lunedì 20 giugno 2011

Anatomia di un fallimento greco (che può diventare europeo), di Stefano Cingolani

La crisi greca dimostra ancora una volta quanto la realtà superi la fantasia. Non c’è intrigo finanziario più complesso e misterioso: chi sono i colpevoli? I governi scialacquoni, le banche che speculano sui buoni del tesoro, i soliti Goldman boys maestri nel truccare i conti? L’ultimo capro espiatorio è George Papaconstantinou, il ministro dell’Economia che ha prescritto la cura da cavallo. Paga le proteste sociali e la perdita di consenso del governo, così George Papandreou ha deciso di sostituirlo con Evangelos Venizelos, il suo arcirivale nel Partito socialista, probabile successore alla testa del Pasok e, forse, dello stesso esecutivo.

Angela Merkel, sotto la pressione della propria opinione pubblica, cerca anch’essa qualche testa sulla quale far cadere la mannaia e chiede che i privati partecipino al nuovo salvataggio, il secondo visto che quello del maggio scorso, con 110 miliardi di euro concessi dalla Ue e dal Fondo monetario, non è bastato. La Kanzlerin vuol costringere le banche (quelle tedesche e francesi detengono il 70 per cento del debito greco collocato all’estero) a sopportare parte delle perdite, spingendole a scambiare vecchi titoli con nuovi a rendimenti diversi e scadenze più lunghe. Non una vera ristrutturazione del debito che la Banca centrale europea vuole assolutamente evitare perché equivale a una svalutazione. Ma nemmeno un tratto di penna. La cancelliera ieri nell’incontro con Nicolas Sarkozy è scesa a più miti consigli per vincere l’impuntatura francese: il coinvolgimento delle banche sarà volontario, applicando il modello usato con i paesi dell’est, nella “Iniziativa di Vienna”. Allora però, si trattava di rinegoziare prestiti, non titoli. Secondo il commissario europeo Olli Rehn si arriverà a un compromesso: subito 12 miliardi di euro per le scadenze più immediate poi a luglio un nuovo piano. Alan Greenspan, invece, ritiene che “il fallimento è quasi certo” e potrà spingere in recessione anche gli Stati Uniti.

“La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario”, spiega Pier Carlo Padoan, capo economista e vicesegretario dell’Ocse, uno che di debiti sovrani e fallimenti se ne intende perché esattamente dieci anni fa ha seguito direttamente quello argentino, come responsabile del Fondo monetario internazionale. I greci, insomma, debbono cambiare non per colpa della crisi o della speculazione internazionale, ma perché non lo hanno fatto prima; non per sottostare al diktat della Bce o del Fmi, ma nel loro stesso interesse. In questi anni, il paese è cresciuto meno degli altri, ha accumulato deficit nella bilancia con l’estero, ha pagato troppi stipendi pubblici, ha mantenuto un’età pensionabile a 55 anni mentre tutti sono arrivati a 65 (i tedeschi 67). E non si sa quanta ricchezza nazionale sia parcheggiata nel più vicino dei paradisi fiscali: Cipro. Nel loro studio sulle crisi finanziarie degli ultimi secoli, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff calcolano che dall’indipendenza, nel 1832, in poi, la Grecia sia stata per ben 50 anni in default o assai vicina al fallimento. All’Italia è accaduto per 3,4 anni dopo l’Unità, quando venne costretta a proclamare il cambio forzoso della lira. L’uscita dall’Impero ottomano, ha lasciato la Grecia orfana e povera, una crisi durata mezzo secolo, un paese agricolo, dipendente in modo assoluto dalla spesa pubblica. Gli storici sostengono che già l’Impero bizantino aveva inculcato la dipendenza da una burocrazia pubblica potente, lontana e ostile, alla quale bisognava rivolgersi attraverso un mesòn, un tramite, che in genere era l’uomo più influente della città o della provincia. Meccanismo che funziona ancora oggi: i parlamentari, eletti nei collegi provinciali, sono varianti del mèson. Il mediatore tra oligarchi e sudditi unge le ruote, scambiando benefici e consenso. Ciò provoca corruzione endemica, promozione sociale attraverso raccomandazioni e massiccia evasione fiscale (tra un quarto e un terzo del reddito disponibile, il livello più alto in occidente).

Attraversata la dittatura dei colonnelli (1967-74), il ritorno della Grecia alla democrazia coincide di fatto con il suo ingresso nella Comunità europea avvenuto nel 1981. E’ il balzo verso la modernità, il biglietto per diventare un paese normale. Gran timoniere, Andreas Papandreou, figlio di Georgios eroe della resistenza contro italiani e tedeschi, padre di George, attuale primo ministro. Fuggito negli Stati Uniti durante l’occupazione nazi-fascista, Andreas si laurea a Harvard e intraprende una solida e florida carriera universitaria. Finché il demone politico e il richiamo dinastico non lo riportano in patria. Nel 1963, Georgios, nominato primo ministro, lo vuole al proprio fianco. E qui avviene la metamorfosi. Rinuncia alla cittadinanza americana, entra in parlamento e lancia una campagna anti Usa che passa attraverso lo scontro con il servizio segreto, l’Eyp, Ethniki Ypiresia Pliroforion, strettamente legato alla Cia. Dopo il golpe, si rifugia in Svezia e si batte contro l’imperialismo yankee che accusa di essere il regista, non esattamente occulto. Non è ancora socialista, il suo partito si chiama Pak, acronimo per Movimento panellenico di liberazione. Diventa Pasok nel 1974 e per tutti gli anni ’80 gestisce il potere, entrando a pieno titolo nel pantheon dei leader socialisti europei: François Mitterrand, Bettino Craxi, Felipe González, Olof Palme.

