venerdì 24 giugno 2011

La sindrome europea, di Marco Valerio Lo Prete

“Ecco perché l’occupazione negli States arranca”. Parla Lucas, il Nobel che ribaltò le tesi di Keynes

Se è vero che il pil degli Stati Uniti nel 2011è destinato a crescere del 2,7-2,9 per cento, come annunciato due giorni fa dal governatore della Fed Ben Bernanke, e non del 3,1-3,3 per cento come la stessa Fed aveva stimato ad aprile, i primi a farne le spese saranno i lavoratori americani. Ieri è arrivata una prima conferma ufficiale: negli States i sussidi per la disoccupazione, la settimana scorsa, sono arrivati a quota 429 mila, in aumento di 9.000 unità e non di 1.000 come si attendevano gli analisti. Un dato parziale, sufficiente però a far andare giù anche le Borse europee. Robert Lucas, premio Nobel per l’Economia nel 1995, non si dice affatto sorpreso della tendenza, e in una conversazione con il Foglio punta il dito contro il rischio di “europeizzazione” del capitalismo statunitense, un rischio dovuto soprattutto alle scelte dell’attuale Amministrazione democratica.
Parola del docente dell’Università di Chicago che con i suoi studi, già negli anni 70, contribuì a incrinare definitivamente il monopolio intellettuale di John Maynard Keynes e dei suoi eredi. Quando infatti, nel 1963, Milton Friedman e Anna Schwartz pubblicarono “A monetary history of the United States”, il loro libro sulle prime ebbe tutt’al più l’effetto di un leggero buffetto per le robuste schiere di macroeconomisti di allora, “keynesiani” per antonomasia.

Passarono mesi e poi anni prima che si prendesse sul serio l’idea che la Grande depressione del 1929 era stata forse frutto di un errore di politica monetaria, figlia insomma di un fallimento della politica – e più precisamente della Banca centrale, la Fed – piuttosto che di un fallimento del mercato. Per travolgere (scientificamente) la vulgata di Keynes e allievi servì ancora altro: “Nei primi anni Settanta”, ricorda infatti l’attuale capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, “un piccolo gruppo di economisti – Robert Lucas di Chicago, Thomas Sargent, allora dell’University of Minnesota e ora a Chicago, e Robert Barro, allora di Chicago e ora di Harvard – condusse un potente attacco al cuore della macroeconomia”.

In un articolo del 1978, Lucas e Sargent infatti scrivevano: “Che le previsioni (dell’economia keynesiana, ndr) fossero ampiamente errate e che la teoria sulla quale si basavano fosse fondamentalmente fallace sono ora semplici dati di fatto. Il compito che spetta agli studiosi del ciclo economico è quello di esaminare il relitto, determinare quali caratteristiche di quell’importante evento intellettuale chiamato rivoluzione keynesiana meritino di essere salvate e messe a frutto, e quali altri debbano essere invece scartate”. Quel che c’era da scartare dell’approccio keynesiano, secondo Lucas, era innanzitutto il vizio di non considerare che le persone formassero le loro aspettative in modo razionale e quindi basandosi su tutte le informazioni disponibili, mutando comportamento economico in maniera meno prevedibile di quanto non si evincesse da modelli fondati solo su relazioni di variabili che erano state valide in passato. Una volta inventate le “aspettative razionali”, scrive Blanchard, sicuramente non antipatizzante delle tesi di Keynes, “i modelli keynesiani non potevano più essere utilizzati per determinare la politica economica”.

Con Keynes messo ko, o quasi, sarebbe inutile bollare oggi, con trent’anni di ritardo, le scelte della Casa Bianca come “neo keynesiane”. Né il premio Nobel Lucas, nella conversazione con il Foglio, agita mai lo spauracchio del “socialismo” per etichettare il presidente Barack Obama. “Piuttosto penso sia in corso un processo di ‘europeizzazione’ della politica economica statunitense – dice – e ritengo che questo sia un errore”.

Innanzitutto per le future generazioni di americani, costretti – se si insistesse nella svolta europea – ad abbandonare la strada che il paese percorre ininterrottamente dal 1870: quella di un prodotto interno lordo che cresce a tassi del 3 per cento l’anno e di un reddito pro capite medio aumentato di 12 volte in termini reali dal 1870 a oggi. “Ovvero di quattro volte soltanto nel corso della mia vita”, osserva Lucas. Il governo per oltre un secolo ha fatto la sua parte, fornendo stabilità istituzionale e buoni livelli di istruzione, ma questo “miracolo in corso”, come l’ha definito il premio Nobel nel corso di una sua recente lezione all’Università di Washington, è figlio innanzitutto del capitalismo e del libero mercato. Tanto che il miracolo è stato replicato altrove: specie a partire dalla Seconda guerra mondiale, Europa, Giappone e America del Nord avevano iniziato a convergere verso livelli di ricchezza simili. Poi negli anni 70 gli inseguitori, Europa e Giappone, hanno smesso di guadagnare terreno sulla lepre americana. “Da allora la differenza tra livelli di reddito, di circa un 30 per cento, è rimasta sostanzialmente la stessa – dice Lucas – Perché? Io imputo questa differenza alle regolamentazioni eccessive che sono state introdotte e al livello di tassazione troppo elevato che è stato raggiunto nel vostro continente. Anche se è difficile provarlo in maniera definitiva”, chiosa l’economista. Ma la tesi di fondo è chiara: pressione fiscale e regolatoria a livelli asfissianti disincentivano in Europa il lavoro rispetto agli Stati Uniti, e quel gap del 30 per cento nei livelli di reddito pro capite rappresenta di fatto il costo di un welfare state più generoso che il Vecchio continente ha voluto costruire.

