esteri invece ragionano a trimestri e sarebbe necessario stivare. L’effetto domino costerebbe allo stato circa 30 miliardi di euro l’anno come aggravio sulla bilancia commerciale perché non si esporterebbe più, aumenterebbero le importazioni di prodotti finiti e si azzererebbero di contro quelle di materie prime. I costi sociali, valutati da Federacciai, sarebbero di 450 milioni derivanti da una possibile cassa integrazione per i 15 mila dipendenti di Taranto e degli altri due stabilimenti Riva di Novi Ligure e Genova più i 15 mila dell’indotto (in media la siderurgia per 1 addetto impiega circa 0,6 indiretti). Valutando anche le mancate imposte da reddito dipendente il conto complessivo salirebbe a 600 milioni l’anno. “Sarebbe una castrofe per i conti pubblici”, commenta Gozzi, “una bastosta peggiore di una finanziariae causerebbe il collasso economico della Regione Puglia”.
Sono stime dell’Associazione dei produttori che descrivono un settore industriale in condizioni critiche che in termini di produzione totale è – per ora – secondo solo a quello tedesco. Altri casi sono considerati difficili. La società Lucchini, dopo l’uscita dall’azionariato dei russi di Severstal, è in mano alle banche creditrici. Situazione finanziaria che pesa sullo stabilimento di Piombino, il cui alto forno è a fine corsa e dovrebbe essere rifatto richiedendo degli investimenti per assicurare i 2.500 lavoratori. Allo stabilimento di Trieste (700 dipendenti) due altoforni vanno verso la chiusura e non potrebbero più fornire la ghisa liquida necessaria a mantenere attivo lo stabilimento triestino della Federtubi Jindal dove 200 operai producono tubi per acquedotti. Infine c’è Terni, un caso internazionale. L’Antitrust europea ha chiesto di ridurre le concentazioni europee nel mercato dell’acciaio inossidabile sotto il 45 per cento. Scelta controversa perché è un mercato in sovracapacità produttiva. Per questo la società finlandese Outokumpu vorrebbe cedere parte delle attività italiane. Martedì prossimo i vertici dello Sviluppo incontreranno la proprietà per cercare un accordo.

mercoledì 5 dicembre 2012

Datemi la produttività e risolleverò l’Italia. Le tesi del governo, di Gianfranco Polillo


Lavorare, lavorare, lavorare e competere: ridurre i costi per le imprese alimenta profitti e consumi anche se ora la domanda è carente

Tutti ormai parlano di crescita, ma nessuno è stato finora in grado di dire come rimettere in moto lo stanco motore dell’economia italiana. Dietro questi silenzi vi sono alibi e reticenze. C’è, infatti, chi ritiene che lo stato centrale possa nuovamente allargare i cordoni della borsa con politiche in deficit. E’ il grido di coloro che vorrebbero uscire dalla crisi “da sinistra”. Le reticenze sono, invece, il frutto di un semplice rinvio. Dire come effettivamente stanno le cose non è conveniente: né da un punto di vista politico né programmatico. Ed allora meglio mettere la testa sotto la sabbia. Poi si vedrà. In passato abbiamo cercato di reagire allo stallo proponendo una ricetta, forse, indigesta, ma necessaria. Ad orientarla era un’analisi disincantata della realtà italiana.
L’unica strada che vediamo per uscire dall’impasse è quella di aumentare la produttività. L’inconveniente di questa proposta sono i tempi. Si parte oggi, ma i risultati si vedono solo domani. E nel frattempo? Se vogliamo essere subito operativi, la variabile su cui operare è quella del costo del lavoro. A invarianza di pressione fiscale, esso può ridursi solo organizzando meglio i fattori della produzione. Maggiore utilizzo degli impianti (il modulo 7 giorni su 7), contratti di secondo livello, aumento delle ore lavorate a parità di salario, ma con l’intesa di recuperarne il carico non appena l’economia si rimetterà in moto. Una linea alternativa, almeno nel breve periodo, alla crescita degli investimenti: la via maestra per recuperare nel tempo la competitività perduta. Perché riteniamo irrealistica questa seconda ipotesi? Per il semplice fatto che i margini operativi (profitti e ammortamenti) non remunerano il capitale investito. E quindi le aziende, che non sono enti di beneficenza, si astengono.
L’obiezione avanzata a questa suggestione è stata sempre la stessa: manca la domanda. Se non si attivano i consumi, ogni sacrificio diventa inutile. Si può anche produrre a un prezzo minore, ma le merci ottenute rimangono nei magazzini. Ma è proprio così?
Dal 2005 l’inflazione italiana è stata di quasi 5 punti superiore a quella tedesca e francese (dati Eurostat). Solo un po’ meno elevata di quella media europea. Riducendo i costi di produzione si ottiene pertanto uno spazio aggiuntivo di mercato che è valutabile intorno a 1 punto di pil all’anno. A sua volta, questo margine si riflette immediatamente nella crescita del prodotto interno, essendo quest’ultimo calcolato al netto dell’inflazione.
E’ una missione impossibile? Sembrerebbe di no. In tutti questi anni i prezzi dei prodotti destinati all’esportazione sono aumentati meno di quelli relativi ai consumi interni. Unica eccezione il 2011. E il fatturato estero, negli ultimi tre anni, è aumentato in media di quasi il 10 per cento in più rispetto a quello ottenuto sul mercato interno. Ecco allora una possibile quadratura del cerchio. Si riducono i costi di produzione, grazie all’incremento di produttività. Aumentano i margini per le imprese e riprende il processo di investimento, colmando un vuoto di oltre 15 anni. Allora può ripartire l’occupazione e quindi i consumi interni dovuti alla maggiore disponibilità di salario complessivo.
Certo: gli attuali occupati sono chiamati a uno sforzo maggiore, anche se sostenibile, ma con l’idea di investire nel proprio futuro e in quello del paese. Si tratta di una semina, cui seguirà il raccolto. Compito dell’intera collettività sarà quello di vigilare affinché, nel tempo, quell’atto di generosità sia adeguatamente ricompensato. Ma non è forse questo il compito di una politica lungimirante?

