martedì 28 giugno 2011

Un caso di Scola, di Paolo Rodari

Il Patriarca “retrocesso” ad arcivescovo, in una diocesi molto papale. Inchiesta sulla continuità e sulle rotture possibili

Benedetto XVI ha nominato il cardinale Angelo Scola nuovo arcivescovo di Milano. Scola, fino a oggi Patriarca di Venezia, prende il posto del cardinale Dionigi Tettamanzi che ha guidato la diocesi del capoluogo lombardo dal 2002.

Quando il 21 luglio del 2002, Festa del Redentore, il patriarca di Venezia Angelo Scola inaugurò il suo ciclo di discorsi alla città, ci fu qualcuno che provò a paragonare il suo testo a quelli che fino all’anno prima, ogni 6 dicembre, vigilia di Sant’Ambrogio, il cardinale Carlo Maria Martini aveva tenuto a Milano. Dice in proposito il vaticanista Sandro Magister: “Il linguaggio del cardinale Martini era più risaputo. Rifletteva la linea culturale e politica che da Giuseppe Dossetti, attraverso Beniamino Andreatta, ha prodotto l’Ulivo. Nei suoi discorsi di Sant’Ambrogio si intravedeva la penna di Franco Monaco (a lungo presidente dell’Azione cattolica ambrosiana su mandato di Martini, ndr), e Luigi Pizzolato, gli esperti di politica italiana da lui più ascoltati e apprezzati. Oltre che esperto, Monaco era anche parlamentare della Margherita. Pizzolato invece occupava alla Cattolica la cattedra di Storia del cristianesimo che era stata di Giuseppe Lazzati, è stato presidente di Città dell’Uomo ed era ulivista fervente. Di Scola, invece, l’ascendente è don Luigi Giussani. L’antecedente biografico è Comunione e liberazione. L’impronta teologica ed ecclesiastica rimanda a Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar, a Joseph Ratzinger e Camillo Ruini”. Nella sua prima omelia politica nella Festa del Redentore, Scola aveva dichiarato apertamente il suo debito alle analisi di Ruini sulla 'transizione' italiana. Come in Ruini, anche in Scola il parlare politico non rifletteva alcuna particolare sintonia con una frazione del Parlamento italiano. A Camaldoli, ai cenacoli estivi del cattolicesimo ulivista, Scola si sarebbe ritrovato spaesato. A differenza di Martini che vi era di casa”.

Sono passati nove anni dal 2002. A Martini è subentrato a Milano il cardinale Dionigi Tettamanzi, che lascia in queste ore. Ma il paragone tra le due linee ecclesiali e politiche, l’una più votata all’impatto dentro le sfide della contemporaneità, ratzingeriana, e l’altra della chiesa che fu di Dossetti, più votata al nascondimento sui temi etici, ma sempre sottilmente politica, regge ancora. Con un approccio molto “pastorale”, gli anni di Tettamanzi sono scivolati come acqua sulla pietra, senza scalfire il mainstream della curia ambrosiana forgiato nei lunghi anni di Martini (quelli di Scola, settantenne, saranno giocoforza molti di meno).

Ed è per questo che ha sorpreso molti la decisione del Papa di ribaltare le carte in tavola, o almeno di imprimere una svolta: dopo trentun anni (Martini arrivò a Milano nel 1980) la guida di una delle diocesi tra le più grandi e prestigiose del mondo cambia radicalmente conduzione. Il punto non è tanto, nonostante le frizioni che hanno caratterizzato nei decenni passati il rapporto tra Cl e la curia di Milano, che arrivi un figlio spirituale di don Giussani. Ma che dopo due porporati fortemente istituzionali e legati a una chiesa della mediazione, sempre alla ricerca del dialogo con il mondo, arrivi un cardinale sulla carta profondamente diverso, “carismatico”. Carismatico nel senso che la sua formazione è stata segnata da una importante appartenenza a un movimento ecclesiale: l’appartenenza a Cl portò Scola a essere escluso dal seminario di Venegono, quello stesso luogo spirituale e di studi dove Giussani si era formato. Questo sorprende: che Benedetto XVI abbia scelto di caratterizzare in senso carismatico quella che, a detta dei più, è la nomina più importante del suo pontificato. Un magistero carismatico, dicono a Milano, significa, sulla carta, contenuti forti da contrapporre a un pensiero, quello del mondo laico, sempre più debole sui valori. Un’idea precisa di linea ecclesiale, dunque. Ha detto recentemente al Foglio Alberto Melloni: “Chiunque verrà scelto sarà il ‘prescelto’ del Papa. Perché è evidente che se su altre diocesi Ratzinger accoglie i pareri dei suoi collaboratori, su Milano decide in autonomia. Non c’è per un Pontefice nomina più importante di Milano. Perché la nomina è un’autostrada verso il papato e, quindi, decisiva più per la chiesa nel suo insieme che per la diocesi ambrosiana. Insomma, il sospetto che il successore di Tettamanzi possa fare la fine di un Achille Ratti (poi Pio XI) o di un Giovanni Battista Montini (poi Paolo VI) è grande”.

Milano è una città dove le sfide che la chiesa cattolica deve affrontare sono molteplici. E dove l’abitudine a prenderle di petto non è sempre esplicita. Due giorni fa, mentre Tettamanzi beatificava don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara davanti ai fedeli riuniti in Duomo, la chiesa valdese a pochi giorni dal gay pride “benedetto” dalla nuova giunta di Giuliano Pisapia celebrava un matrimonio tra due persone omosessuali. I giornalisti hanno incalzato la curia ambrosiana per avere un commento: “Il cardinale non commenta a uso e consumo dei media”, spiega al Foglio un monsignore ambrosiano pochi passi fuori dalla sede della curia. “Ha scritto un’infinità di libri sulla famiglia e il valore del matrimonio, andate e leggervi quelli”. Milano è la città dove la sfida interculturale e interreligiosa è particolarmente sentita, e politicizzata. Due anni e mezzo fa i musulmani manifestarono in piazza San Babila arrivando poi a pregare sul sagrato del Duomo. In molti chiesero a Tettamanzi una risposta. L’arcivescovo non si ribellò pubblicamente alla “profanazione” di un luogo simbolo della cristianità occidentale. Non reagì. Egli scelse il dialogo e non i proclami. Per molti, un segno di arrendevolezza.

Eppure, proprio sul tema della convivenza con l’islam, un vescovo come Scola che a Venezia ha fondato e fatto crescere un centro studi dialogante come Oasis, ma di alto profilo culturale – anche in questo “ratzingeriano” – a Milano potrebbe dire la sua. Massimo Cacciari lo conosce bene, ha un “legame fortissimo di amicizia che spero continui anche ora”. Ritiene che Scola sia in realtà un “campione” nel dialogo con l’islam. E pensa, in controtendenza forse a un giudizio diffuso, che la sua linea di apertura “sia molto più vicina a quella di Tettamanzi di quanto si pensi”. Dice: “Ho letto oggi la lezione che Magdi Allam ha pensato di fare sul Giornale a Milano e alla sua chiesa. Ecco, se c’è una linea dalla quale Scola è distante è la linea di Allam. Sa bene che in Italia i cristiani non debbono assolutamente essere salvati dall’islam, come invece dice Allam, ma piuttosto sono i musulmani che necessitano di accoglienza da tutti indistintamente. Scola si è sempre speso per trovare sistemazioni adeguate ai fedeli di altri credo religiosi, ciò non va dimenticato. Scola raccoglierà la sfida dell’islam e la giocherà come sa fare”. E aggiunge Cacciari: “Credo sia anche per il suo importante sforzo verso l’islam, che il Papa porta oggi Scola a Milano”.

Sarà dirompente, l’arrivo di Scola, anche rispetto alla realtà ecclesiale di Milano? Don Severino Pagani, vicario episcopale della pastoralità giovanile della diocesi, invita ad alzare lo sguardo. Dice: “Tettamanzi non si è sottratto alle sfide. Ha valorizzato gli oratori che oggi sono frequentati da oltre 500 mila ragazzi. Non è questa una risposta a una città, e di più, a una diocesi in crisi di vocazioni e con attorno a sé un mondo fortemente secolarizzato? Secondo me sì. La strada è questa: ricominciare dal territorio, dai fedeli e non andare dietro agli slogan dei media. Come Martini, Tettamanzi ha cercato di volare più alto della politica e delle sue contrapposizioni. E anche più alto delle polemiche che spesso hanno un respiro esclusivamente mediatico e poco più. E sono convinto che anche Scola farà altrettanto. Ripeteva sempre Martini: ‘Quando un vescovo arriva a Milano la chiesa lo cambia, e non viceversa’. Non aspettatevi, dunque, una linea politico-ecclesiale diversa dal nuovo arcivescovo”.