Papandreou finisce per assomigliare a un caudillo. Con tanto di giovane moglie, Dimitra Liani, ex hostess della Olympic Airlines conosciuta durante un viaggio in aereo, che aspira a diventare una Evita Perón. Non manca la coda giudiziaria: l’affare Koskotàs che scuote il paese. L’imprenditore, proprietario della squadra di calcio Olympiakos, fuggito in Brasile, racconta di aver finanziato Papandreou il quale voleva farsi un proprio giornale per non restare sotto la mannaia della stampa ostile. Lo scandalo lo porta alla sconfitta nel 1989. L’ex primo ministro, provato dall’insufficienza cardiaca, grida alla congiura e rifiuta di presentarsi in tribunale. Alla fine viene assolto, torna al governo, abbandona per motivi di salute e lascia il posto a Simitis nel 1996. Morirà sei mesi dopo.

Figlio dell’economista Giorgio, docente egli stesso con studi in Germania e alla London School of Economics, freddo tecnocrate chiamato “il ragioniere” dagli avversari di Nuova democrazia, Simitis offre al paese una grande meta: l’ingresso nell’euro insieme ai grandi. I conti pubblici non lo consentono? Tanto peggio per i conti. Comincia così un percorso accidentato, tra austerità e finanza creativa. L’opposizione lo accusa di falsare il bilancio e tira in ballo storie che risalgono al periodo in cui ha gestito il ministero dell’Industria e, pur di privatizzare i cantieri navali, ha fatto grande uso di belletto finanziario. La vendita viene macchiata di sangue: Kostis Peratikos, figlio dell’armatore Michalis, che aveva acquistato l’azienda per poi scoprire che era sull’orlo del fallimento, è ucciso il 28 maggio 1997 dai terroristi di sinistra del gruppo “17 Novembre”.

Anche i bilanci della Grecia sono stati manipolati come quelli dei cantieri Elefsina? Ormai è più di una insinuazione, rilanciata dal New York Times. Il governo di Atene ha fatto gran uso di derivati e prestiti in cambio di guadagni futuri, pur di portare i conti pubblici in linea. L’esempio più clamoroso è aver concesso in pegno gli introiti delle lotterie e le tasse aeroportuali per gli anni a venire. Il tutto dentro un veicolo finanziario dal nome mitico: Eolo. Niente meno. Solo che il Dio dei venti semina tempesta. A ciò si aggiungono scambi di debito della sanità in dollari contro euro, spostando in avanti il pagamento degli interessi, con un onere maggiore, ma non contabilizzato nell’immediato. E’ lo swap ingegnato da Goldman Sachs e finito sotto tiro. E ancora cartolarizzazioni dei proventi derivanti dalla vendita di beni pubblici, offerti alla solita Goldman. L’accusa è che si tratti di una ragnatela costruita ad arte per confondere i controllori di Bruxelles, gli occhiuti funzionari della Banca centrale europea e gli inflessibili guardiani teutonici che ora danno fiato alle trombe per denunciare imbrogli all’ombra dell’Acropoli. La Grecia non è sola, per la verità, ben pochi possono lanciare la prima pietra. La Francia ha sottratto dal debito pubblico quello delle ferrovie, la Germania non consolida tutti i disavanzi dei Land, l’Italia ha avuto il suo swap con JPMorgan.

Tuttavia Atene ha continuato a spendere e spandere. Esempio clamoroso le Olimpiadi del 2004, alla testa del cui Comitato promotore c’era proprio il Venizelos che da ieri è ministro dell’Economia. Nessuno sa quanto siano costate con esattezza. Di certo hanno aumentato i debiti, perché tutte le grandi banche sono corse a prestare quattrini al governo guidato dal conservatore Kostas Karamanlis, in plancia di comando fino al 2009 quando è scoppiata la grande crisi. Non solo. Alla domanda di ingresso nell’euro, le spese per la difesa sfioravano il 5 per cento del pil, quasi il doppio di Francia e Inghilterra. Per che cosa? Per difendersi dalla Turchia, altro paese Nato, o per sovvenzionare mercanti di armi? Atene, insomma, s’è fatta male da sola. Ha un disavanzo dell’otto per cento, un debito pubblico di 340 miliardi di euro, pari al 140 per cento del pil, una recessione durissima (meno 6 per cento il tasso di crescita, si fa per dire, del pil), disoccupazione del 15 per cento, la bilancia dei pagamenti in deficit (meno 4,5 per cento del pil). Un paese scassato, ma non povero: con un reddito pro capite di 29.600 dollari annui nel 2010, è in linea con l’Italia (30.500 dollari).

Il dato peggiore è la debolezza della Grecia nel produrre ed esportare beni e servizi. Il debito va pagato, non demonizzato: non si tratta di un ectoplasma metafisico, se qualcuno dà, qualcun altro prende, spiega Fabrizio Saccomanni, numero due della Banca d’Italia. Un assioma semplice come la verità. Non solo: l’economista Robert Barro ha dimostrato che il debito contratto dallo stato con i propri cittadini è neutrale. Il vero problema nasce quando bisogna pagare creditori esterni, ma non si genera abbastanza reddito per far fronte agli interessi e restituire il capitale. Ciò conduce alla questione di fondo: lo sviluppo. L’alternativa al default per la Grecia è aumentare il prodotto lordo. Quindi l’aiuto più importante che l’Unione europea può darle, è crescere e farla crescere.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/9346

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