martedì 4 dicembre 2012

The Debtor Prisoner’s Dilemma, by Harold James

Any economic slowdown increases debt burdens, whether for households or for states. Today, both are looking for ways to reduce the weight of debt – and some would prefer to escape it.
This illustration is by Dean Rohrer and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Deeply frustrated and angry people – especially in southern Europe – frequently hold up Argentina’s defiance of the international community in 2001 as a model. Argentina then used a mixture of coercion and negotiation to get out from under the mountain of debt that it incurred in the 1990’s, effectively expropriating foreign creditors, who were viewed as dangerous and malign.
In the 1990’s, Argentina tied its hands with a dollar-pegged currency in order to enhance its credibility as a borrower. The strategy worked too well: the large credit inflows that it attracted triggered an inflationary boom that reduced the country’s competitiveness. By 2001, a combination of devaluation (exit from the currency straitjacket) and partial default was inevitable. Default was followed by nominally voluntary restructurings in which creditors were invited to take some losses.
Up to now, the Argentine model has seemed successful, yielding substantial economic growth for the country since 2001. That is what has made the model so appealing to debt-burdened southern Europeans.
But a recent New York court ruling against Argentina in a case brought by a holdout hedge-fund creditor has dramatically raised the stakes of sovereign default and bankruptcy. When holdouts are rewarded by court decisions, and the rights of recalcitrant creditors are recognized in other jurisdictions, efforts at “voluntary” restructuring become unsustainable. More and more parties will resist writing down some debt in favor of trying to seize whatever assets they can.
For Argentina, the writing is now on the wall. One of the creditors favored in the New York case, Elliott Capital, had already successfully requested the seizure in Ghana of the Argentine Navy’s three-mast sailing ship ARA Libertad. If the fallout of the New York decision is an extensive Argentine default on other obligations, foreign trade will become practically impossible, many goods will become scarce, and domestic inflation will increase further. In short, the Argentine model of debt reduction in the 2000’s has collapsed as completely as its borrowing model in the 1990’s did.
Two fundamental facts have created an apparently insoluble dilemma for the global economy, and have turned countries like Argentina and Greece into victims of an impossible logic. First, debt continually grows; second, there is no really satisfactory way of getting rid of it.
The financial sector’s explosive growth over the past two decades has fueled the accumulation of exceptionally large volumes of debt. In the absence of some positive shock – such as an acceleration of GDP growth – servicing that debt becomes impossible for at least some borrowers.
Real debt defaults are historically rare. For both borrowers and creditors, the risks and costs are enormous. The borrower is cut off from international markets, and essential imports can no longer be purchased, while large-scale defaults threaten to plunge creditors into insolvency.
The consequence is a complicated game – currently exemplified by the saga of Greek voluntary restructuring – in which both sides stare into the abyss and then turn away from the out-and-out conflict that would send them plummeting into it.
Latin America experienced this dilemma in the 1980’s, when its debt arithmetic had become unsustainable. At the outset of that crisis, major US financial institutions’ capital exposure to Latin America was near 200%, making candid recognition of debt unsustainability the surest route to wiping out the global financial system.
Most of the big Latin American debtors took extraordinary pains to avoid an explicit default. The only sustained exception was Peru, which defaulted in 1985 and became an international pariah. Of the largest borrowers, only Brazil, in 1987, formally defaulted – and only briefly. As President José Sarney, backing down, admitted, “The fact is that we cannot destroy the international system. We can scratch it, but it can destroy us.”
Instead, banks in the 1980’s offered new money in an attempt to extricate themselves from the crisis. Managing modern debt crises always involves the extraordinary logic of throwing good money after bad in the hope of masking the underlying unsustainability. The same logic has been applied in the euro crisis, with official money taking the place of private-sector exposure.
The emergence of inextinguishable debt replicates other troubling aspects of contemporary life. Governments, businesses, and individuals all face the build-up of other sorts of liabilities in the form of accumulations of information that cannot be deleted. E-mail, Facebook, and Twitter accounts all produce a permanent record that perpetually accompanies users, even when their circumstances change. The legacy of the past continually resurfaces to constrain action in the present.
Just as countries might want to wipe out their debt and start anew, individuals might like to erase their electronic past in a dramatic act of liberation. But that would destroy the useful together with the embarrassing or irrelevant. If a clean start is impossible, the best that can be done is to try to bury the old information with such an inflationary flood of new data that it simply dwindles into insignificance.
The analogue in the world of debt negotiation is that a new start that allows borrowing to begin all over again is also impossible. A cleanup is impossible. That leaves only one solution: pile on new claims to such an extent that old debts appear paltry. Those who cannot forget the past are condemned to inflate it.