Chissà se Milano cambierà il suo nuovo pastore, o se sarà il contrario. Ma è senza dubbio sull’idea stessa di diocesi, di corpo ecclesiale, che sottilmente l’approccio di Scola potrebbe incidere. Paolo Prodi, professore emerito di Storia moderna a Bologna, ha dedicato molta parte della sua ricerca scientifica a indagare le strutture del potere religioso e del potere politico, e i loro rapporti intrecciati, nella storia dell’occidente. Giudica la faccenda proprio in questa chiave storica, e profonda: “La scelta di Scola mi sorprende. Anzitutto perché è singolare che un patriarca di Venezia in qualche modo accetti di ‘retrocedere’, mi si passi il termine, a Milano. E’ davvero un unicum. Inoltre, personalmente, guardo con una certa preoccupazione l’espandersi dei movimenti ecclesiali a discapito delle chiese locali”. Secondo il professore bolognese, il problema è alla radice, nella storia della diocesi: “Non dico che Scola porterà a un affossamento delle parrocchie e di tutte le realtà ecclesiali territoriali. Dico che però la diocesi di Milano ha avuto come suo grande riformatore san Carlo Borromeo. E cosa fece san Carlo? Presule ben inserito all’interno della curia romana, sposò la chiesa milanese come sua prima e poi definitiva missione. Sposò Milano e la portò ad affermarsi fortemente come chiesa locale, anche in antagonismo rispetto a Roma, un antagonismo che sapeva di fiera autonomia. San Carlo, non a caso, aveva un rapporto complesso con gli ordini religiosi. Guardava con distacco la loro esenzione dalla giurisdizione episcopale, rifiutava in qualche modo tutto ciò che era estraneo alla chiesa intesa come realtà locale, le parrocchie. Il sacerdozio per lui era una professione da esercitare in obbedienza al vescovo. Dopo san Carlo questa tradizione tutta ambrosiana, questa specificità, è andata ampliandosi. Si è sviluppata e, a mio parere, Martini e Tettamanzi ne sono stati degli interpreti degni. Il loro ruolo è stato anzitutto quello di riallacciare quella specifica tradizione ambrosiana, pastorale e insieme sociale. L’arrivo di Scola verrà valutato a posteriori, ma intanto si può dire che la sorprendente scelta del Papa sembra in qualche modo rompere questa tradizione. L’arrivo di Scola sembra l’arrivo di un interprete di una chiesa extra territoriale, senz’altro una novità”.

Non tutti vedono questa continuità di linea tra le più recenti personalità che hanno guidato la diocesi. Molti, al contrario, vedono una cesura netta avvenuta soprattutto in tempi recenti. Una cesura tra il tempo di Alfredo Ildefonso Schuster (1929-1954), Giovanni Battista Montini (1954-1963) e Giovanni Colombo (1963-1979) e il tempo successivo, quello di Martini e Tettamanzi. E’ in particolare un ambrosiano doc, il cardinale arcivescovo emerito di Bologna Giacomo Biffi, a sostenere questa tesi tra le righe delle sue memorie, ripubblicate negli scorsi mesi per Cantagalli. Ai vescovi di Milano degli ultimi trent’anni Biffi dedica solo qualche accenno. Perché per lui – lo si evince leggendo l’intero volume – l’epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento, eredi di sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo, si è conclusa con Giovanni Colombo. E’ Scola il miracolo che Biffi auspicava a Milano? Dal suo punto di vista probabilmente sì. Anche se è tutto da vedere se Scola avrà l’audacia di affrontare i problemi più difficili, ad esempio la presenza islamica, con lo stesso spirito che ebbe Biffi a Bologna. Disse Biffi in merito all’avanzata dell’islam in Europa: “L’Europa e l’Italia non sono un deserto senza storia né tradizione, da popolare indiscriminatamente, senza rispettare il loro patrimonio culturale e spirituale, che non deve andar smarrito”.
Marco Garzonio, giornalista e psicologo analista-psicoterapeuta, conosce bene la storia della diocesi ambrosiana. Una parte di questa, l’“era Martini”, l’ha descritta nel 2002 in una fortunata biografia intitolata “Il cardinale” e uscita per Mondadori. Dice: “Martini e poi Tettamanzi hanno interpretato al meglio la tradizione lasciata dai loro predecessori, pastori che fecero dell’attaccamento al territorio e alla gente il senso del proprio magistero. Milano ha avuto fino a oggi pastori capaci di rappresentare un’alternativa vera al potere politico, di mediare nei casi più drammatici e difficili. In questo senso non c’è discontinuità dai cardinali Ferrari (Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, ndr) e Schuster fino a oggi. Negli ultimi decenni Martini ha dato una scossa decisiva alla diocesi. S’insediò che aveva solo 53 anni. Davanti a sé, dunque, gli venne volutamente dato tanto tempo per perseguire il suo scopo principale, quello di portare la Parola di Dio, la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, al centro della vita della diocesi e dell’intera città. L’ha fatto rispettando tutte le voci presenti in diocesi e godendo, non a caso, dell’apprezzamento incondizionato dell’anima più laica della stessa diocesi. Furono anni difficili.

Nei primi anni Ottanta Milano fu segnata dagli omicidi di Paolo Paoletti, dirigente dell’Icmesa, del magistrato Guido Galli e del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Questa drammatica stagione ebbe un suo epilogo importante il 13 giugno 1984 quando i terroristi consegnarono le armi in arcivescovado. La resa fu a un uomo di Dio, e non dunque a un organismo dello stato. Perché questa resa? Martini era andato a trovarli in carcere, portando loro il Vangelo, parlando loro di riscatto e di conversione”.

Garzonio, in quegli anni, è stato anche uno dei collaboratori di Martini in quel progetto, molto fortunato anche mediaticamente, che fu la “Cattedra dei non credenti”, con l’apertura di un dialogo culturale della chiesa ambrosiana con la città, mentre a Roma Papa Wojtyla invece la cultura atea la sfidava a viso aperto. Come sarà, in questo, l’impatto di un prelato intellettualmente raffinato, amante del confronto dialettico, come Scola? Giulio Giorello, che da poco ha scritto “Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo”, si aspetta molto. Proprio in queste ore sta leggendo un suo saggio per il Mulino scritto assieme ad Adriana Cavarero. S’intitola “Non uccidere”, ed è “la dimostrazione di quanto Scola sia una persona sensibile ai temi culturali che contano”, dice Giorello. Dunque a lei Scola piace? “Non vorrei deludere qualcuno, ma sì, devo dire che mi piace molto. Parto dal saggio che sto leggendo. Scola rilegge il Decalogo e lo interpreta nell’epoca odierna, nell’occidente. E’ questo un bisogno, dice, proprio del mondo cattolico e protestante ma anche delle culture estranee al cristianesimo. Ed è proprio questa la prima sfida che Scola ha davanti a Milano: aprire la diocesi alle diversità culturali. Oggi si parla di multiculturalismo. E’ un termine che non amo. Preferisco parlare di diversità culturali. Scola ha dimostrato a Venezia e nei suoi scritti di saper accogliere queste diversità, valorizzarle e ascoltarle. Se farà così anche a Milano avrà già fatto tanto”. Poi, per il filosofo della scienza, c’è “la seconda sfida”. Quella della rilevanza del pensiero tecnico-scientifico. “Mi sembra che sotto questo aspetto Scola sia un porporato attento come era prima di lui Martini. Scola sa quanto è importante per la società non castrare il sapere scientifico. E sa quanto è doveroso dialogare con esso, cercare il confronto”. Insomma, per Giorello, Scola è il massimo che Milano possa desiderare? “In un certo senso sì. Seppure un appunto vorrei farglielo”. Quale? “Ogni tanto sento nel sottofondo del suo parlare un po’ di diffidenza verso la tradizione illuminista. E’ come se egli senta l’illuminismo come una filosofia astratta. Invece anche con gli illuministi si può dialogare. E Milano ha sommamente bisogno di questo dialogo. L’illuminismo è una filosofia concreta, ancorata agli universali concreti appunto. Non si deve aver paura di essa. Essa può essere molto di aiuto anche alla chiesa se correttamente accolta per quello che è”.

