giovedì 30 agosto 2012

L'Eurozona nel giorno del Giudizio, di Hans-Werner Sinn

L'Europa e il mondo intero attendono con trepidazione la data del 12 settembre prossimo, giorno in cui la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà in merito al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), organismo preposto a sostituire l'attuale fondo di emergenza dell'Eurozona, il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF). La Corte dovrà stabilire se la legislazione relativa alla creazione del MES violi di fatto la Grundgesetz, ovvero la Legge Fondamentale, come sostenuto dal querelante tedesco. Se la Corte si pronuncerà in favore della parte lesa, dovrà chiedere al Presidente della Germania di non sottoscrivere l'accordo sul MES, già ratificato dal Bundestag, il parlamento tedesco. 


L'esito della decisione sta tenendo tutti con il fiato sospeso. Sul fronte degli investitori c'è il timore che, nel caso di un verdetto contrario al MES, sarebbero loro a doversi fare carico delle perdite derivanti dagli investimenti sbagliati. D'altro canto, i contribuenti e i pensionati dei Paesi ancora stabili temono che la Corte possa spianare la strada a una socializzazione del debito dell'Eurozona, che li costringerebbe ad accollarsi l'onere delle perdite provocate da quegli stessi investitori. 

Il drappello dei querelanti è rappresentativo del panorama politico tedesco, e comprende il partito della sinistra, il parlamentare Peter Gauweiler dell'Unione Cristiano Sociale ed Herta Däubler-Gmelin, ministro della giustizia nel precedente governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, che ha raccolto decine di migliaia di firme a sostegno delle sue tesi. C'è anche un gruppo di docenti di economia e giurisprudenza in pensione, e un altro di "comuni" cittadini, i cui reclami sono stati selezionati come esempio dalla Corte. 

I querelanti hanno sollevato numerose obiezioni al MES, prima fra tutte la violazione della clausola "no bail-out" (Articolo 125) del Trattato di Maastricht. All'epoca del trattato, la Germania accettò di rinunciare al marco tedesco a patto di escludere il rischio che la nuova area monetaria conducesse alla socializzazione diretta o indiretta del debito degli Stati membri, escludendo così ogni forma di aiuto finanziario con fondi UE a Stati in crisi. Di fatto, la nuova moneta era stata concepita come unità di conto per scambi economici, priva di qualunque implicazione legata alla ricchezza. 

Riguardo al caso Grecia, i querelanti sostengono che la violazione dell'Articolo 125 richiederebbe prove che l'insolvenza del Paese rappresenta un pericolo maggiore di quello previsto all'epoca della stesura del Trattato di Maastricht. Tali prove, però, non sono mai state fornite.


La seconda obiezione è che, per la legge tedesca, chi rappresenta la Germania al Consiglio dei Governatori del MES può esprimere il proprio voto solo dopo aver chiesto il parere del Bundestag, procedura inammissibile, a detta dei querelanti, ai sensi della normativa internazionale. Se la Germania voleva limitare l'autorità del suo governatore, avrebbero dovuto informare gli altri paesi firmatari prima di agire. D'altro canto, sempre secondo i querelanti, il fatto che ogni membro del MES sia vincolato al segreto professionale esclude qualunque responsabilità di fronte al Bundestag.

Inoltre, i querelanti affermano che, se da un lato il trattato del MES è restrittivo nella concessione di fondi ai singoli Stati, poiché richiede un voto di maggioranza qualificata, dall'altro non specifica le condizioni in base alle quali valutare il livello di accettabilità delle perdite. Tali perdite possono derivare dai salari troppo elevati dei governatori, decisi da loro stessi, da una scarsa energia nell'esigere i debiti contratti dai Paesi che hanno ricevuto un aiuto economico, o da altre forme di cattiva gestione. E poiché i membri del Consiglio dei Governatori e del Comitato Esecutivo godono dell'immunità giuridica, eventuali comportamenti illeciti non sono neppure perseguibili. 