http://www.project-syndicate.org/commentary/financial-sustainability--default--and-argentina-s-failed-debt-model-by-harold-james

sabato 1 dicembre 2012

Dio strabenedica gli inglesi, di Riccardo Perissich


Nel Regno Unito torna in voga il “paradigma Churchill”, l’appello ad accelerare l’integrazione europea a patto che Londra ne rimanga fuori. Ma al continente conviene rinviare il divorzio

La costruzione europea nelle sue diverse denominazioni ha ormai sessant’anni di vita. Nel frattempo è passata da sei a ventisette, presto ventotto, membri e altri ancora bussano alla porta. Tutti hanno incontrato problemi seri nella loro partecipazione e crescenti difficoltà a spiegare il senso e le finalità del progetto alla loro opinione pubblica. I sondaggi mostrano ovunque una disaffezione dell’opinione verso l’Unione europea, ma il principio stesso dell’adesione continua a raccogliere la maggioranza dei consensi. Il Regno Unito rappresenta l’eccezione. In nessun altro paese il rapporto con le istituzioni e le politiche comuni è stato così travagliato. Nel momento in cui l’Europa affronta la sfida delle trasformazioni necessarie alla sopravvivenza dell’euro, il rapporto con la Gran Bretagna entra in una nuova fase critica che probabilmente potrà essere risolta solo con un chiarimento definitivo. (…)
E’ ormai convinzione diffusa che la Gran Bretagna e il continente europeo siano avviati verso un divorzio consensuale che tutti sperano non sia traumatico. Come si è arrivati a questo punto? Da quel tempestoso giorno del luglio 1970, la Gran Bretagna ha avuto otto primi ministri e quattro alternanze al potere dei due principali partiti; contrariamente a ciò che speravano i numerosissimi anglofili nel continente, l’atteggiamento del paese verso la costruzione europea non si è modificato ed è forse diventato ancora più ostile. La ragione va ricercata nella natura del dibattito interno sull’Europa. Da un lato vi sono gli euroscettici che considerano il progetto europeo, incarnato nelle sue istituzioni, profondamente estraneo alla cultura, alla storia e agli interessi del popolo britannico. Quando si tratta di Europa, in tutti i media europei dilagano gli stereotipi e le false rappresentazioni; tuttavia in nessun altro paese il fenomeno, con qualche eccezione, è così virulento e generalizzato. La Francia, la Germania e gli altri vi sono dipinti come attori irresponsabili colpiti da periodiche esplosioni di follia utopistica che solo la saggezza di Albione può tentare di contrastare, ma da cui è meglio tenersi alla larga. Le istituzioni europee sono ovunque piuttosto impopolari, ma in generale a causa di ciò che fanno (o più spesso non fanno); in Gran Bretagna sono detestate per quello che sono. Dall’altro lato vi sono i cosiddetti “europeisti” che non hanno mai pensato di poter spiegare all’opinione pubblica il progetto politico e hanno quindi ripiegato su un’interpretazione puramente mercantile presentandola come conforme agli interessi commerciali del paese. A prima vista questa scelta pragmatica non era priva di fondamento; l’integrazione commerciale procedeva con successo, ma il progetto politico sembrava appannato e sommerso dai dissensi fra gli altri paesi membri. Inoltre, la Gran Bretagna è un paese serio. Anche se può sembrare un paradosso e malgrado la scarsa simpatia per le istituzioni e per il concetto stesso di regole europee vincolanti, il Regno Unito ha spesso inviato alla Commissione esponenti di grande qualità (Christopher Soames, Roy Jenkins, Lord Cockfield, Leon Brittan) ed è sempre stato in prima linea nella corretta applicazione delle direttive europee. I responsabili britannici hanno però costantemente sottovalutato che dietro le reticenze francesi, gli egoismi tedeschi e quelli di tutti gli altri il progetto politico originario restava forte, come pure lo era il legame che univa Francia e Germania. Incapace di proporre un proprio paradigma dell’integrazione che tenesse conto del disegno dei padri fondatori, la Gran Bretagna si è vista costretta ad agire di rimessa e a opporsi o almeno tentare di rallentare ogni progresso nell’integrazione; salvo poi aderire, invocando a fini interni lo stato di necessità, quando il treno era già partito.
E’ possibile che ciò si ripeta a proposito dell’euro? E’ molto improbabile. Anche se la riforma dell’Eurozona dovesse avere successo, il processo sarà lungo, incerto e conflittuale e sarà teoricamente possibile sostenere l’opportunità di aderirvi solo quando si sarà pienamente stabilizzato e avrà dimostrato di funzionare. Nel frattempo la deriva è in senso opposto. Negli ultimi decenni gli europeisti pragmatici hanno dominato il governo (anche con la signora Thatcher che era comunque la più vicina alla pancia del proprio elettorato), ma gli euroscettici hanno dominato l’opinione pubblica e ora l’onda sta diventando irresistibile; quando dicono, “ci avevate spiegato che dovevamo aderire a un mercato comune e ora ci troviamo di fronte a un progetto politico su cui non siamo mai stati consultati”, hanno fondamentalmente ragione. Lo stesso Partito laburista che dopo gli sbandamenti degli anni 70 tentò di riprendere la bandiera europea, sta ora ripiegando su posizioni anti europee “da sinistra”, come dimostrato dalla posizione