Garzonio torna al confronto col “suo” cardinale, e individua un’altra linea di possibile continuità. Fu nella Milano degli anni Ottanta che iniziò la crisi che coinvolse le grandi industrie. Dice Garzonio: “Nessuno ne parlava ma Martini da subito comprese il fenomeno. Per primo andò a visitare la Pirelli alla Bicocca. Iniziarono i primi licenziamenti alla Falck, all’Alfa Romeo. Martini divenne il punto di riferimento per tanti lavoratori. Non solo, la curia divenne il luogo delle grandi mediazioni, dove le vertenze industriali venivano affrontate e spesso risolte”. A fianco di Martini, racconta Garzonio, c’era un giovane prete che poi divenne un paladino nella lotta in difesa dei diritti dei lavoratori, don Virginio Colmegna. Dopo le prime crisi aziendali la grande crisi strutturale, “la cosiddetta Tangentopoli. Martini la anticipò. Era il 1984. Fece una processione penitenziale per le vie della città. Come ai tempi di san Carlo c’era la peste che dilaniava la città, così Martini vedeva tre grandi pesti presenti a Milano che andavano debellate con tutte le forze: il terrorismo, le solitudini e la corruzione”. Dopo Martini, Tettamanzi. L’attuale arcivescovo, secondo Garzonio, “ha ereditato al meglio il grande patrimonio lasciato dal suo predecessore. Ha avuto attenzione per il lavoro, i poveri, gli immigrati. Con Tettamanzi la chiesa di Milano è rimasta fedele alla sua vocazione: nessuno scadimento sul terreno cedevole della politica ma una chiesa di popolo. Così era la chiesa di Schuster”.
Dopo Schuster arrivò Montini. Venne mandato a Milano, dice Garzonio, “in punizione principalmente per le sue aperture alla cultura francese – Montini fu uno dei primi diffusori del pensiero di Jacques Maritain – non gradite non soltanto al Sant’Uffizio ma anche al Papa. Da subito appoggiò le Acli e richiamò a predicare i personaggi messi ai margini nell’era Pacelli, ad esempio David Maria Turoldo e Primo Mazzolari. Montini fu il vescovo dei milanesi, della gente, dei lavoratori esattamente come il suo successore, Colombo. Questi stupì tutti con la messa celebrata a Natale alla fabbrica Innocenti a Lambrate proprio mentre l’ormai Papa Montini andava a celebrare messa all’Italsider di Taranto”. E’ in questa chiesa, analizza ancora Garzonio, che esplosero i grandi come Giuseppe Lazzati e poi Luigi Giussani. La differenza non è da poco. Come Cl esistono tante altre esperienze associative che hanno fatto della trasversalità rispetto alla vita diocesana il proprio modus vivendi. Basti pensare ai Focolarini o anche alla Comunità di Sant’Egidio. “Martini è stato da sempre vicino al pensiero di Lazzati, sia per gli studi biblici, sia per il suo ministero pastorale” prosegue Garzonio: “Anche per questo è stato spesso attaccato da esponenti di Cl. Agli inizi degli anni Ottanta Martini subì pesanti attacchi dal Sabato, il settimanale nel quale lavoravano molti giornalisti di Cl. poi, nel 1994, l’arcivescovo partecipò al Meeting di Rimini. Ai ciellini disse che bisognava imparare ‘ad andare in esilio’, sull’esempio del popolo ebraico. Cioè bisognava imparare a essere ‘piccolo gregge’ e ‘lievito’. Credo comunque che solo una chiesa fortemente di popolo e vivace come quella milanese poteva permettere l’espansione di Cl. Una chiesa dove gli arcivescovi hanno portato avanti sempre la medesima linea, quella della chiesa di popolo e di territorio. I movimenti, i carismi, hanno potuto vivere ed espandersi perché sotto c’era una chiesa-istituzione che teneva, che ricuciva, che valorizzava restando fedele a se stessa e vigilava che nessuno dei protagonisti pretendesse di rappresentare la via migliore rispetto agli altri”.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/9431

Manovra da diluire però attenzione ai tagli a tappeto, di Francesco Forte

La manovra di circa 42 miliardi che occupa la discussione in questi giorni merita riflessioni molto più approfondite di quelle correnti su Berlusconi presunto non rigorista versus Tremonti, vestale del rigorismo.
Occorre ponderare bene tre punti. Il primo è che una manovra che vale il 2,5% Pil (prodotto nazionale) da detrarre dalla nostra economia, nel triennio 2012 -2014, è una operazione invasiva deflattiva della dinamica del sistema di mercato. Va dosata con cautela per molte ragioni. La prima è che essa si aggiunge a quelle precedenti, di riduzione del deficit, dal 5% nel 2009 al 4,6 nel 2010, al 3,8 nel 2011 e al 2,7 nel 2012, di 2,3 punti di Pil in 3 anni: fatte con tagli orizzontali di spesa, mentre la pressione fiscale rimaneva invariata e poche imposte sono state attenuate. Si è fatto «di necessità virtù». Berlusconi ha sorretto la manovra di Tremonti facendola digerire al governo, alla maggioranza, al Paese.
La seconda ragione per cui questa nuova maxi manovra va studiata con cura è che a contrastare il suo effetto deflattivo c’è quasi solo la dinamica del nostro commercio estero, sino ad ora sospinta dall’alta crescita della Germania e dei paesi emergenti le cui dinamiche si stanno attenuando. Gli investimenti in infrastrutture e nell’edilizia non hanno agito da sostegno alla domanda, a causa dei veti (delle sinistre autolesioniste) alle politiche per la casa e delle infrastrutture.
La terza ragione di cautela è che la nostra economia in cui si inietta questa deflazione, non ha potuto beneficiare della spinta all’investimento derivante dai nuovi contratti aziendali fermi al palo, con controversie Cgil presso la magistratura. Il vento delle liberalizzazioni è stato afflosciato dai referendum contro la privatizzazione nei pubblici servizi locali. Occorre, dunque, cautela e spalmare la manovra deflattiva nel tempo, onde calibrarla al peso che l'economia può sopportare e accompagnarla con tonici del mercato come la quotazione in borsa di Ferrovie spa e tonici fiscali. L’accelerazione dell’aumento graduale nel tempo dell’età di pensione è un messaggio di rigore più efficace che una «stangata» immediata relativa al 2014, anno post elettorale che competerebbe ai governi di allora confermare. E passo, perciò, al secondo punto. Bisogna evitare una politica di puri tagli orizzontali, basata sul diktat per cui il rigore si fa solo così, perché agli effetti negativi di riduzione della domanda pubblica non vanno aggiunti quelli di diminuzione dell’efficienza della spesa del governo, soprattutto verso la crescita. Solo se i ministri non fanno proposte alternative, devono andare in vigore i tagli orizzontali. Analogamente fermo il traguardo quantitativo della manovra, il governo deve accettare che il Parlamento collabori a miglioramenti.
E vengo al terzo punto, il più delicato, che riguarda i tributi. Si ventila un aumento della cedolare sulle rendite finanziarie dal 12,5% al 23%, escludendo il debito pubblico. Ogni punto di aumento vale 300 milioni. Una maggior cedolare del 10% che riduce interessi e utili del 10% genera potenzialmente una riduzione della stessa percentuale delle azioni e obbligazioni. Se si deve cedere alla demagogia della maggior tassazione del risparmio di fronte a una crisi dovuta a carenza di risparmio, si cerchi di contenere il danno al minimo. E si faccia un aumento di 5,5 punti al 18%. Quanto all’aumento al 33% dell’aliquota contributiva sui «precari», che renderebbe 300 milioni serve ad affossare la legge Biagi e graverebbe sui giovani e gli anziani con contratti flessibili. Mira (in teoria) ad aumentare la loro pensione, ma i giovani hanno molti anni davanti per farsela, gli anziani la hanno già; e molti di questi contratti riguardano un doppio lavoro, di chi ha diritto a un’altra pensione; 300 milioni si possono prendere tagliando la spesa di un miliardo per le intercettazioni. È assurdo che mentre si discute di ridurre le imposte, si pensi ai aumentarle. Si parla anche di un aumento di 1% dell’Iva del 20%, invece occorre rivedere le agevolazioni nell’Iva e altrove per varare misure fiscali pro crescita a basso costo di gestito ed alto potenziale, onde contrastare gli effetti depressivi della manovra e accrescere l’occupazione. Così la riduzione dell’aliquota sulle imprese, sul salario di produttività e l’apprendistato.

venerdì 24 giugno 2011

La sindrome europea, di Marco Valerio Lo Prete

“Ecco perché l’occupazione negli States arranca”. Parla Lucas, il Nobel che ribaltò le tesi di Keynes

Se è vero che il pil degli Stati Uniti nel 2011è destinato a crescere del 2,7-2,9 per cento, come annunciato due giorni fa dal governatore della Fed Ben Bernanke, e non del 3,1-3,3 per cento come la stessa Fed aveva stimato ad aprile, i primi a farne le spese saranno i lavoratori americani. Ieri è arrivata una prima conferma ufficiale: negli States i sussidi per la disoccupazione, la settimana scorsa, sono arrivati a quota 429 mila, in aumento di 9.000 unità e non di 1.000 come si attendevano gli analisti. Un dato parziale, sufficiente però a far andare giù anche le Borse europee. Robert Lucas, premio Nobel per l’Economia nel 1995, non si dice affatto sorpreso della tendenza, e in una conversazione con il Foglio punta il dito contro il rischio di “europeizzazione” del capitalismo statunitense, un rischio dovuto soprattutto alle scelte dell’attuale Amministrazione democratica.
Parola del docente dell’Università di Chicago che con i suoi studi, già negli anni 70, contribuì a incrinare definitivamente il monopolio intellettuale di John Maynard Keynes e dei suoi eredi. Quando infatti, nel 1963, Milton Friedman e Anna Schwartz pubblicarono “A monetary history of the United States”, il loro libro sulle prime ebbe tutt’al più l’effetto di un leggero buffetto per le robuste schiere di macroeconomisti di allora, “keynesiani” per antonomasia.

Passarono mesi e poi anni prima che si prendesse sul serio l’idea che la Grande depressione del 1929 era stata forse frutto di un errore di politica monetaria, figlia insomma di un fallimento della politica – e più precisamente della Banca centrale, la Fed – piuttosto che di un fallimento del mercato. Per travolgere (scientificamente) la vulgata di Keynes e allievi servì ancora altro: “Nei primi anni Settanta”, ricorda infatti l’attuale capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, “un piccolo gruppo di economisti – Robert Lucas di Chicago, Thomas Sargent, allora dell’University of Minnesota e ora a Chicago, e Robert Barro, allora di Chicago e ora di Harvard – condusse un potente attacco al cuore della macroeconomia”.