In caso di un aumento delle perdite, la copertura iniziale dovrebbe arrivare dal contributo in contanti di 80 miliardi di euro, pari a circa 100 miliardi di dollari, che poi sarebbe automaticamente incrementato da tutti gli Stati aderenti in base alle rispettive quote di capitale. Se singoli Paesi non sono più in grado di versare il loro contributo, altri devono farlo al posto loro. In linea di principio, quindi, un unico Paese potrebbe doversi fare carico dell'intero ammontare delle perdite. Tale responsabilità congiunta e rispettiva, asseriscono i querelanti, contraddice le precedenti dichiarazioni della Corte sul fatto che la Germania non dovrebbe assumersi alcun impegno finanziario derivante dal comportamento di altri Stati. 

Quel che è peggio è che, sebbene la responsabilità di un Paese nei confronti di partner esterni sia limitata alla sua quota di capitale, tale limite non si applica ad altri Stati firmatari. Pertanto, in teoria esiste la possibilità che un solo Paese debba rispondere dell'intera esposizione del MES, pari a 700 miliardi di euro. 

Infine, va detto che il MES non può essere considerato isolatamente, bensì nel contesto dell'esposizione totale, che comprende fondi di salvataggio già erogati, per un importo di 1,4 trilioni di euro. Nello specifico, bisognerebbe tener conto anche del credito Target2 concesso alle banche centrali dei Paesi colpiti dalla crisi, che ammonta già a quasi un trilione di euro. 

Nessuno sa come si pronuncerà la Corte Costituzionale in merito a tali obiezioni. Gli osservatori sono concordi nel ritenere improbabile che la Corte si opponga al trattato del MES, anche se molti prevedono che i giudici raccomanderanno di apportarvi delle modifiche, o chiederanno al Presidente della Germania di firmare con riserva. 

L'impossibilità di anticipare le decisioni della Corte è senz'altro positiva, e ancora di più lo è il fatto di non poterle influenzare né con pressioni politiche né con istanze. L'Unione Europea può e deve basarsi soltanto sul governo della legge: se chi detiene il potere può permettersi di violarne le regole a seconda dei casi, possiamo abbandonare ogni speranza che diventi una realtà stabile, presupposto di pace e prosperità.


http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2012-08-27/leurozona-giorno-giudizio-144558.shtml?uuid=Abufg9TG