cinicamente restrittiva sul bilancio dell’Unione e dalle velleità di rimpatriare poteri utili a condurre una “politica industriale nazionale”. Dopo più di mezzo secolo, la Gran Bretagna ritorna al paradigma di Churchill: auspica un’integrazione del continente cui non può e non vuole partecipare. La Gran Bretagna ha speso gli ultimi cinque secoli della storia a impedire l’unità del continente per essere libera di guardare agli oceani; oggi l’impero non c’è più e il mondo intero auspica l’unione del continente. Il tagliente giudizio di Dean Acheson resta valido: un paese che ha perso un impero e non ha ancora trovato un ruolo. L’Europa è ai loro occhi allo stesso tempo troppo e troppo poco. Il problema è che nessuno sembra più interessato ad aiutarli a risolvere il dilemma. Nella loro concentrazione sulla tattica a discapito della strategia ed esclusivamente attenti alla propria opinione pubblica, i responsabili britannici non hanno saputo o voluto vedere l’evoluzione del continente nei loro confronti: lo straordinario patrimonio di fiducia, ammirazione e simpatia di cui il paese godeva ovunque e soprattutto in Germania si è ormai esaurito. Molti continuano a pensare che la partecipazione della Gran Bretagna all’Unione sia auspicabile e utile, ma nessuno è più pronto a fare grandi concessioni per conservarla. E’ un’evoluzione cui nessuno guarda con gioia; dopo tutto si tratta di un paese baluardo del mercato unico, che privò Hitler della vittoria totale e che in seguito ci ha dato i Beatles e gli Stones.
Restano da definire i tempi e le condizioni del divorzio; la complessità del processo e i pericoli che comporta non vanno presi alla leggera. Bisogna in primo luogo evitare ogni accelerazione. I britannici hanno interesse a ritardare il più possibile un dibattito lacerante e, se un referendum sembra ormai inevitabile, devono sapere su quale Europa chiederanno al paese di esprimersi. L’accelerazione non conviene ai continentali perché non sarebbe utile aprire un nuovo fronte oltre a quelli urgenti e tormentati che già esistono. Inoltre, è interesse di tutti preservare per quanto possibile l’integrità del mercato dell’Unione. Resta il fatto che ogni compromesso pragmatico discusso in futuro tenderà ad assumere la forma di un trattamento speciale concesso ai britannici e costituirà quindi un altro passo verso il divorzio e non verso la riconciliazione. Ci sono altri fattori che sconsigliano di accelerare il confronto. Gli americani continuano, anche se con minore insistenza, a considerare importante la partecipazione della Gran Bretagna all’Ue. Anche se l’euro è oggi il principale polo di aggregazione e il principale problema, l’Unione non è fatta di sola economia. Del settore della sicurezza interna si è già detto, ma c’è anche la politica estera e di difesa. Prima o poi, gli europei dovranno affrontare seriamente anche questa dimensione e, inevitabilmente, si porrà il problema di nuove cessioni di sovranità. Per il momento nulla di vincolante avviene in quel campo e Londra può ancora trovarvisi a suo agio. I paesi del continente, in questo caso paradossalmente soprattutto la Francia, continuano a ritenere importante il contributo britannico. E’ quindi questo, oltre al mercato unico, l’ultimo legame che tiene gli inglesi strutturalmente collegati all’Europa. Per quanto tempo?
Per quanto riguarda i modi, fondamentalmente vi sono due soluzioni possibili: uno statuto simile a quello della Norvegia e della Svizzera che darebbe al paese il massimo di libertà formale ma annullerebbe la sua capacità di influire sulle decisioni del resto dell’Europa, oppure una soluzione più strutturata che trasformerebbe l’Unione anche formalmente in un sistema a cerchi concentrici. Questa seconda soluzione presenterebbe problemi politici e istituzionali molto complessi ma è probabilmente maggiormente auspicabile, costituirebbe una formalizzazione di un processo già in atto e si potrebbe addirittura evitare di definirla un divorzio. La Gran Bretagna non è il solo paese che nutre dubbi politici fondamentali verso l’integrazione che si profila, anche se è certamente l’esempio più importante e virulento; la Svezia e la Repubblica Ceca sono altri due casi potenzialmente critici. Una soluzione strutturata eviterebbe defezioni disordinate e politicamente difficili da gestire; inoltre essa permetterebbe di affrontare anche altre questioni come quella della Turchia.
In tutti i casi, non è questo il momento della decisione. E’ per il momento nell’interesse di tutti che le istituzioni dell’Unione nella loro composizione attuale continuino a occuparsi anche di Eurolandia; il problema del ruolo dei rappresentanti britannici, per esempio nel Parlamento europeo, può essere gestito con pragmatismo. Non è però detto che gli eventi si sviluppino con pragmatismo e buon senso. Un corto circuito, causato da insipienza o calcolo sbagliato, può sempre intervenire. E’ improbabile che sia provocato dai continentali che hanno altre priorità e non hanno interesse ad avere in mano un cerino acceso. Può invece aver luogo a causa della dinamica interna della politica britannica, sempre più emotiva e imprevedibile; sarebbe un nuovo esempio di stupidità europea. Gli Dei accecano coloro che vogliono distruggere.