In un articolo del 1978, Lucas e Sargent infatti scrivevano: “Che le previsioni (dell’economia keynesiana, ndr) fossero ampiamente errate e che la teoria sulla quale si basavano fosse fondamentalmente fallace sono ora semplici dati di fatto. Il compito che spetta agli studiosi del ciclo economico è quello di esaminare il relitto, determinare quali caratteristiche di quell’importante evento intellettuale chiamato rivoluzione keynesiana meritino di essere salvate e messe a frutto, e quali altri debbano essere invece scartate”. Quel che c’era da scartare dell’approccio keynesiano, secondo Lucas, era innanzitutto il vizio di non considerare che le persone formassero le loro aspettative in modo razionale e quindi basandosi su tutte le informazioni disponibili, mutando comportamento economico in maniera meno prevedibile di quanto non si evincesse da modelli fondati solo su relazioni di variabili che erano state valide in passato. Una volta inventate le “aspettative razionali”, scrive Blanchard, sicuramente non antipatizzante delle tesi di Keynes, “i modelli keynesiani non potevano più essere utilizzati per determinare la politica economica”.

Con Keynes messo ko, o quasi, sarebbe inutile bollare oggi, con trent’anni di ritardo, le scelte della Casa Bianca come “neo keynesiane”. Né il premio Nobel Lucas, nella conversazione con il Foglio, agita mai lo spauracchio del “socialismo” per etichettare il presidente Barack Obama. “Piuttosto penso sia in corso un processo di ‘europeizzazione’ della politica economica statunitense – dice – e ritengo che questo sia un errore”.

Innanzitutto per le future generazioni di americani, costretti – se si insistesse nella svolta europea – ad abbandonare la strada che il paese percorre ininterrottamente dal 1870: quella di un prodotto interno lordo che cresce a tassi del 3 per cento l’anno e di un reddito pro capite medio aumentato di 12 volte in termini reali dal 1870 a oggi. “Ovvero di quattro volte soltanto nel corso della mia vita”, osserva Lucas. Il governo per oltre un secolo ha fatto la sua parte, fornendo stabilità istituzionale e buoni livelli di istruzione, ma questo “miracolo in corso”, come l’ha definito il premio Nobel nel corso di una sua recente lezione all’Università di Washington, è figlio innanzitutto del capitalismo e del libero mercato. Tanto che il miracolo è stato replicato altrove: specie a partire dalla Seconda guerra mondiale, Europa, Giappone e America del Nord avevano iniziato a convergere verso livelli di ricchezza simili. Poi negli anni 70 gli inseguitori, Europa e Giappone, hanno smesso di guadagnare terreno sulla lepre americana. “Da allora la differenza tra livelli di reddito, di circa un 30 per cento, è rimasta sostanzialmente la stessa – dice Lucas – Perché? Io imputo questa differenza alle regolamentazioni eccessive che sono state introdotte e al livello di tassazione troppo elevato che è stato raggiunto nel vostro continente. Anche se è difficile provarlo in maniera definitiva”, chiosa l’economista. Ma la tesi di fondo è chiara: pressione fiscale e regolatoria a livelli asfissianti disincentivano in Europa il lavoro rispetto agli Stati Uniti, e quel gap del 30 per cento nei livelli di reddito pro capite rappresenta di fatto il costo di un welfare state più generoso che il Vecchio continente ha voluto costruire.

Oggi però gli Stati Uniti escono più rapidamente dalla recessione di quanto non stiano facendo molti paesi europei, o no? “Mi piace definire le ‘recessioni’ come quelle fasi in cui la produzione della ricchezza è inferiore al trend di crescita di lungo periodo, ovvero sotto il livello di produzione potenziale. Oggi, e la situazione è la stessa dal 2009, gli Stati Uniti sono di 8-9 punti percentuali al di sotto della propria tendenza di lungo periodo. Io questa non la chiamerei una ripresa”. Certo Lucas non è ascrivibile alla categoria dei “ventinovisti”: nota per esempio che nel 1933, a quattro anni dal crac di Wall Street, il pil americano era ancora a un livello inferiore del 30 per cento rispetto alle proiezioni di lungo termine, e nel 1941 – ovvero a oltre 10 anni di distanza – viaggiava al meno 10 per cento: “La recessione di oggi è la peggiore da allora, ma non è nemmeno lontanamente grave come quella di allora”. Ciò detto, la comparazione può tornare utile per capire ciò che sta avvenendo in questi mesi.

Lucas sulle origini e sullo svolgimento della Grande depressione fa propria buona parte delle tesi di Friedman e Schwartz. Come loro, per esempio, ritiene che imputare il tracollo di allora al tonfo borsistico dell’ottobre del 1929 sia eccessivo. Piuttosto i fallimenti bancari, la corsa agli sportelli e il progressivo inaridimento dei depositi a vista (assimilabili ai nostri conti correnti) causarono una diminuzione della liquidità in circolazione; famiglie e imprese, per ristabilire un equilibrio tra liquidità e depositi da una parte, e spese dall’altra, dovettero quindi limitare le seconde, deprimendo l’economia a lungo. La Fed sarebbe potuta intervenire aumentando le riserve bancarie e invece, per usare le parole di Friedman, “assumendo le misure deflazionistiche più estreme che abbia mai assunto nell’intera sua storia sia precedente che successiva, il risultato fu quello di trasformare la crisi in catastrofe”. Nel 1934 la crisi bancaria era terminata, ma per una piena ripresa si dovettero aspettare sette anni. Per spiegare tale ritardo, secondo Lucas, la teoria monetaria diventa inservibile. La ripresa fu rimandata piuttosto da una serie di scelte prese dalle Amministrazioni di allora: dalle concessioni fatte ai cartelli industriali al sostegno elargito ai grandi sindacati, passando soprattutto per la demonizzazione dei capitalisti. Erano i giorni, per intendersi, in cui il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt definiva gli uomini d’affari come “delinquenti di una certa ricchezza”.

Il punto è che oggi, a quasi 80 anni di distanza,
la Banca centrale americana ha dimostrato di ricordare la lezione del ’29 nel gestire la crisi. La Casa Bianca, invece, ha sbagliato di nuovo. Nel 2008 il fallimento di Lehman, “congelando” il sistema di prestiti a breve scadenza verso banche d’investimento e altri veicoli che di fatto – a seguito di alcuni cambiamenti normativi intervenuti negli anni 80 – funzionavano come i depositi a vista di un tempo, ha avuto un effetto simile a quello delle celebri “corse agli sportelli” del 1929: ha drenato offerta di liquidità. Fortunatamente Bernanke, invece di stare a guardare, ha rafforzato le riserve del sistema bancario: queste passarono da 45 miliardi di dollari nell’agosto del 2008 a 821 miliardi alla fine del 2008. “La Fed ha agito da prestatore di ultima istanza, come avrebbe dovuto fare negli anni 30”. Eppure gli investimenti languono.

Per alcuni, vedi per esempio un altro premio Nobel per l’Economia come Paul Krugman, l’Amministrazione Obama non starebbe spendendo abbastanza per rilanciare la crescita: “Lo stimolo fiscale sembra non aver contribuito per nulla alla ripresa”, controbatte Lucas, “mentre ovviamente ha incrementato il deficit fiscale”. Non solo: sotto accusa, agli occhi del premio Nobel, finisce un po’ tutta la politica economica di Obama: la riforma della sanità, con la sua “promessa di incrementare il ruolo del governo”, come anche la riforma di Wall Street, che “assegna vaste e allo stesso tempo poco chiare responsabilità alla Fed e ad altre agenzie”. Le ricadute negative si spiegano proprio alla luce della teoria delle “aspettative razionali” con cui Lucas diede l’ultima spallata a Keynes: “Ora tutti si attendono tasse più alte in futuro, e direi che questa non è proprio la via per stimolare la crescita”. C’è un esperimento della storia che sembra dare ragione a tale lettura critica delle recenti scelte della Casa Bianca, e secondo Lucas “si chiama Europa, con il suo governo più invasivo che ‘costa’ ai cittadini un livello di reddito inferiore di un terzo rispetto a quello americano”. E il Vecchio continente non se la passa proprio bene, effettivamente.

Sulla questione greca Lucas non si espone direttamente; rimanda a un articolo sul Wall Street Journal di John Cochrane e Anil Kashyap, due colleghi di Chicago secondo i quali “oggi nessuno sta salvando la Grecia. Sono i creditori della Grecia a essere salvati. Il paese preferirebbe fallire e così tornare a ottenere prestiti più in là nel tempo”. Ma visti i problemi strutturali di Atene e dintorni, per gli americani l’avvertimento rimane lo stesso: non si torna a crescere “imitando le politiche europee sul mercato del lavoro, sul welfare e sul fisco”, a meno di non accettare di riporre nel cassetto il “miracolo del libero mercato”.

