mercoledì 5 novembre 2014

Cari tedeschi, mollate l'euro, di Marco Valerio Lo Prete

L’economista americano Meltzer tifa per il rigore e ci dice che Berlino deve farsi un euro forte per sé e i paesi nordici. Così si torna a crescere (pure in Italia) senza tradire l’idea di Europa. Se ne parla in Germania


“E in questo caso, come la mettiamo con la Francia?”. Così avrebbe risposto il ministro delle Finanze tedesco, Schäuble, al collega di un altro paese del nord Europa che gli parlava del “piano Meltzer”
Roma. Un euro forte per la Germania e gli altri paesi del nord Europa; un euro debole per i paesi mediterranei e periferici. In questo modo alcuni stati non saranno costretti a sobbarcarsi i debiti altrui, mentre gli altri avranno un’ultima occasione di avviare riforme senza invocare a ogni piè sospinto stampelle esterne. “Euro uno” ed “euro due”: una separazione della moneta unica più consensuale che no, con un prezzo da pagare certo, ma comunque un allontanamento più temporaneo che definitivo. “E in questo caso, come la mettiamo con la Francia?”, ha risposto una volta – scherzando, ma anche no – Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, al suo omologo di un paese nordico che gli aveva sottoposto il piano di cui sopra. Un piano che il ministro in questione non aveva inventato da sé, ma letto in un saggio di Allan Meltzer che lo stesso Schäuble aveva compulsato.

Bostoniano classe 1928, a 86 anni Meltzer è conosciuto come l’autore di una monumentale storia della Federal reserve, due volumi, 1.500 pagine in tutto per raccontare la politica monetaria americana fino al 1969. Con tanto di complimenti del Maestro, l’ex governatore Alan Greenspan. Consigliere di Ronald Reagan per due anni, fortemente allergico allo stato, Meltzer è oggi presidente uscente della Mont Pelerin Society, un esclusivo club internazionale di personalità liberali e liberiste già presieduto da Friedrich Von Hayek, Bruno Leoni, Milton Friedman e Kenneth Minogue. Raggiunto dal Foglio, sul siparietto di cui sopra tra i due ministri dell’Eurozona non smentisce nulla, ma si limita a dire: “Non faccio politica, mi capisca. Però so per certo che alcuni ministri europei conoscono bene la mia proposta dei due euro”.

I contenuti prima di tutto, dunque. E’ ancora valida la sua idea, presentata nel settembre 2011 in un intervento sul Wall Street Journal, sotto il titolo “Lasciate l’Europa ai Pigs”, dove per “Pigs” s’intendono i paesi periferici dell’Eurozona (Portogallo, Irlanda o Italia, Grecia e Spagna) ma anche i “maiali”? E se la sentirebbe ancora di “congratularsi” – come fece allora – con Jürgen Stark, a quel tempo capo economista della Banca centrale europea (Bce), e il presidente della Bundesbank, Axel Weber, entrambi dimessisi in malcelato dissenso con le prime scelte espansive della Bce e per “riaffermare i princìpi per cui la Bce era nata”? “Attenersi a dei princìpi è quasi sempre giusto”, risponde secco Meltzer. Intanto però la Federal reserve del suo paese ha appena sancito la fine del Quantitative easing (Qe), o allentamento monetario, uno dei più grandi esperimenti di politica monetaria non convenzionale della storia contemporanea, e la ripresa americana sembra averne beneficiato. “A proposito di princìpi, la Fed non ne ha più. Il Qe2 e il Qe3 sono stati degli errori fondamentali. I problemi degli Stati Uniti non sono monetari, sono reali. Troppe tasse, troppe regolamentazioni, una progressiva criminalizzazione delle corporation. Ecco perché, nel mio paese, gli investimenti latitano”. A suo modo Meltzer fornisce una spiegazione, quantomeno non mainstream, di quella che altri chiamano “stagnazione secolare”, cioè della situazione in cui il cavallo non beve anche se la tinozza d’acqua è stata riempita fino all’orlo (vedi i tassi d’interesse ai minimi storici). “Aggiungo pure che la Fed ha pompato trilioni di dollari nelle banche, eppure sento qualcuno festeggiare per il fatto che non si vede inflazione – dice il professore di Economia politica alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pennsylvania – Io sono convinto però che siamo soltanto a metà della partita, presto banche e istituzioni finanziarie si dovranno liberare di tale liquidità in eccesso nei propri bilanci, superiore ai 2,5 trilioni di dollari, e allora buona fortuna all’America”.