giovedì 29 novembre 2012

Per parlare di Dio nel nostro tempo


All’udienza generale il Papa ricorda che la fede va comunicata con la parola e la vita

Appello per assicurare accesso ai farmaci e terapie ai malati di Aids

Accesso ai farmaci e terapie efficaci per i malati di Aids sono stati chiesti dal Papa durante l’udienza generale di mercoledì 28 novembre. Ai numerosi fedeli riuniti nell’Aula Paolo VI il Pontefice ha ricordato che il prossimo 1° dicembre ricorre la giornata mondiale indetta dalle Nazioni Unite «per richiamare l’attenzione su una malattia che ha causato milioni di morti e tragiche sofferenze umane, accentuate nelle regioni più povere del mondo, che con grande difficoltà possono accedere ai farnaci efficaci». Da qui l’incoraggiamento di Benedetto XVI alle «numerose iniziative che, nell’ambito della missione ecclesiale, sono promosse per debellare questo flagello». Con un pensiero particolare per i moltissimi bambini «che ogni anno contraggono il virus dalle proprie madri, nonostante vi siano terapie per impedirlo».
L’appello è giunto al termine di un’udienza che il Papa ha dedicato in modo particolare al tema della comunicazione della fede. «Come parlare di Dio nel nostro tempo?» è stata «la domanda centrale» intorno alla quale il Pontefice ha sviluppato la sua riflessione. «Noi possiamo parlare di Dio — ha risposto anzitutto — perché Dio ha parlato con noi». Egli infatti «non è un’ipotesi lontana sulle origini del mondo» o «un’intelligenza matematica molto lontana da noi», ma «si interessa di noi» e «ci ama».
Parlare di Lui vuol dire dunque «portare agli uomini e alle donne del nostro tempo non un Dio astratto, un’ipotesi, ma un Dio concreto, che è entrato nella storia ed è presente nella storia». Per questo Benedetto XVI raccomanda «un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio». Il modello a cui guardare resta san Paolo, il quale non comunica una filosofia ma una realtà che è entrata a far parte della sua vita; e lo fa non per «crearsi una squadra di ammiratori» ma per guadagnare le persone al Dio «vero e reale».
Dal Papa anche un invito a considerare la famiglia come «luogo privilegiato per parlare di Dio» e per comunicare la fede con «la tonalità della gioia».

America’s Fiscal Cliff Dwellers, by Simon Johnson


In early 2012, Federal Reserve Chairman Ben Bernanke used the term “fiscal cliff” to grab the attention of lawmakers and the broader public. Bernanke’s point was that Americans should worry about the combination of federal tax increases and spending cuts that are currently scheduled to begin at the end of this year.
This illustration is by Paul Lachine and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
But there is not really any kind of “cliff” in the sense that if you stepped over the edge, you would fall fast, land on something hard, and not get up for a long time. In the modern US economy, the scheduled changes constitute more of a fiscal “slope” – meaning that the full effect of the tax increases would not be felt immediately (income withholding takes time to adjust), while the spending cuts would also be phased in (the government has some discretion regarding implementation). This slope offers President Barack Obama a real opportunity to restore the federal government’s revenue base to what it was in the mid-1990’s.
The choice of words to describe America’s fiscal situation matters, given the hysteria that has been whipped up in recent months, primarily by people who want to make big cuts in the country’s two main entitlement programs, Social Security and Medicare. Their logic is that if we are about to rush off a cliff, we need to take extreme measures. And cutting pensions and health care for the elderly certainly qualifies as extreme – as well as completely inappropriate and unnecessary.
If, instead, the US faces a fiscal slope, then people who refuse to consider raising taxes – namely, Republicans in the US Congress’s House of Representatives – have a very weak hand indeed.
It has become clear that the House Republicans will steadfastly refuse to vote for any increases in tax rates during the current lame-duck congressional session. House Speaker John Boehner, who offered relatively conciliatory remarks immediately after the election, now says that he would accept higher revenue with lower rates – precisely what the temporary tax cuts enacted by George W. Bush’s administration were supposed to deliver, but manifestly did not.
It is very unlikely that congressional Democrats and Republicans can reach an agreement on extending the Bush-era tax cuts for the middle class, while allowing them to expire for the rich. They will spar with each other for another six weeks, then go to the brink of the purported “cliff” and see who blinks at the last moment.
The sensible course of action for Obama would be to step off the “cliff” by vetoing any extension of the Bush-era tax cuts, which would then expire at the end of 2012. Once tax rates were restored to their previous levels, Obama could present his own tax-cut package to Congress – for example, with a proposal in early January that provided greater benefit to lower-income Americans, as he promised during his re-election campaign.
These tax cuts should also be linked to the state of the economy, so that they would wind down as employment recovers (for example, to its level in 2007, relative to total population). If the economy looks weaker than anticipated in early 2013, the proposed tax cuts could be larger (as long as they were phased out during the economic recovery). This approach would significantly transform America’s longer-run fiscal prospects.
Then, as America heads steadily down the fiscal slope in early 2013, the House Republicans would have a choice. Do they vote, week after week, against tax cuts that would help 100 million Americans, while the economy deteriorates around them? Or do they embrace a deal that cuts taxes and tax rates relative to where they would be otherwise?
In effect, the House Republicans can be forced to sign onto a deal that both supports the economy and restores revenue to the level that prevailed before the disastrous experiment of Bushonomics.
Obama has already put spending cuts on the table – probably to a greater extent than would please his electoral base (he does have a tendency to do this). The big question is whether the US can strengthen revenue in an appropriate manner that is consistent with renewed economic growth.
America should aim to return to the tax rates of the mid-1990’s, when the economy was booming and the federal budget was in much better shape. But it should do this fully only once the economy has completely recovered.
Ordinarily, partisan political gridlock in Washington would prevent any such sensible change. Fortunately, the fiscal slope gives Obama the opportunity to bring it about – and even to write some history in the process. That means vetoing any extension of the Bush-era tax cuts, and then working to enact the Obama tax cuts.