sabato 25 agosto 2012

Il peculiare conservatorismo fiscale americano, di Simon Johnson


Nella maggior parte dei paesi del mondo essere "conservatori fiscali" significa avere molto a cuore i temi del disavanzo e del debito, e metterli sempre in cima all'agenda politica. Oggi, in molti paesi dell'Eurozona, i "conservatori fiscali" rappresentano un gruppo potente che spinge per incrementare le entrate statali, mantenendo la spesa sotto controllo. Persino in Gran Bretagna i leader conservatori si sono recentemente detti pronti ad aumentare le tasse e a cercare di contenere la spesa futura.
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CommentsGli Stati Uniti seguono una linea diversa al riguardo. I leader politici americani che scelgono di definirsi "conservatori fiscali", come Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza a fianco di Mitt Romney, in corsa per la presidenza alle prossime elezioni, pensano più a ridurre le tasse, a prescindere dagli effetti che ciò potrebbe avere sul disavanzo federale e sul totale del debito insoluto. Perché i conservatori fiscali americani si preoccupano così poco del debito pubblico rispetto ai loro colleghi di altri Paesi?
CommentsLe cose non sono sempre andate così. Nel 1960, ad esempio, i consiglieri del Presidente Dwight D. Eisenhower suggerirono a quest'ultimo di ridurre le tasse per spianare la strada all'elezione di Richard Nixon, suo vice, alla presidenza. Eisenhower ignorò il consiglio, un po' perché non nutriva particolare simpatia e fiducia nei confronti di Nixon, ma soprattutto perché riteneva importante consegnare al successore un bilancio quasi in pareggio.
CommentsIl quadro della politica macroeconomica statunitense mutò drasticamente con la crisi monetaria internazionale del 1971. Gli Stati Uniti non furono più in grado di mantenere un rapporto di cambio fisso tra il dollaro e l'oro, che era il pilastro del sistema definito alla conferenza di Bretton Woods nel dopoguerra. L'accordo naufragò perché gli Stati Uniti non accettarono di inasprire la politica monetaria né di adottare una politica fiscale più restrittiva: per il presidente Nixon era, chiaramente, più importante accontentare l'elettorato piuttosto che mantenere un sistema globale di cambi fissi.
CommentsIronicamente, però, la fine degli accordi di Bretton Woods, anziché minare la supremazia del dollaro americano a livello internazionale, ne promosse l'utilizzo in tutto il mondo. Molto si è scritto - e molto ci si è arrovellati - sul declino del biglietto verde negli ultimi quarant'anni, ma resta il fatto che gli asset in dollari detenuti da investitori stranieri sono oggi molti di più che nel 1971.
CommentsQuesta situazione, però, si è rivelata un'arma a doppio taglio perché ha permesso agli Stati Uniti di trascurare i propri conti fiscali. Oggi circa la metà del debito americano è in mano a investitori stranieri, i quali optano per tenerlo anche quando il rendimento in dollari è minimo, e persino quando il dollaro si deprezza.
CommentsDi fatto, ogniqualvolta l'economia mondiale appare instabile, e persino quando gli Stati Uniti sono la causa di tale instabilità, gli investitori puntano sugli asset in dollari. Quando le grandi banche americane sono in difficoltà, o gli stessi americani sono impegnati in una delle loro estenuanti battaglie politiche sulla finanza pubblica, gli investitori di tutto il mondo corrono ad accaparrarsi bond statunitensi. È vero che l'anno scorso il confronto finale sul tetto del debito al Congresso è costato la perdita del rating da tripla A, ma resta il fatto che i costi di indebitamento del governo federale sono oggi inferiori rispetto ad allora.
CommentsCosa ne ha fatto l'America di questa opportunità di finanziamento al costo più basso mai registrato nella storia? Non un granché quanto a investimenti produttivi, miglioramento del sistema educativo o mantenimento delle infrastrutture di base. Tuttavia, molto è stato fatto in termini di sgravi fiscali tesi a incoraggiare i consumi rispetto al reddito e a diminuire le entrate statali in relazione alla spesa, un segno, questo, della persistenza dell''eredità dei tagli fiscali "temporanei" decisi dall'amministrazione Bush nei primi anni del 2000.
Molti americani si sono orientati verso teorie politiche, sia a destra che a sinistra, che considerano il debito pubblico come un semplice diversivo. L'affermazione dell'ex vice presidente Dick Cheney che “Reagan ci ha insegnato che il deficit non conta", vuol dire che l'allora presidente tagliò le tasse, gestì deficit molto più ingenti senza subire alcuna ripercussione politica negativa.
Ryan e alcuni membri del Tea Party, un'ala del partito repubblicano, hanno manifestato l'intenzione di ridimensionare la struttura del governo federale nell'arco dei prossimi decenni. Nel breve periodo, però, la promessa principale riguarda il taglio delle tasse, su cui poggia l'intero programma elettorale. Secondo i loro calcoli, tale progetto avrà successo a livello politico, una previsione forse azzeccata, e faciliterà l'attuazione di tagli alla spesa in una fase successiva, ipotesi, questa, meno scontata. L'aspetto che viene completamente ignorato riguarda la fragilità derivante dall'aumento del debito pubblico nei prossimi decenni.
CommentsPer fare un esempio, Ryan si è dichiarato a favore di una politica improntata alla spesa sfrenata, come quella di George W. Bush, così come del mantenimento delle spese militari ai livelli attuali o quasi, rifiutando i tagli stabiliti dal Budget Control Act nel 2011.
L'ipotesi, implicita e molto discutibile, è che in un prossimo futuro gli Stati Uniti saranno in grado di vendere una quantità illimitata di debito pubblico a un tasso d'interesse basso. Di sicuro non esiste un altro Paese al mondo dove i conservatori fiscali vorrebbero essere accomunati a un simile azzardo.