Torniamo a chi, di fortuna, ne avrebbe bisogno qui e ora: l’Eurozona. “Anche per voi, è inutile continuare a chiedere soldi alla Bce guidata da Mario Draghi – dice Meltzer – I vostri problemi sono tutt’altro che monetari. Il punto di fondo è che i prezzi relativi di paesi come l’Italia e la Francia sono oggi troppo superiori rispetto a quelli della Germania e degli altri paesi nordici. Tali prezzi dovrebbero diminuire in Italia e Francia”. Meltzer non crede a un Quantitative easing all’europea o agli Eurobond, innanzitutto perché non li ritiene una scelta saggia. “La Germania da anni tiene una linea che è teoricamente condivisibile. Quel paese negli anni 90 era il malato d’Europa. Poi ha fatto le riforme, soprattutto con il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, e oggi semplicemente chiede a tutti gli altri europei di fare altrettanto. E’ quanto oggi Berlino vi continua a ripetere, o sbaglio?”. Non sbaglia. Il problema, secondo Meltzer, è che la transizione per arrivare a un’Italia o a una Francia debitamente “riformate”, e un po’ più tedeschizzate, necessita di tempo, è inutile negarlo.

“Le regole dell’economia sanno essere dure come pietre – dice lo studioso – E oggi per l’Eurozona esistono soltanto tre scenari possibili. Nel primo scenario, i paesi del nord spendono e investono molto di più, sostenendo così la domanda interna ai loro paesi e spingendo la crescita degli altri. Non mi pare che accadrà mai”, sintetizza brutalmente lo studioso americano. “Nel secondo scenario, i paesi periferici dell’Eurozona attraversano un periodo di deflazione”. Quella del calo dei prezzi in terreno negativo sarebbe tuttavia una fase “lunga e dolorosa”, al punto che si potrebbe arrivare stremati alla meta che consiste nella riconquista di una competitività a livelli tedeschi. “Oppure, ultimo scenario possibile, si svaluta la moneta dei paesi più deboli. Ma dentro la moneta unica, ovviamente, ciò è vietato”.

Allan Meltzer precisa subito in che senso la proposta delle due aree valutarie in Europa si differenzia dall’idea di una fuoriuscita di un solo paese dall’Eurozona. “Per me la sequenza dovrebbe essere questa: l’euro 2 si svaluta rispetto all’euro 1, le esportazioni dei paesi periferici riacquistano temporaneamente competitività rispetto a quelle dei paesi nordici, la crescita finalmente rifiata e allo stesso tempo si portano a termine radicali riforme strutturali. Da queste ultime nei paesi periferici non si può scappare, ma perché voi le facciate sarebbe saggio innanzitutto lasciarvi tornare a crescere un po’”. Italia e Francia, ripete Meltzer, “dovrebbero svalutare, come hanno sempre fatto dal 1945 a oggi – sorride – ma ora dovrebbero farlo assieme, oltre che per una sola e ultima volta. Soltanto così la separazione dei due euro potrà essere temporanea invece che definitiva”. Meltzer dice di non essere “un fan aprioristico della moneta unica”, eppure riconosce che “l’opinione pubblica europea ha dimostrato in tutti questi anni di essere favorevole al progetto del mercato comune e dell’euro. Ecco, questa mia proposta consentirebbe di sbloccare l’impasse attuale, di tornare a una crescita sostenibile per chi vorrà farlo, e quindi di riunirsi tutti assieme in un ‘euro 3’ o come vorrete chiamarlo”.

Per l’Italia, ha sostenuto anche in passato Meltzer, il gioco varrebbe sicuramente la candela: “La crescita italiana è stata bassa per più di un decennio. La competizione asiatica è stata davvero troppo per molti piccoli produttori di scarpe, tessuti e altri prodotti che l’Italia solitamente esportava. Oggi inoltre il paese continua a sprecare le sue potenzialità spendendo soldi pubblici in trasferimenti decisi dalla politica e a basso valore aggiunto. Una svalutazione della moneta consentirebbe al paese di riallineare i suoi costi alle condizioni globali. A quel punto riduzioni di spesa pubblica libererebbero risorse per usi più produttivi”. Segue una chiosa più personale: “Io sono simpatetico con gli italiani, non sono felice per la situazione che state attraversando”.