Oggi però gli Stati Uniti escono più rapidamente dalla recessione di quanto non stiano facendo molti paesi europei, o no? “Mi piace definire le ‘recessioni’ come quelle fasi in cui la produzione della ricchezza è inferiore al trend di crescita di lungo periodo, ovvero sotto il livello di produzione potenziale. Oggi, e la situazione è la stessa dal 2009, gli Stati Uniti sono di 8-9 punti percentuali al di sotto della propria tendenza di lungo periodo. Io questa non la chiamerei una ripresa”. Certo Lucas non è ascrivibile alla categoria dei “ventinovisti”: nota per esempio che nel 1933, a quattro anni dal crac di Wall Street, il pil americano era ancora a un livello inferiore del 30 per cento rispetto alle proiezioni di lungo termine, e nel 1941 – ovvero a oltre 10 anni di distanza – viaggiava al meno 10 per cento: “La recessione di oggi è la peggiore da allora, ma non è nemmeno lontanamente grave come quella di allora”. Ciò detto, la comparazione può tornare utile per capire ciò che sta avvenendo in questi mesi.

Lucas sulle origini e sullo svolgimento della Grande depressione fa propria buona parte delle tesi di Friedman e Schwartz. Come loro, per esempio, ritiene che imputare il tracollo di allora al tonfo borsistico dell’ottobre del 1929 sia eccessivo. Piuttosto i fallimenti bancari, la corsa agli sportelli e il progressivo inaridimento dei depositi a vista (assimilabili ai nostri conti correnti) causarono una diminuzione della liquidità in circolazione; famiglie e imprese, per ristabilire un equilibrio tra liquidità e depositi da una parte, e spese dall’altra, dovettero quindi limitare le seconde, deprimendo l’economia a lungo. La Fed sarebbe potuta intervenire aumentando le riserve bancarie e invece, per usare le parole di Friedman, “assumendo le misure deflazionistiche più estreme che abbia mai assunto nell’intera sua storia sia precedente che successiva, il risultato fu quello di trasformare la crisi in catastrofe”. Nel 1934 la crisi bancaria era terminata, ma per una piena ripresa si dovettero aspettare sette anni. Per spiegare tale ritardo, secondo Lucas, la teoria monetaria diventa inservibile. La ripresa fu rimandata piuttosto da una serie di scelte prese dalle Amministrazioni di allora: dalle concessioni fatte ai cartelli industriali al sostegno elargito ai grandi sindacati, passando soprattutto per la demonizzazione dei capitalisti. Erano i giorni, per intendersi, in cui il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt definiva gli uomini d’affari come “delinquenti di una certa ricchezza”.

Il punto è che oggi, a quasi 80 anni di distanza,
la Banca centrale americana ha dimostrato di ricordare la lezione del ’29 nel gestire la crisi. La Casa Bianca, invece, ha sbagliato di nuovo. Nel 2008 il fallimento di Lehman, “congelando” il sistema di prestiti a breve scadenza verso banche d’investimento e altri veicoli che di fatto – a seguito di alcuni cambiamenti normativi intervenuti negli anni 80 – funzionavano come i depositi a vista di un tempo, ha avuto un effetto simile a quello delle celebri “corse agli sportelli” del 1929: ha drenato offerta di liquidità. Fortunatamente Bernanke, invece di stare a guardare, ha rafforzato le riserve del sistema bancario: queste passarono da 45 miliardi di dollari nell’agosto del 2008 a 821 miliardi alla fine del 2008. “La Fed ha agito da prestatore di ultima istanza, come avrebbe dovuto fare negli anni 30”. Eppure gli investimenti languono.

Per alcuni, vedi per esempio un altro premio Nobel per l’Economia come Paul Krugman, l’Amministrazione Obama non starebbe spendendo abbastanza per rilanciare la crescita: “Lo stimolo fiscale sembra non aver contribuito per nulla alla ripresa”, controbatte Lucas, “mentre ovviamente ha incrementato il deficit fiscale”. Non solo: sotto accusa, agli occhi del premio Nobel, finisce un po’ tutta la politica economica di Obama: la riforma della sanità, con la sua “promessa di incrementare il ruolo del governo”, come anche la riforma di Wall Street, che “assegna vaste e allo stesso tempo poco chiare responsabilità alla Fed e ad altre agenzie”. Le ricadute negative si spiegano proprio alla luce della teoria delle “aspettative razionali” con cui Lucas diede l’ultima spallata a Keynes: “Ora tutti si attendono tasse più alte in futuro, e direi che questa non è proprio la via per stimolare la crescita”. C’è un esperimento della storia che sembra dare ragione a tale lettura critica delle recenti scelte della Casa Bianca, e secondo Lucas “si chiama Europa, con il suo governo più invasivo che ‘costa’ ai cittadini un livello di reddito inferiore di un terzo rispetto a quello americano”. E il Vecchio continente non se la passa proprio bene, effettivamente.

Sulla questione greca Lucas non si espone direttamente; rimanda a un articolo sul Wall Street Journal di John Cochrane e Anil Kashyap, due colleghi di Chicago secondo i quali “oggi nessuno sta salvando la Grecia. Sono i creditori della Grecia a essere salvati. Il paese preferirebbe fallire e così tornare a ottenere prestiti più in là nel tempo”. Ma visti i problemi strutturali di Atene e dintorni, per gli americani l’avvertimento rimane lo stesso: non si torna a crescere “imitando le politiche europee sul mercato del lavoro, sul welfare e sul fisco”, a meno di non accettare di riporre nel cassetto il “miracolo del libero mercato”.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/9399

Nessun commento: