mercoledì 22 giugno 2011

I populismi di Lega e Vendola ostacolano le riforme economiche liberali, di Carlo Calenda

Due temi fondamentali, rispettivamente per la destra e per la sinistra, dimostrano come il baricentro della discussione pubblica si sia definitivamente arenato sulla propaganda. La riforma del fisco è il dna del centrodestra quanto la fine del precariato rappresenta quello della sinistra. Dna traditi, perché nessuno dei due schieramenti è riuscito ad affrontare in maniera efficace i problemi sottostanti quando ha governato. Lo spettro di una riforma del fisco perseguita il centrodestra dal 1994. Da quella data la pressione fiscale in Italia non ha fatto che crescere inesorabilmente. Oggi una riforma che diminuisca le tasse è esclusa dalla situazione finanziaria internazionale e dall’incapacità del centrodestra di ripensare il ruolo e il perimetro dello stato, in modo da liberare risorse da restituire ai cittadini.

La strada da percorrere è quella di abolire incentivi e sovvenzioni, ovvero le vestigia delle velleità di politica industriale e sociale dello stato italiano, in cambio di una diminuzione delle tasse su produzione e lavoro. Oggi abbiamo uno stato debole ma pervasivo, dovremmo optare per uno stato forte, anzi fortissimo, ma solo nel suo core business. Una scelta di questo tipo appartiene alle linee programmatiche di inizio legislatura di una coalizione forte e non alla fase terminale di un governo in balia di qualche “responsabile”. Quello di cui si discute è dunque una riforma a parità di tassazione che potrebbe comunque avere un positivo effetto di semplificazione e redistribuzione del carico fiscale. Il rischio d’altro canto è che una volta aperta la questione si scivoli inesorabilmente verso irresponsabili iniziative in deficit. Per capire quanto sia concreto questo rischio basta riflettere sui contenuti dell’ultimatum della Lega che poggia su due richieste in contraddizione: l’aumento della spesa pubblica, con lo spostamento dei ministeri al nord, e la richiesta di abbassamento delle tasse, non si sa con quali risorse.

Nell’altro campo il Pd non riesce a sciogliere il nodo della riforma del mercato del lavoro. Le proposte riformiste, maturate all’interno del Pd stesso, appaiono oggi estranee alla nuova linea “dura e pura” del maggior partito di opposizione. Esattamente come per il fisco nel centrodestra, anche su questo argomento non è dato sapere come lo schieramento di centrosinistra intenderebbe procedere una volta conquistato il governo del paese.

A sinistra a svolgere un ruolo analogo a quello di Bossi c’è Nichi Vendola, che sulla fine del precariato ha costruito una narrazione monca di finale, se è vero – come è vero – che nessuno sa quale sia la proposta del suo partito per determinare questo felice esito. A monte e a valle delle discussioni di questi giorni stanno due numeri: i 40 miliardi di euro da trovare per rispettare gli impegni sul deficit e il 30 per cento di disoccupazione giovanile. Dovrebbe essere chiaro a tutti che gli spazi per promesse e narrazioni sono quanto mai ristretti. Vi è unanime consenso sul fatto che l’Italia ha bisogno di riforme. Paradossalmente però, con maggioranza e opposizione condizionate dai rispettivi populismi, vi è oggi una significativa possibilità che si proceda piuttosto con pericolose controriforme.

La stabilità dei conti e la flessibilità del mercato del lavoro sono praticamente gli unici due argini che hanno tenuto negli ultimi dieci anni. Riformare si può e si deve a patto che i leader responsabili di destra e di sinistra sappiano riprendere il timone dei relativi schieramenti. Altrimenti l’impasse diventa il male minore per il presente e le elezioni un evento auspicabile per l’immediato futuro.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/9379

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