Early Retirement for the Eurozone?, by Nouriel Roubini


Whether the eurozone is viable or not remains an open question. But what if a breakup can only be postponed, not avoided? If so, delaying the inevitable would merely make the endgame worse – much worse.
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CommentsGermany increasingly recognizes that if the adjustment needed to restore growth, competitiveness, and debt sustainability in the eurozone’s periphery comes through austerity and internal devaluation rather than debt restructuring and exit (leading to the reintroduction of sharply depreciated national currencies), the cost will most likely be trillions of euros. Indeed, sufficient official financing will be needed to allow cross-border and even domestic investors to exit. As investors reduce their exposure to the eurozone periphery’s sovereigns, banks, and corporations, both flow and stock imbalances will need to be financed. The adjustment process will take many years, and, until policy credibility is fully restored, capital flight will continue, requiring massive amounts of official finance.
CommentsUntil recently, such official finance came from fiscal authorities (the European Financial Stability Facility, soon to be the European Stability Mechanism) and the International Monetary Fund. But, increasingly, official financing is coming from the European Central Bank – first with bond purchases, and then with liquidity support to banks and the resulting buildup of balances within the eurozone’s Target2 payment system. With political constraints in Germany and elsewhere preventing further strengthening of fiscally-based firewalls, the ECB now plans to provide another round of large-scale financing to Spain and Italy (with more bond purchases).
CommentsThus, Germany and the eurozone core have increasingly outsourced official financing of the eurozone’s distressed members to the ECB. If Italy and Spain are illiquid but solvent, and large-scale financing provides enough time for austerity and economic reforms to restore debt sustainability, competitiveness, and growth, the current strategy will work and the eurozone will survive.
CommentsIn the process, some form of fiscal and banking union may also emerge, together with some progress on political integration. But, however important the fiscal and banking union elements of this process may be, the key is whether large-scale financing and gradual adjustments can restore sustainable growth in time. This will require considerable patience from governments and publics in the core and periphery alike – in the former to maintain large-scale financing, and in the latter to avoid a social and political backlash against years of painful contraction and loss of welfare.
CommentsIs this scenario plausible? Just consider what must be overcome: economic divergence and deepening recessions; irreversible balkanization of the banking system and financial markets; unsustainable debt burdens for public and private agents; daunting growth and balance-sheet costs in countries that pursue internal devaluation and deflation to restore competitiveness; asymmetrical adjustment, with moral-hazard risks in the core and insufficient financing in the periphery fueling incompatible political dynamics; fickle and impatient markets and investors; austerity fatigue in the periphery and bailout fatigue in the core; the absence of conditions for an optimal currency area; and serious difficulties in achieving full fiscal, banking, economic, and political union.
CommentsIf a gradual process of disintegration eventually makes a eurozone breakup unavoidable, the path chosen by Germany and the ECB – large-scale financing for the eurozone periphery – would destroy the core central banks’ balance sheets. Worse still, massive losses resulting from the materialization of credit risk might jeopardize core eurozone economies’ debt sustainability, placing the survival of the European Union itself in question. In that case, surely an “orderly divorce” now is preferable to a messy split down the line.
Of course, a breakup now would be very costly, requiring an international debt conference to restructure the periphery’s debts and the core’s claims. But breaking up earlier could allow the survival of the single market and of the EU. A futile attempt to avoid a breakup for a year or two – after wasting trillions of euros in additional official financing by the core – would mean a disorderly end, including the destruction of the single market, owing to the introduction of protectionist policies on a massive scale. So, if a breakup is unavoidable, delaying it implies much higher costs.
But politics in the eurozone does not permit consideration of an early breakup. Germany and the ECB are relying on large-scale liquidity to buy time to allow the adjustments necessary to restore growth and debt sustainability. And, despite the huge risk implied if a breakup eventually occurs, this remains the strategy to which most of the players in the eurozone are committed. Only time will tell whether betting the house to save the garage was the right move.

lunedì 20 agosto 2012

Quegli insegnamenti sull’eccessiva foga rigorista di Berlino che vengono dalla caduta dell’impero romano, di Eutimio Tiliacos


A far crollare l’Urbe non furono gli unni (che tolleravano il fisco romano), ma le tribù che con il saccheggio minarono la base imponibile. No pil, no tasse

Pubblichiamo ampi stralci del numero in uscita di Lettera Anesti, newsletter mensile di economia e finanza. 
Popolazione e territorio sono concetti simili ma non sempre coincidenti da un punto di vista geografico, e diventano congruenti solo se esiste tra loro un nesso economico. L’odierna politica tedesca verso l’area dell’euro, e in particolare verso i paesi cosiddetti “periferici” di quell’area, sembra non tener completamente conto di questo aspetto la cui ignoranza nelle epoche passate è stata causa di crolli di vasti imperi come l’impero romano e dopo di questo di quello carolingio, solo per citarne alcuni.
Secondo lo storico Peter Heather, Fellow di Storia medievale al Worcester College dell’Università di Oxford in Inghilterra – le sue tesi sono contenute tra l’altro in “La Caduta dell’impero romano. Una nuova storia”, Garzanti –, infatti, a determinare la caduta dell’impero romano non furono direttamente gli unni nel loro spostamento verso ovest ma gli effetti indiretti che questo fatto storico generò, con il riversarsi dal 376 d.C. in poi nel territorio dell’impero romano a sud e a ovest del Danubio di centinaia di migliaia di abitanti di tribù di ceppo linguistico germanico (goti, svevi, vandali) o iranico (alani) originariamente stanziate al di fuori dei confini dell’impero e in fuga dagli unni. Questi ultimi non avevano alcuna intenzione di sostituirsi a Roma nel prelievo fiscale ma volevano solo scorrazzare per l’Europa saccheggiando qua e là, e furono per anni persino un esercito di riserva alleato di cui si servì Roma stessa per tenere a bada le altre tribù barbare. Il sacco di Roma del 410 d.C. fu infatti conseguente solo alla circostanza che le milizie mercenarie unne non avevano avuto da Roma il soldo da lungo tempo a loro dovuto per i servigi resi all’impero.
A provocare la rovina dell’impero furono piuttosto le tribù transfughe dagli unni che da quel 376 d.C. in poi – prima con il consenso dell’imperatore Valente e poi con la forza – si impossessarono di porzioni progressivamente crescenti di territorio sottraendole al fisco romano, determinando così una caduta dei proventi che sino ad allora avevano alimentato la macchina bellica indispensabile per garantire ai cittadini la pax romana e la difesa dei confini.
Si dice infatti che gli unni preferissero conquistare popolazioni da assoggettarelasciando loro ampia autonomia, piuttosto che “territori” con le implicazioni che necessariamente ne sarebbero derivate di far seguire alla conquista territoriale la creazione di una vasta e complessa macchina burocratico/fiscale come quella posta in essere per secoli dai romani. Gli unni, ancora secondo Heather, erano ben lieti che gli esattori romani continuassero a fare il loro lavoro a favore di Roma anche nei territori da loro occupati, salvo farsi versare un contributo su quanto esatto. Non così le altre tribù citate che annientarono in toto la base imponibile romana nei territori che esse andavano occupando man mano.
La lezione che se ne trae è che se per una serie di circostanze, magari non volute o non previste, si priva uno stato o un impero di una significativa base fiscale, a catena si generano una serie di conseguenze che possono determinare effetti dirompenti da un punto di vista economico e distruttivi da quello politico. A volte cioè gli effetti vanno al di là delle intenzioni per quanto buone esse possano essere in origine.

Guai se non c’è un’economia da tassare

Riportando il discorso ai giorni nostri va osservato che le politiche di rigore di bilancio sono sacrosante ma se attuate con troppa frenesia conducono a recessioni prolungate; queste a loro volta generano la distruzione di parte della base imponibile fiscale, poiché minano irrimediabilmente persino il tessuto produttivo. Ergo qualche riflessione ulteriore si impone. La crisi attuale, che dura ininterrottamente attraverso varie fasi dal 2007, è infatti una crisi atipica per i suoi connotati e la sua durata che ha ecceduto quelle delle precedenti crisi e richiederebbe per il suo superamento, come recentemente enunciato anche dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, strumenti altrettanto atipici di politica economica e di politica monetaria, mentre viene affrontata ancora con strumenti convenzionali. E’ come se in epoca di guerre missilistiche si volessero combattere battaglie ancora con l’arco e le frecce o si volesse schiacciare una mosca su una lastra di vetro di una finestra usando il martello.
In termini di durata la crisi della prima guerra del Golfo durò dal 3 agosto 1990 al 17 gennaio 1991, quella asiatica andò dal 27 ottobre 1997 al 9 gennaio 1998, la crisi russa dal 4 agosto 1998 al 28 ottobre dello stesso anno, e ancora: la crisi delle Torri gemelle dal 7 settembre (cominciò prima del giorno 11) 2001 al 5 novembre 2001, infine la crisi Enron e poi a seguire la seconda guerra del Golfo andarono dal 3 luglio 2002 al 7 aprile 2003. Come si può osservare ciascuna di queste crisi durò un arco di tempo che non ha ecceduto in ciascun caso l’anno, e tra una crisi e l’altra ci sono stati periodi di forte ripresa dell’economia globale.
Non è questo il caso della crisi attuale che – come appena accennato – dura ininterrottamente dal 9 agosto 2007 e ha visto succedersi in un tutt’uno al suo interno anche la crisi della banca d’affari Lehman Brothers (15 settembre 2008-27 maggio 2009), quella greca (dal 6 maggio 2010 fino a oggi) e quella più generale di altri paesi dell’euro (a partire almeno dall’8 agosto 2011). Le misure adottate per contrastarla hanno comportato un netto aumento del debito pubblico nella generalità dei paesi interessati, trasferendo a carico dei contribuenti i guasti di una politica finanziaria che è benevolo definire arrischiata. In aggiunta – è questo il dato più allarmante – hanno implicato pesanti effetti recessivi in alcuni paesi dell’area euro che hanno modificato, comprimendola invece di allargarla, la base imponibile fiscale come accadde all’epoca del collasso dell’impero romano.