Ammettiamo pure che da domani noi italiani avremo l’euro 2 in tasca, e ammettiamo che per qualche ragione il cambio di banconote possa spingere l’establishment italiano a capire il significato dell’espressione “spending review” (o revisione della spesa pubblica). Il passaggio comunque non sarà indolore, per noi come per gli altri paesi periferici: “Di svalutazioni ne avete subite in passato. Pure questa non sarebbe gratis, ovvio. Chi detiene titoli di stato italiani potrebbe subire perdite. Le banche che siano minacciate da fughe di capitali saranno colpite. A quel punto dovranno essere lasciate fallire o potranno chiedere soldi in prestito al governo. Ma le banche devono poter fallire, non si può addossare tutto sulle spalle dei cittadini”. Non ci si poteva attendere altro dall’autore del noto aforisma secondo cui “il capitalismo senza il fallimento è come la religione senza il peccato: non funziona” (“Capitalism without failure is like religion without sin: it doesn’t work”). “Ricordiamo sempre quali sono le due alternative: la Germania e i paesi del nord che rilanciano massicciamente la domanda interna o tradiscono il principio del no-bailout con i soldi dei loro contribuenti, e non vedo come possa accadere. Oppure una prolungata deflazione nei paesi periferici”.

La questione francese

Alcuni degli economisti e degli osservatori interpellati dal Foglio a proposito dell’ipotesi dei due euro, perfino quelli che come lei non chiudono del tutto alla fattibilità economica di questo processo, si bloccano però davanti alla domanda che, secondo la nostra ricostruzione, ha fatto lo stesso Schäuble commentando il suo progetto: “Come la mettiamo con la Francia?”. Replica Meltzer: “E’ vero, i francesi hanno un curioso insieme di convinzioni politiche e culturali che forse li spingerebbe a stare alla larga dall’euro 2. I problemi economici però restano: il tasso di disoccupazione francese non è mai sceso sotto il 10 per cento nell’ultimo decennio; i francesi più ‘smart’ vivono tutti all’estero, tra Londra, Bruxelles e altre capitali. Insomma, l’economia di Parigi è sicuramente molto più vicina a quella di Roma che a quella di Berlino”.

Veniamo infine alla Germania. Meltzer ancora oggi difende la linea “ortodossa” di quanti, a partire dalla Bundesbank, si oppongono a ogni possibile innovazione di politica monetaria o fiscale, nella convinzione che “così gli europei vorrebbero continuare a coprire di soldi i loro problemi, insistendo su palliativi di breve termine”. In un’intervista rilasciata al quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt, nel maggio 2012, l’economista americano dava ragione al giornalista che gli chiedeva cosa ci fosse di male nel desiderio di Berlino di raggiungere il pareggio di bilancio anche a fronte di una crescita anemica: “Ha ragione – replicò Meltzer – Oggi il rapporto debito pubblico/pil è dell’80 per cento. Se la Germania facesse per esempio quello che il Financial Times le chiede di fare ogni giorno con i suoi editoriali, allora entrerebbe in crisi. Il rapporto debito pubblico/pil raggiungerebbe il 100 per cento. Questo non aiuta né la Germania né l’Europa. Inoltre, se la Germania e la Bce perseguissero politiche che aumentano l’inflazione, dov’è che l’aumento dei prezzi sarebbe maggiormente percepito? Questa inflazione si andrebbe a sommare ai problemi attuali, non li attenuerebbe”. Quel che si fatica a comprendere è perché Berlino dovrebbe accettare una partizione dell’euro che, stando a numerosi indicatori, sicuramente non l’avvantaggerebbe, anzi probabilmente la penalizzerebbe considerato che uno degli obiettivi dell’euro 2 è proprio quello di far riguadagnare rapidamente competitività a dei concorrenti industriali e commerciali. Berlino, nella migliore delle ipotesi, perderebbe peso politico in Europa.