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Le sfide di Draghi alla Bce

Atene s’inventa nuove tasse pur di rassicurare una pressante Europa


Merkel chiede alla Grecia l’unità nazionale contro il default. Moody’s allerta le banche italiane per il debito

Il Consiglio europeo ha aperto i suoi lavori ieri sera con l’incubo greco e la preoccupazione che George Papandreou non riuscirà a far ingoiare l’amara medicina. La gestione di una crisi che si avvicina al default sarà la prima sfida che attende la Bce e Mario Draghi il quale, ottenuto il voto del Parlamento europeo e la nomina formale del Consiglio, dovrà attendere il passaggio di consegne ufficiale il 31 ottobre. E’ chiaro però che la bomba di Atene occupa già le sue giornate. Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, parla di un rischio contagio che arriva fino agli Stati Uniti. Germania e Francia hanno chiamato a raccolta le principali banche del paese. Un campanello d’allarme suona anche in Italia. Ieri Moody’s ha messo sotto osservazione i rating dei 16 principali istituti di credito italiani, non perché coinvolti nel potenziale crac greco (sono esposti per poco più di 4 miliardi), ma per l’effetto di un possibile declassamento del debito italiano. Se scoppia una nuova tempesta finanziaria, balleranno. Il contagio passa ancora una volta attraverso i derivati, come scriveva ieri il New York Times. Secondo alcune stime, ci sarebbe una esposizione di 78,7 miliardi di dollari per la Grecia soltanto e 616 miliardi per tutti i Piigs (Italia compresa).

Intanto la troika incaricata di gestire la questione greca (composta da rappresentanti della Ue, della Bce e del Fondo monetario internazionale), è ad Atene per fare i conti e ha trovato un “buco nero” da 3,5 miliardi. Il neo ministro delle Finanze greco, Evangelos Venizelos, ieri ha annunciato che tra i provvedimenti in via di approvazione c’è l’aumento del prezzo del gasolio da riscaldamento, un’imposta una tantum per le persone che ricoprono incarichi pubblici, un “contributo di solidarietà” sul reddito che va dall’1 per cento al 5 per cento e una tassa del 10 per cento sui redditi tra gli 8.000 e i 12.000 euro. L’opposizione di centrodestra guidata da Antonis Samaras, leader di Nuova democrazia, ha detto che non sosterrà “la stessa medicina proposta da qualcuno che sta morendo grazie a essa”. Ma Angela Merkel e Jean-Claude Juncker hanno chiesto unità nazionale ai politici ellenici.

Un rapporto della Ubs (Unione banche svizzere) scrive chiaro e tondo che “la situazione politica in Grecia è sempre più tesa e fluida. Ci stiamo avvicinando al punto di rottura. La probabilità di un default nel prossimo futuro, è aumentata in modo significativo”.
I governi europei hanno convocato le principali banche per discutere la loro partecipazione, su base volontaria (questo il compromesso raggiunto tra tedeschi e francesi) a un allungamento delle scadenze (il cosiddetto rollover). Sia a Parigi sia a Francoforte, alti funzionari del Tesoro si sono incontrati con i manager delle banche più coinvolte (Bnp e Société Générale in Francia, Commerzbank e Deutsche Bank in Germania). Mentre in Olanda e Belgio nel mirino sono ING e Dexia, che ha una esposizione di 3,5 miliardi. Non solo, il gruppo franco-belga, collassato nell’autunno 2008 e salvato grazie ai soldi dei contribuenti, opera in modo massiccio sul mercato dei titoli municipali statunitensi, attraverso i quali le città alimentano i loro bilanci in rosso. Anche questo è un anello debole della catena finanziaria che attraversa l’Atlantico.

Il salvataggio greco, dunque, si trasforma in un piano di salvataggio delle banche, cercando di far ingoiare loro la necessità di mettere in conto perdite. Di qui al 3 luglio, quando si dovrà decidere se concedere o no la tranche del prestito ponte, bisogna mettere a punto anche i dettagli tecnici. I 12 miliardi promessi e non concessi sono la quarta tranche del prestito di 110 miliardi varato un anno fa (80 provengono dalla Ue e 30 dal Fondo monetario). In tutto, dodici rate trimestrali, l’ultima delle quali il 30 aprile 2013. Ma a malapena basteranno a pagare interessi e titoli in scadenza: Stavros Lygeros, analista politico del giornale conservatore Kathimerini, calcola una bolletta da 52 miliardi l’anno prossimo e da 44 miliardi nel 2013, senza contare i 14 che sono ormai in scadenza e per i quali non ci sono quattrini in cassa.

Più che la lista della spesa, però, sul tavolo del Consiglio europeo c’è ormai la variabile politica. Lo scenario ideale è che il governo Papandreou lasci il posto a una grande coalizione o a un gabinetto di salute pubblica guidato da una personalità indipendente che goda della fiducia dei mercati e delle istituzioni europee e internazionali. Il deus ex machina sarebbe Lucas Demetrios Papademos, governatore della Banca centrale dal 1994 al 2002, poi vicepresidente della Bce. Siamo dunque alla vigilia di un’amministrazione controllata, sul piano politico e non solo economico.

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mercoledì 22 giugno 2011

Conservatori? Sì grazie. Hanno tenuto insieme il mondo ma in Italia non sono di moda, di Gennaro Malgieri

Politica e tradizione. Cameron come Thatcher e Reagan hanno perseguito valori forti illuminati dal poliedrico irlandese Edmund Burke, detto il Cicerone britannico.

Essere conservatori non è difficile e neppure eccentrico. Basta saper riconoscere la banalità del bene nelle cose semplici, come i precetti non scritti del diritto naturale. E difenderli di conseguenza, costruendoci sopra una politica, un sistema, un'organizzazione sociale. A presidio di tutto, ovviamente, non può che esserci lo Stato. Non il padre-padrone, il Leviatano oppressivo, ma l'innocente regolatore delle umane pulsioni, il soggetto riconoscibile capace di prevenire le crisi di legalità e di legittimità nella sfera del potere e del conflitto travi diritti individuali. Niente di più e niente di meno. È una dottrina? Non saprei: me lo chiedo da quando ero ragazzo. Che sia un sentimento anche politico, ne sono convinto. Perciò non smetto di stupirmi quando, nel nostro Paese, si attribuisce al conservatorismo una valenza negativa. Come se fosse sinonimo di regressione. Curiosamente è stata proprio una certa destra, in taluni momenti nostalgica ed isteronazionalista, a molestare le coscienze dei moderati facendogli credere che l'essere conservatori era poco meno di una perversione. Ed eccola qui, ora, questa destra un po' disfatta, piuttosto malmessa, alla ricerca di un'identità che non riesce a trovare perché ha smarrito i fondamentali inseguendo una modernità priva di sostanza, vale a dire il nocciolo duro che dovrebbe contenerla: la tradizione. Mi è venuto in mente tutto questo (e molto altro ancora che vi risparmio) astraendomi per qualche minuto dalle pessime cronache italiche attratto dalle recenti prese di posizione del primo ministro britannico David Cameron. Conservatore, ma appartenente a quella scuola conservatrice che non considera staticamente la posizione politica che rappresenta e cerca di farla vivere in connessione con i mutamenti del tempo. Come fece Margareth Thatcher agli inizi degli anni Ottanta, come interpretò Ronald Reagan il lascito di Barry Goldwater. E nel lungo percorso sono stati accompagnati da Edmund Burke, irlandese poliedrico, capace di sezionare i grandi fenomeni della sua epoca, come la Rivoluzione francese, alla stessa stregua di entomologo che si appassiona alla vita degli insetti. Non so quanto sia consapevole Cameron nel rappresentare un riferimento concreto per quanti in Europa cercano una nuova via, ma è certo che la sua biografia dice molto di più di quanto possano dire le sue prese di posizione politiche e giornalistiche. Infatti, è la conseguenza di una formazione familiare e poi sociale la sfida lanciata al progressismo che si è dimenticato dei padri e, dunque, della famiglia, qualche giorno fa, in occasione della festa del papà, dalle colonne del «Sunday Telegraph». I padri assenti, quelli che non si occupano dei figli, incuranti del loro principale compito di educatori, sono come alcolisti che si mettono alla guida di un'automobile, ha detto. Quindi ha rincarato la dose: «I padri che se ne vanno dovrebbero vergognarsi fortemente. Non è accettabile che madri single si occupino da sole di allevare i figli». E sono ben un milione e settecentomila nel Regno Unito, che tra mille difficoltà devono provvedere alla prole che rischia di crescere male, sbandata, confusa. E, dunque, incapace di formare a sua volta famiglie «normali» intorno alle quali promuovere lo sviluppo di una società sana. La famiglia è la «pietra angolare» della comunità nazionale, la «roccia sulla quale poggia la nostra vita», il «punto di riferimento» irrinunciabile, ha detto Cameron che ha fatto appello ai padri affinché si occupino dei figli, quale che sia la loro condizione matrimoniale, se vogliono evitare che «la vergogna li sommerga», convinto com'è che senza la figura paterna difficilmente possa venir fuori un ordine civile fondato sul riconoscimento dell'autorità primaria, costituita appunto dai genitori. Che poi il primo ministro abbia intenzione di introdurre sgravi fiscali per le coppie sposate, al fine di dare sostanza alla politica che viene chiamata «family friendly» è un dettaglio, per quanto importante, nell'economia del progetto della costruzione della cosiddetta Big Society che è il cuore della rivoluzione conservatrice di Cameron. Nella citata intervista, a conferma dell'interazione tra fattori privati e logiche politiche e sociali, cui si si ispirano i nuovi Tories, il premier ricorda suo padre, morto pochi giorni prima della nascita della sua ultima figlia Florence. E dice: «Da mio padre ho imparato a riconoscere le responsabilità. Vederlo alzarsi prima dell'alba per andare al lavoro e non vederlo tornare fino a tarda notte ha avuto un forte impatto su di me». C'è un modo più efficace di invocare l'amore paterno, tenerselo stretto e nel caldo abbraccio riconoscere il principio della vita protetta, spiritualmente s'intende? I figli hanno bisogno dei padri. Ecco dove il diritto naturale incrocia il sentimento primario su cui si fonda la famiglia. Le distrazioni sollecitate dall'affermazione professionale, dalla disperazione economica, dall'avidità, dall'indifferenza non sono da sottovalutare, ma non possono costituire giustificazioni all'assenza lamentata da Cameron. Perciò buone leggi che asseverino questa visione della famiglia e della ricomposizione della società civile, sono indispensabili. Cameron proporrà nelle prossime settimane una riforma dell'organizzazione Child Maintenance and Enforcement Commission, con l'obiettivo di rendere più agevoli le pratiche per il mantenimento dei figli di coppie separate. L'obiettivo è chiaro: rinsaldare i vincoli familiari allo scopo di tutelare la prole, non lasciare sole le donne, responsabilizzare i padri. Un ritorno al passato secondo l'ottica permissiva che da circa mezzo secolo si sta impegnando per dissolvere la famiglia tradizionale? Neppure per sogno. Se «la famiglia è l'associazione istituita dalla natura per provvedere alle quotidiane necessità dell'uomo», come si legge nella «Politica» di Aristotele, è inevitabile che essa deve comporsi con gli elementi naturali che la connotano rispetto a tutte le altre organizzazioni umane. E se è altrettanto vero che «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno», secondo Montaigne, vuol ben dire che senza un padre che provveda ai propri figli diventa addirittura impossibile tenerla unita, quali che siano le ragioni dell'allontanamento.