Inps: sgravi sulla produttività vadano solo a chi li merita, di Marco Valerio Lo Prete



Gli sgravi sulla produttività vadano solo a chi li merita, dice l’Inps. Le parti sociali, Cgil esclusa, hanno firmato la settimana scorsa un avviso comune per incentivare la competitività del sistema produttivo. In cambio il governo Monti ha messo a disposizione 2,2 miliardi per sgravi fiscali sulla contrattazione aziendale, da assegnare secondo criteri che l’esecutivo stabilirà.
L’Inps, intervenendo a un’audizione al Cnel sugli incentivi già erogati negli anni scorsi per il salario di produttività, ha spiegato che oggi “resta aperta la delicata questione delle modalità per verificare la corrispondenza tra agevolazioni concesse e incremento dei livelli di produttività delle aziende interessate, che, allo stadio attuale dell’evoluzione normativa, non appare ancora sufficientemente modulata”. Attribuire i fondi “non a pioggia”, come vorrebbe Monti, sarà dunque meno facile del previsto.

Un percorso di sicurezza, di Maurizio Ferrera

LA GARANZIA EUROPEA NECESSARIA

La cosiddetta «agenda Monti» sarà senza ombra di dubbio il tema più controverso della campagna elettorale. Assediati dalle varie formazioni antigovernative e ansiosi di differenziarsi fra loro, i partiti dell'attuale maggioranza cercheranno di fare gli equilibristi, evitando di indicare con precisione gli elementi di continuità e di rottura rispetto all'attuale governo. È possibile fissare qualche paletto che aiuti a far chiarezza?

«Agenda» vuol dire «cose da fare», in base a un disegno coerente. Sin dal suo insediamento, il governo ha perseguito un obiettivo strategico inequivocabile: risanamento finanziario e riforme strutturali in linea con il quadro di riferimento europeo.

Quanto alle «cose», occorre invece distinguere. Ci sono innanzitutto quelle già fatte, come la riforma delle pensioni. E su questo versante, si dovrebbe evitare di disfare. Ci sono poi le riforme varate, ma in corso di attuazione, prima fra tutte quella sul mercato del lavoro. Gli aspetti che non funzionano sono già evidenti, alcuni critici della prima ora avevano ragione, serve un ribilanciamento fra flessibilità in entrata (meno rigidità) e in uscita (meno vincoli). Ma perlomeno l'impalcatura sarebbe da conservare, soprattutto per quanto riguarda i nuovi ammortizzatori sociali.

Vi sono infine le «cose» annunciate o appena abbozzate, ma non realizzate (per ostacoli parlamentari o amministrativi, ma anche per la lentezza progettuale da parte di alcuni ministeri). Fisco e costo del lavoro, pubblica amministrazione, istruzione e ricerca, politiche sociali: l'elenco è lungo. Questo è il fronte più delicato.

I principali partiti cercheranno di smarcarsi da Monti, per convinzione o per calcolo elettorale. Ma formuleranno proposte serie? E quali saranno le politiche del nuovo governo? Senza esagerazioni (l'esperienza però insegna), vi è il rischio che alla prova dei fatti si finisca per compromettere il disegno di risanamento facendoci nuovamente precipitare in una situazione di crisi finanziaria.

Molti confidano sul fatto che Monti possa fungere anche in futuro da garante anticrisi e lo stesso interessato ha dichiarato che considererà ogni opzione, nessuna esclusa. Ma perché lasciare tanta incertezza? Nella sua attuale veste, il presidente del Consiglio potrebbe preparare da subito un'agenda di «continuità riformatrice» da lasciare in eredità al suo successore, chiunque sia.