Meltzer individua tre ragioni che potrebbero spingere la Germania a pronunciare un inatteso “Auf Wiedersehen” alla moneta unica. Innanzitutto “la situazione economica tedesca è oggi meno rosea di quanto non possa apparire da altri paesi dell’Eurozona che nemmeno riescono a crescere di un punto percentuale di pil all’anno”. Le stime del pil sono state tagliate dal governo stesso, gli indici di fiducia degli imprenditori calano. Però rimangono costi d’indebitamento mai così bassi, anche grazie all’effetto calamita del Bund nei mari tempestosi della finanza; e un euro relativamente sottovalutato rispetto alla propria potenza esportatrice che è maggiore perfino di quella cinese. “C’è una seconda ragione che consiglia un ripensamento pragmatico, ed è la crescita dei movimenti anti europei. Per ora sono minoritari, ma la loro capacità di cambiare gli equilibri politici già si nota. Anche in Germania, dove il sentimento anti europeo si nutre della sensazione che gli accordi fondativi della moneta unica siano stati violati, aggirando per esempio il divieto di salvataggio di stati e banche con i soldi pubblici, cioè dei contribuenti tedeschi”. Lo studioso americano si riferisce ai voti raccolti da Alternative für Deutschland (Afd), al fatto che questo movimento ha drenato i consensi dei liberali dell’Fdp alle ultime elezioni nazionali ed europee, al punto da costringere i cristiano-democratici di Angela Merkel a formare una “grande coalizione” con i socialdemocratici: “Pure la Cdu, così come la Fdp, dovrà mutare posizione sull’atteggiamento da tenere rispetto alla moneta unica”. E non è un caso, forse, che nelle prossime due settimane Meltzer sarà ospite di alcuni incontri a porte chiuse a Francoforte, poi terrà la prestigiosa lecture annuale del Walter Eucken Institut di Friburgo, infine passerà per Bruxelles per confrontarsi in pubblico con l’economista francese Thomas Piketty (“ma credo che alla fine potrebbe dare forfait. D’altronde le sue tesi sono tra le più deboli e sconclusionate che abbia sentito da tempo in tutto il mondo”, dice l’economista americano). Per questo, prima di lasciare temporaneamente la sua Pittsburgh per l’Europa, aggiunge scherzando: “Se in Germania l’avessero dimenticata, la tesi dei due euro, tornerò a ricordargliela presto”. Con un’ultima e convincente ragione dalla sua: “L’euro com’è oggi non funziona. E se qualcuno sostiene che funziona, almeno dovrà ammettere che funziona male. Concepire un meccanismo che porti a una svalutazione in un blocco di paesi tra loro economicamente più omogenei, potrebbe favorire la crescita e, in definitiva, preservare alla lunga il progetto di una moneta unica”.

sabato 1 novembre 2014

Renzi sta con Leon o con Magazzino?, di Giuseppe Pennisi

Renzi sta con Leon o con Magazzino?























Non ho mai avuto il piacere di viaggiare in un’automobile guidata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Se fossi stato in auto con lui (e non ci fossero state altre persone), il conducente sarebbe stato indubbiamente l’inquilino di Palazzo Chigi. Dato che io non ho, e non ho mai avuto, una patente di guida e non conosco la differenza tra il pedale del freno e quello dell’acceleratore, probabilmente, ad onta dell’impressione che i suoi interventi trasmettono al pubblico, alla guida Matteo Renzi è molto prudente e cauto. Quindi, sa come effettuare una svolta a “U”, anche quando si tratta di una “svolta a U invertita”, come viene chiamata colloquialmente dagli economisti.

Perché me ne occupo? Ho letto un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III, quella a San Paolo in gran parte nei locali degli ex-magazzini generali. Si chiama Cosimo Magazzino. Si è dato un compito difficile: studiare, non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi, il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp. 38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’OCSE ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto studiano le nostre politiche ed i nostri conti.

La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.

Vale la pena ricordarlo perché il 28 ottobre proprio, all’Università di Roma III, Antonella Palumbo, Marco Causi, Mario Pianta, Paolo Pini e Roberto Romano hanno presentato il libro di Paolo Leon, professore emerito, dal titolo “Il capitalismo e lo Stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche” (Castelvecchi Editore, 2014″). In linea con un approccio che Leon ha mantenuto con coerenza sin dal suo ‘Structural Change and Growth in Capitalism’ (Johns Hopkins Press, 1967), il libro argomenta non per “meno” ma per più Stato”, in effetti per politiche di programmazione per uscire dalla crisi italiana ed europea. Leon non parla di “svolte a U” e, alla presentazione, non era presente Cosimo Magazzino. In effetti, si è ascoltato un po’ “un coretto a cappella”.

Una proposta: Roma III organizzi un dibattito tra Leon e Magazzino. E Matteo Renzi ci partecipi
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