I populismi di Lega e Vendola ostacolano le riforme economiche liberali, di Carlo Calenda

Due temi fondamentali, rispettivamente per la destra e per la sinistra, dimostrano come il baricentro della discussione pubblica si sia definitivamente arenato sulla propaganda. La riforma del fisco è il dna del centrodestra quanto la fine del precariato rappresenta quello della sinistra. Dna traditi, perché nessuno dei due schieramenti è riuscito ad affrontare in maniera efficace i problemi sottostanti quando ha governato. Lo spettro di una riforma del fisco perseguita il centrodestra dal 1994. Da quella data la pressione fiscale in Italia non ha fatto che crescere inesorabilmente. Oggi una riforma che diminuisca le tasse è esclusa dalla situazione finanziaria internazionale e dall’incapacità del centrodestra di ripensare il ruolo e il perimetro dello stato, in modo da liberare risorse da restituire ai cittadini.

La strada da percorrere è quella di abolire incentivi e sovvenzioni, ovvero le vestigia delle velleità di politica industriale e sociale dello stato italiano, in cambio di una diminuzione delle tasse su produzione e lavoro. Oggi abbiamo uno stato debole ma pervasivo, dovremmo optare per uno stato forte, anzi fortissimo, ma solo nel suo core business. Una scelta di questo tipo appartiene alle linee programmatiche di inizio legislatura di una coalizione forte e non alla fase terminale di un governo in balia di qualche “responsabile”. Quello di cui si discute è dunque una riforma a parità di tassazione che potrebbe comunque avere un positivo effetto di semplificazione e redistribuzione del carico fiscale. Il rischio d’altro canto è che una volta aperta la questione si scivoli inesorabilmente verso irresponsabili iniziative in deficit. Per capire quanto sia concreto questo rischio basta riflettere sui contenuti dell’ultimatum della Lega che poggia su due richieste in contraddizione: l’aumento della spesa pubblica, con lo spostamento dei ministeri al nord, e la richiesta di abbassamento delle tasse, non si sa con quali risorse.

Nell’altro campo il Pd non riesce a sciogliere il nodo della riforma del mercato del lavoro. Le proposte riformiste, maturate all’interno del Pd stesso, appaiono oggi estranee alla nuova linea “dura e pura” del maggior partito di opposizione. Esattamente come per il fisco nel centrodestra, anche su questo argomento non è dato sapere come lo schieramento di centrosinistra intenderebbe procedere una volta conquistato il governo del paese.

A sinistra a svolgere un ruolo analogo a quello di Bossi c’è Nichi Vendola, che sulla fine del precariato ha costruito una narrazione monca di finale, se è vero – come è vero – che nessuno sa quale sia la proposta del suo partito per determinare questo felice esito. A monte e a valle delle discussioni di questi giorni stanno due numeri: i 40 miliardi di euro da trovare per rispettare gli impegni sul deficit e il 30 per cento di disoccupazione giovanile. Dovrebbe essere chiaro a tutti che gli spazi per promesse e narrazioni sono quanto mai ristretti. Vi è unanime consenso sul fatto che l’Italia ha bisogno di riforme. Paradossalmente però, con maggioranza e opposizione condizionate dai rispettivi populismi, vi è oggi una significativa possibilità che si proceda piuttosto con pericolose controriforme.

La stabilità dei conti e la flessibilità del mercato del lavoro sono praticamente gli unici due argini che hanno tenuto negli ultimi dieci anni. Riformare si può e si deve a patto che i leader responsabili di destra e di sinistra sappiano riprendere il timone dei relativi schieramenti. Altrimenti l’impasse diventa il male minore per il presente e le elezioni un evento auspicabile per l’immediato futuro.

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martedì 21 giugno 2011

Atene al Fondo, di Michele Arnese

Parla Sadun (Fmi)

Atene al Fondo

Perché il Fmi non si fida troppo di Papandreou. “Ma l’Italia tenga sui conti”

I vertici del Fondo monetario internazionaleguardano con apprensione alle difficoltà del governo greco, per questo chiedono precise garanzie prima di erogare le altre tranche del prestito ad Atene. A spiegare la posizione del Fmi, in una conversazione con il Foglio, è Arrigo Sadun, direttore esecutivo che rappresenta al Fondo proprio la Grecia, il Portogallo e altri paesi mediterranei oltre all’Italia: “A questo punto la gestione della crisi greca comporta due fasi – dice Sadun – La prima, immediata, riguarda l’erogazione della prossima tranche del piano concordato con la troika (Fmi, Ue e Bce), perché altrimenti il governo greco non avrà liquidità sufficiente oltre luglio. In un secondo tempo, si può ipotizzare di lanciare un nuovo piano di salvataggio con tempistiche e modalità da definire”.

Per Sadun due condizioni sono necessarie per permettere al Fondo di intervenire: “Prima condizione: che il governo greco approvi il nuovo piano di austerità. Seconda condizione: che gli europei garantiscano la copertura finanziaria per almeno 12 mesi. Tale copertura può avvenire con sole risorse pubbliche, oppure con l’intervento dei privati. Quest’ultima questione è un problema europeo, che non condiziona l’intervento del Fondo”. Sadun riconosce che la partecipazione dei privati, ovvero delle banche, alla ristrutturazione del debito ellenico comporta non poche difficoltà: “Per motivi di equità e sotto la pressione dell’opinione pubblica alcuni europei vorrebbero un sostanzioso intervento-sacrificio dei privati. La Bce teme che ciò possa innescare un ‘credit event’ che la costringa a puntellare con interventi massicci il sistema bancario europeo. Inoltre, ogni tipo di ‘haircut’, ossia di taglio del valore nominale dei titoli pubblici greci, rischia di provocare una perdita di valore dei titoli che la Banca ha accettato come collaterale”.
Il direttore esecutivo del Fmi mette poi in rilievo che le attuali difficoltà del piano riflettono numerose carenze: “La crisi si è rivelata ben più grave di quanto non ammesso dallo stesso governo Papandreou”.

“Per esempio – continua Sadun – i deficit fiscali sono stati ripetutamente rivisti al ribasso. Ma il problema fondamentale è la deludente esecuzione degli impegni presi con la troika. Il piano di salvataggio era basato sulla premessa di un deciso sostegno del governo e dell’opinione pubblica. Invece sono affiorate divergenze all’interno del gabinetto, mentre la resistenza dell’opinione pubblica, o quanto meno di una parte, si è accentuata. Non si tratta soltanto di imporre misure di austerità, bensì di effettuare una profonda ristrutturazione dell’economia greca, rompendo con molte tradizioni del passato (un esteso sistema di patronage politico, ingerenza del settore pubblico nell’economia, inefficienza della Pa, etc.)”. Il vero problema della Grecia, ricorda Sadun dati alla mano, “è che dall’adozione dell’euro l’economia ha perso oltre il 30 per cento di competitività; quindi non si tratta soltanto di riassorbire gli squilibri finanziari provocati dall’eccessivo indebitamento”.

Professore, passiamo all’Italia. L’annuncio di Moody’s venerdì scorso, che segue quello analogo di S&P’s, di un possibile declassamento dell’Italia, era scontato oppure deve far riflettere governo e opposizioni? “L’aggravarsi della crisi greca – risponde Sadun – può aver influito sulle considerazioni delle agenzie di rating. Ma le motivazioni addotte a sostegno dell’avvertimento – per il momento si tratta solo di un avvertimento, anche se da prendere con la massima serietà e urgenza – fanno riferimento anche ai pericoli di un’eventuale deriva fiscale nel medio periodo. Mentre i conti pubblici appaiono in ordine per i prossimi due anni, il governo deve specificare le misure da adottare per assicurare il percorso di riduzione del deficit per il 2013-14. I recenti insuccessi elettorali della maggioranza rischiano di distrarre il governo da questo compito. Inoltre resta il problema della bassa crescita, che richiede interventi urgenti ed efficaci”.

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lunedì 20 giugno 2011

Anatomia di un fallimento greco (che può diventare europeo), di Stefano Cingolani

La crisi greca dimostra ancora una volta quanto la realtà superi la fantasia. Non c’è intrigo finanziario più complesso e misterioso: chi sono i colpevoli? I governi scialacquoni, le banche che speculano sui buoni del tesoro, i soliti Goldman boys maestri nel truccare i conti? L’ultimo capro espiatorio è George Papaconstantinou, il ministro dell’Economia che ha prescritto la cura da cavallo. Paga le proteste sociali e la perdita di consenso del governo, così George Papandreou ha deciso di sostituirlo con Evangelos Venizelos, il suo arcirivale nel Partito socialista, probabile successore alla testa del Pasok e, forse, dello stesso esecutivo.

Angela Merkel, sotto la pressione della propria opinione pubblica, cerca anch’essa qualche testa sulla quale far cadere la mannaia e chiede che i privati partecipino al nuovo salvataggio, il secondo visto che quello del maggio scorso, con 110 miliardi di euro concessi dalla Ue e dal Fondo monetario, non è bastato. La Kanzlerin vuol costringere le banche (quelle tedesche e francesi detengono il 70 per cento del debito greco collocato all’estero) a sopportare parte delle perdite, spingendole a scambiare vecchi titoli con nuovi a rendimenti diversi e scadenze più lunghe. Non una vera ristrutturazione del debito che la Banca centrale europea vuole assolutamente evitare perché equivale a una svalutazione. Ma nemmeno un tratto di penna. La cancelliera ieri nell’incontro con Nicolas Sarkozy è scesa a più miti consigli per vincere l’impuntatura francese: il coinvolgimento delle banche sarà volontario, applicando il modello usato con i paesi dell’est, nella “Iniziativa di Vienna”. Allora però, si trattava di rinegoziare prestiti, non titoli. Secondo il commissario europeo Olli Rehn si arriverà a un compromesso: subito 12 miliardi di euro per le scadenze più immediate poi a luglio un nuovo piano. Alan Greenspan, invece, ritiene che “il fallimento è quasi certo” e potrà spingere in recessione anche gli Stati Uniti.

“La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario”, spiega Pier Carlo Padoan, capo economista e vicesegretario dell’Ocse, uno che di debiti sovrani e fallimenti se ne intende perché esattamente dieci anni fa ha seguito direttamente quello argentino, come responsabile del Fondo monetario internazionale. I greci, insomma, debbono cambiare non per colpa della crisi o della speculazione internazionale, ma perché non lo hanno fatto prima; non per sottostare al diktat della Bce o del Fmi, ma nel loro stesso interesse. In questi anni, il paese è cresciuto meno degli altri, ha accumulato deficit nella bilancia con l’estero, ha pagato troppi stipendi pubblici, ha mantenuto un’età pensionabile a 55 anni mentre tutti sono arrivati a 65 (i tedeschi 67). E non si sa quanta ricchezza nazionale sia parcheggiata nel più vicino dei paradisi fiscali: Cipro. Nel loro studio sulle crisi finanziarie degli ultimi secoli, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff calcolano che dall’indipendenza, nel 1832, in poi, la Grecia sia stata per ben 50 anni in default o assai vicina al fallimento. All’Italia è accaduto per 3,4 anni dopo l’Unità, quando venne costretta a proclamare il cambio forzoso della lira. L’uscita dall’Impero ottomano, ha lasciato la Grecia orfana e povera, una crisi durata mezzo secolo, un paese agricolo, dipendente in modo assoluto dalla spesa pubblica. Gli storici sostengono che già l’Impero bizantino aveva inculcato la dipendenza da una burocrazia pubblica potente, lontana e ostile, alla quale bisognava rivolgersi attraverso un mesòn, un tramite, che in genere era l’uomo più influente della città o della provincia. Meccanismo che funziona ancora oggi: i parlamentari, eletti nei collegi provinciali, sono varianti del mèson. Il mediatore tra oligarchi e sudditi unge le ruote, scambiando benefici e consenso. Ciò provoca corruzione endemica, promozione sociale attraverso raccomandazioni e massiccia evasione fiscale (tra un quarto e un terzo del reddito disponibile, il livello più alto in occidente).

Attraversata la dittatura dei colonnelli (1967-74), il ritorno della Grecia alla democrazia coincide di fatto con il suo ingresso nella Comunità europea avvenuto nel 1981. E’ il balzo verso la modernità, il biglietto per diventare un paese normale. Gran timoniere, Andreas Papandreou, figlio di Georgios eroe della resistenza contro italiani e tedeschi, padre di George, attuale primo ministro. Fuggito negli Stati Uniti durante l’occupazione nazi-fascista, Andreas si laurea a Harvard e intraprende una solida e florida carriera universitaria. Finché il demone politico e il richiamo dinastico non lo riportano in patria. Nel 1963, Georgios, nominato primo ministro, lo vuole al proprio fianco. E qui avviene la metamorfosi. Rinuncia alla cittadinanza americana, entra in parlamento e lancia una campagna anti Usa che passa attraverso lo scontro con il servizio segreto, l’Eyp, Ethniki Ypiresia Pliroforion, strettamente legato alla Cia. Dopo il golpe, si rifugia in Svezia e si batte contro l’imperialismo yankee che accusa di essere il regista, non esattamente occulto. Non è ancora socialista, il suo partito si chiama Pak, acronimo per Movimento panellenico di liberazione. Diventa Pasok nel 1974 e per tutti gli anni ’80 gestisce il potere, entrando a pieno titolo nel pantheon dei leader socialisti europei: François Mitterrand, Bettino Craxi, Felipe González, Olof Palme.

Papandreou finisce per assomigliare a un caudillo. Con tanto di giovane moglie, Dimitra Liani, ex hostess della Olympic Airlines conosciuta durante un viaggio in aereo, che aspira a diventare una Evita Perón. Non manca la coda giudiziaria: l’affare Koskotàs che scuote il paese. L’imprenditore, proprietario della squadra di calcio Olympiakos, fuggito in Brasile, racconta di aver finanziato Papandreou il quale voleva farsi un proprio giornale per non restare sotto la mannaia della stampa ostile. Lo scandalo lo porta alla sconfitta nel 1989. L’ex primo ministro, provato dall’insufficienza cardiaca, grida alla congiura e rifiuta di presentarsi in tribunale. Alla fine viene assolto, torna al governo, abbandona per motivi di salute e lascia il posto a Simitis nel 1996. Morirà sei mesi dopo.

Figlio dell’economista Giorgio, docente egli stesso con studi in Germania e alla London School of Economics, freddo tecnocrate chiamato “il ragioniere” dagli avversari di Nuova democrazia, Simitis offre al paese una grande meta: l’ingresso nell’euro insieme ai grandi. I conti pubblici non lo consentono? Tanto peggio per i conti. Comincia così un percorso accidentato, tra austerità e finanza creativa. L’opposizione lo accusa di falsare il bilancio e tira in ballo storie che risalgono al periodo in cui ha gestito il ministero dell’Industria e, pur di privatizzare i cantieri navali, ha fatto grande uso di belletto finanziario. La vendita viene macchiata di sangue: Kostis Peratikos, figlio dell’armatore Michalis, che aveva acquistato l’azienda per poi scoprire che era sull’orlo del fallimento, è ucciso il 28 maggio 1997 dai terroristi di sinistra del gruppo “17 Novembre”.

Anche i bilanci della Grecia sono stati manipolati come quelli dei cantieri Elefsina? Ormai è più di una insinuazione, rilanciata dal New York Times. Il governo di Atene ha fatto gran uso di derivati e prestiti in cambio di guadagni futuri, pur di portare i conti pubblici in linea. L’esempio più clamoroso è aver concesso in pegno gli introiti delle lotterie e le tasse aeroportuali per gli anni a venire. Il tutto dentro un veicolo finanziario dal nome mitico: Eolo. Niente meno. Solo che il Dio dei venti semina tempesta. A ciò si aggiungono scambi di debito della sanità in dollari contro euro, spostando in avanti il pagamento degli interessi, con un onere maggiore, ma non contabilizzato nell’immediato. E’ lo swap ingegnato da Goldman Sachs e finito sotto tiro. E ancora cartolarizzazioni dei proventi derivanti dalla vendita di beni pubblici, offerti alla solita Goldman. L’accusa è che si tratti di una ragnatela costruita ad arte per confondere i controllori di Bruxelles, gli occhiuti funzionari della Banca centrale europea e gli inflessibili guardiani teutonici che ora danno fiato alle trombe per denunciare imbrogli all’ombra dell’Acropoli. La Grecia non è sola, per la verità, ben pochi possono lanciare la prima pietra. La Francia ha sottratto dal debito pubblico quello delle ferrovie, la Germania non consolida tutti i disavanzi dei Land, l’Italia ha avuto il suo swap con JPMorgan.