Non si tratterebbe di una mossa irrituale, ma di un atto dovuto. Entro la primavera prossima, il governo italiano deve presentare a Bruxelles il nuovo Programma nazionale di Riforma (Pnr), nel quale illustrare la sequenza di riforme necessarie per raggiungere gli obiettivi della strategia «Europa 2020».

Negli anni passati, il Pnr era un semplice Rapporto tecnico «per Bruxelles». Nel 2013 questo documento potrebbe diventare un Rapporto rivolto anche all'opinione pubblica nazionale, con proposte concrete per l'Italia e il suo futuro di modernizzazione in Europa.

Nel tempo che resta prima del voto, è difficile che il governo riesca a varare nuove misure incisive. Delineare una «agenda Monti» in versione autentica (capace di riflettere criticamente anche su errori e lacune), sarebbe perciò il miglior modo per chiudere l'esperienza del governo tecnico. Stimolando al tempo stesso concretezza e precisione d'impegno in chi si candida a guidare, dopo il voto, un governo politico.

http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_28/percorso-di-sicurezza-ferrera_a9e6dd0a-3924-11e2-8eaa-1c0d12eff407.shtml

mercoledì 28 novembre 2012

Private Wealth and European Solidarity, by Peter Jungen


A little-discussed but crucial factor in the debate over wealth transfers from Europe’s more economically sound north to its troubled south is the relationship between public debt, GDP, and private wealth (households’ financial and non-financial assets, minus their financial liabilities) – in particular, the ratio of private wealth to GDP in the eurozone countries.
This illustration is by Paul Lachine and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
While the European Central Bank’s bond-purchasing scheme has calmed financial markets to a considerable extent, some European economies – including Italy, Spain, Greece, and Portugal – are still at risk, because they are not growing fast enough to narrow their deficits and stem the growth of their national debts. The grim irony here is that the ratio of private wealth to GDP in some of the countries that are in need of support from the ECB and northern eurozone members is equal to or higher than that in more solvent countries.
Consider Italy, which has the highest ratio of private wealth to public debt of any G-7 country, and is some 30% to 40% higher than in Germany. Likewise, Italy and France share a private wealth/GDP ratio of five to one, while Spain’s – at least before the crisis hit the country in full – was six to one. By contrast, the ratio in Germany, Europe’s largest creditor, is only 3.5 to one.
This discrepancy is at the heart of the question with which European policymakers are now grappling: Should taxpayers in debtor countries expect “solidarity” – or, more bluntly, money – from taxpayers in creditor countries? Why should taxpayers in creditor countries have to take responsibility for financing the euro crisis, especially given that high private wealth/GDP ratios may result from low tax revenues over time, while lower ratios may reflect higher tax revenues?
Before seeking or accepting help from the rest of Europe, countries should employ all available domestic resources. Debtor governments should call upon their own taxpayers to fund some of the national debt in order to avoid higher interest rates in credit markets. They could, for example, offer an incentive in the form of a 3-4% interest rate on bonds, and even make them tax-free eventually. This would allow Italy, Spain, and even Greece to finance their national debts at a more reasonable, sustainable cost.
Citizens’ voluntary financing of their countries’ national debt would be the most effective means of reducing strain on Europe’s financial resources, while simultaneously serving as a powerful symbol of solidarity. By contrast, turning creditor-country citizens’ tax payments into forced subsidies of other countries’ debts would undermine European cohesion. Nordic countries, for example, cannot be expected to fund other countries’ debts in the long term – especially if those countries have not made full use of their own resources.
In fact, while concerns over the eurozone’s survival tend to focus on its indebted members, Europe’s monetary union is at risk of losing one of the few members that still enjoys a triple-A credit rating: Finland. Given Finland’s difficult domestic political situation, its citizens may look to Denmark and Sweden – which boast rapid growth and low national debt, and do not pay into the European Financial Stability Facility or the European Stability Mechanism – and decide that eurozone membership costs too much and is no longer worthwhile.
Italy and Spain have enough resources to rescue themselves, and to secure the time needed to restructure their economies. Indeed, even after taking on the entire national debt, their private wealth/GDP ratios would still be higher than they are in some northern European countries.
Escaping the euro crisis is less a matter of economics than of political will. By calling upon citizens to finance their own countries’ national debts, southern Europe’s leaders can fix their own economies and strengthen the European principles of solidarity and subsidiarity.

Read more at http://www.project-syndicate.org/commentary/funding-eurozone-countries--debt-with-domestic-private-wealth-by-peter-jungen#JZlK6Z52PlulzqtP.99