Tuttavia Atene ha continuato a spendere e spandere. Esempio clamoroso le Olimpiadi del 2004, alla testa del cui Comitato promotore c’era proprio il Venizelos che da ieri è ministro dell’Economia. Nessuno sa quanto siano costate con esattezza. Di certo hanno aumentato i debiti, perché tutte le grandi banche sono corse a prestare quattrini al governo guidato dal conservatore Kostas Karamanlis, in plancia di comando fino al 2009 quando è scoppiata la grande crisi. Non solo. Alla domanda di ingresso nell’euro, le spese per la difesa sfioravano il 5 per cento del pil, quasi il doppio di Francia e Inghilterra. Per che cosa? Per difendersi dalla Turchia, altro paese Nato, o per sovvenzionare mercanti di armi? Atene, insomma, s’è fatta male da sola. Ha un disavanzo dell’otto per cento, un debito pubblico di 340 miliardi di euro, pari al 140 per cento del pil, una recessione durissima (meno 6 per cento il tasso di crescita, si fa per dire, del pil), disoccupazione del 15 per cento, la bilancia dei pagamenti in deficit (meno 4,5 per cento del pil). Un paese scassato, ma non povero: con un reddito pro capite di 29.600 dollari annui nel 2010, è in linea con l’Italia (30.500 dollari).

Il dato peggiore è la debolezza della Grecia nel produrre ed esportare beni e servizi. Il debito va pagato, non demonizzato: non si tratta di un ectoplasma metafisico, se qualcuno dà, qualcun altro prende, spiega Fabrizio Saccomanni, numero due della Banca d’Italia. Un assioma semplice come la verità. Non solo: l’economista Robert Barro ha dimostrato che il debito contratto dallo stato con i propri cittadini è neutrale. Il vero problema nasce quando bisogna pagare creditori esterni, ma non si genera abbastanza reddito per far fronte agli interessi e restituire il capitale. Ciò conduce alla questione di fondo: lo sviluppo. L’alternativa al default per la Grecia è aumentare il prodotto lordo. Quindi l’aiuto più importante che l’Unione europea può darle, è crescere e farla crescere.

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sabato 18 giugno 2011

Giù le tasse, la proposta di Antonio Martino: "Per ripartire serve un'aliquota unica al 20%"

L’economista di scuola liberale: "Come dimostra l’esperienza di Reagan negli Usa, abbassando lo scaglione aumenta l’introito e l’economia riparte. Ma bisogna vincere i tabù e fare riforme vere. Serve il bisturi, non un pannicello caldo"


Come siamo giunti al panno caldo sul viso prima della rasatura, è presto detto. Antonio Martino stava dando la sua opinione sulla riforma fiscale di Tremonti, oggetto di questa intervista. Dopo un ragionamento articolato - tra verve siciliana e spirito anglosassone, com’è nel suo stile - ha concluso: «Quello che si sta facendo, è cosmesi. I nostri problemi di bilancio vanno invece affrontati con il bisturi delle riforme e non con i panni caldi della cosmesi». A questo punto - penso per ingentilire la drasticità del giudizio - ha aggiunto: «Io, per la verità, i panni caldi li adoro. Ne faccio uso per facilitare la rasatura». «Mai sentito», dico io. «L’ho imparato da Trumpers - replica Martino - il mio barbiere di Londra. Fa creme da barba meravigliose che mi faccio spedire. Le istruzioni descrivono così l’effetto del panno caldo: “I peli della barba vi si drizzeranno con orgoglio”». Martino si passa compiaciuto le dita sul viso e prosegue: «Uso anche un pennello di Trumpers. È fatto con i peli della pancia del tasso, molto più morbidi di quelli della schiena».

Potrei stare ore ad ascoltare queste cose perché il mio interlocutore passa amabilmente dai massimi sistemi alle frivolezze, dai grafici economici a certi tabacchi ginevrini che sa solo lui. Il suo ufficio di deputato del Pdl è gradevole e sommerso nella penombra di Vicolo Valdina, di fianco a Montecitorio. L’aria condizionata ci consente di stare in giacca e cravatta, lui addirittura in completo blu ambasciatore come ai tempi della Farnesina, di cui fu titolare nel 1994 col primo governo del Cav. Lo ascolterei per ore, ma la parentesi è finita.

Ho anticipato che la riforma fiscale di Tremonti non soddisfa questo incontentabile economista liberale, seguace dell’iperliberista Milton Friedman e fan di Ronald Reagan. Ma la bocciatura arriva per gradi. L’esordio è lusinghiero: «È straordinariamente positivo che Tremonti sia entrato nell’idea di riformare le imposte. Prima diceva di non avere soldi».

Tre scaglioni invece di cinque.
«Gran passo avanti. Bisognerà però vedere il livello delle aliquote e come sono definiti gli scaglioni».

Le notizie si accavallano. Nemmeno le leggo.
«Appartengo allo stesso club. Non ci credo, finché non arrivano in Parlamento».

Tre aliquote sono un progresso. Ma ai tempi d’oro del berlusconismo, 1994, si parlava di una sola.
«Fu proprio il Cav a volerla unica. Io ero per due, lui insistette per una. Aveva ragione e avrei dovuto saperlo. Ero infatti in contatto con Alvin Rabushka, il teorico dell’aliquota unica il cui motto era: “Fiscalità semplice, unica, bassa”».

Altri tempi.
«Li rimpiango. Sono rimasto legato all’aliquota unica. Che Berlusconi avesse ragione è dimostrato dai tanti Paesi che nel frattempo l’anno adottata, tra cui la Russia».

Tremonti vuole che la pressione fiscale resti intatta. Se taglia l’Irpef, aumenta l’Iva, o toglie le agevolazioni.
«Due obiezioni. Una di equità: le fasce a basso reddito non si avvantaggiano della riduzione delle aliquote e se l’Iva aumenta vanno a stare peggio. L’altra, è che l’invarianza di gettito denuncia la poca volontà di diminuire il peso dello Stato».

Tremonti punta al pareggio nel 2014.
«Il pareggio si ha in due modi: o aumentano le entrate o diminuiscono le spese».

Altre tasse? Follia. Già lavoriamo per lo Stato da gennaio a giugno.
«E finché continua non saremo un Paese libero».

Non resta che ridurre la spesa.
«A patto di farlo con riforme vere. I risparmi dell’oste a legislazione invariata sono rischiosi. L’elicottero militare italiano in Francia con sette elicotteristi a bordo, tutti morti, è precipitato perché mancavano i soldi per la revisione. Il pilota lo sapeva e non voleva decollare».

Che intende per tagli con le riforme?
«Vincere tabù. Io non penso, come Tremonti, che modificare il Welfare sia “macelleria sociale”».

Tra le proposte, quella di favorire le famiglie rispetto a scapoli e zitelle.
«Versione educata e moderna dell’imposta sul celibato introdotta da Mussolini».

Quando Reagan rivoluzionò il Fisco Usa, usò anche lui il bilancino, un taglio qua, un regalo là, ecc.?
«Fu radicale. Passò dall’imposta massima del 70 per cento a quella del 28».

Quanto perse in gettito?
«Aumentò, passando dal 7-8 per cento, all’8,1. Il deficit crebbe dello 0,1 per cento».

Com’è?
«La produzione schizzò su. L’abbassamento delle aliquote genera due effetti. L’effetto “onestà” perché si pagano le tasse e l’effetto reddito perché l’economia tira di più».

Torniamo a noi. Vale la pena affannarsi per lasciare su per giù le cose come stanno?
«Stiamo facendo cosmesi. L’espediente avrebbe senso solo se servisse a convincere i nostri elettori che qualcosa cambia. Ne dubito. (A questo punto, Martino parla del bisturi che sarebbe necessario e dell’inutilità dei pannicelli caldi).

Che farebbe lei al posto di Tremonti?
«Due cose: diminuire le spese e tagliare le tasse. Con-tempo-ra-nea-me-nte. Non una prima e l’altra dopo».

Quali spese?
«Riformerei le pensioni, innalzando l’età pensionabile di uomini e soprattutto delle donne. Cambierei la Sanità, togliendo l’assistenza gratuita ai privati sopra un certo reddito, lei e me, per intenderci. Supplirà l’assicurazione privata. Darei un taglio agli enti locali, oggi proliferanti».

Dal lato tasse?
«Aliquota unica, da definire, ma intorno al 20 per cento».

E lo Stato va a ramengo.
«Non è informato. Sa quant’è il gettito delle imposte dirette? No, che non lo sa. È minimo: il 14,6 per cento del Pil. E in ogni caso, come le ho già spiegato parlando di Reagan, abbassando l’aliquota, l’introito aumenta».

Lei ed io, in mezzora, abbiamo risolto tutto. Chi vuole ci segua. Passiamo ad altro. Basterà la riforma fiscale che si profila a fermare il declino del centrodestra?
«Il nostro declino è quello di Bush padre. Era reduce da una strepitosa vittoria in Kuwait ma mentì sulle tasse. Promise di non aumentarle. Le aumentò e vinse Clinton. Noi avevamo detto che le avremmo tagliate e non lo abbiamo fatto».

Sul declino hanno inciso più bunga bunga, guerra libica, immobilismo, lesina tremontiana o il naturale venire a noia del Cav?
«Manca il partito. Il Pdl è Berlusconi, circondato da persone che vogliono favori da lui. Ci vuole un meccanismo di selezione del personale politico. Non che vada avanti l’amico dell’amico, il drudo e così via, mentre i bravi arrancano».

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