venerdì 10 agosto 2012

Wagner e il Leviatano insonne, di Vito Tanzi


C’è una legge: nel tempo gli stati spendono e sprecano. Vero. Ma non tutto il mondo è paese

Pubblichiamo ampi stralci di uno studio appena pubblicato da Politeia, think tank indipendente inglese, e scritto da Vito Tanzi, direttore del Dipartimento affari fiscali del Fondo monetario internazionale dal 1981 al 2000, già sottosegretario al ministero del Tesoro dal 2001 al 2003 e Senior associate del Carnegie Endowment for International Peace. Il titolo originale del paper è: “Una strada realistica per la ripresa. Perché le soluzioni keynesiane non possono funzionare”.  

Uno degli aspetti centrali della spesa pubblica che potrebbe essere rilevante in un’ottica di uscita dalla crisi è l’attitudine dimostrata nel passato da alcuni – seppure non tutti – programmi governativi.  Lo sviluppo di questi programmi ha dimostrato una tendenza talmente regolare e prevedibile da assomigliare a una linea tipica di crescita della spesa pubblica, assimilabile alla “Legge di Wagner”. (La legge prende il suo nome da quello dell’economista tedesco Adolph Wagner, morto nel 1917,  e dimostra che con il progressivo sviluppo delle economie industriali, anche la spesa pubblica aumenta, ndr). 

La tendenza di cui parliamo indica il perché il ruolo economico dello stato nel suo complesso cresce con il tempo, e aiuta a metterein luce la Legge di Wagner: la maggior parte dei programmi di governo, specialmente quelli senza una scadenza chiaramente definita, tende ad ampliarsi e a diventare più dispendiosa con il passare degli anni. In generale, tanto più a lungo le direttive restano in vigore, tanto più risulteranno costose. Potranno essere snelle in origine, ma tendono comunque a diventare più onerose con il passare degli anni.
Ci sono almeno tre motivi principali che guidano questa espansione. Primo: i programmi pubblici, specialmente quelli indirizzati a una certa categoria sociale anziché con carattere universale, nel momento della loro creazione hanno avuto come obiettivo il sostegno o la protezione di un gruppo di individui limitato e ben definito (ad esempio persone con un handicap grave o che versano in condizioni di povertà estrema). Tuttavia con il passare del tempo la copertura si è estesa e si sono aggiunti nuovi beneficiari che non avevano le credenziali stabilite in origine, gruppi e individui che quindi in principio non sarebbero rientrati nei programmi. L’influenza di certi gruppi di pressione, la corruzione di funzionari pubblici, le truffe da parte di singoli individui e altri fattori possono contribuire alla crescita nel numero di persone “coperte”. L’aumento dei costi deriva principalmente dall’ampliamento nel tempo dei soggetti beneficiari della spesa.
C’è un secondo motivo di questa apparentemente ineluttabile espansione del ruolo governativo. Crescono le agevolazioni o i servizi forniti agli utenti in forza dei programmi, così come il numero di impiegati necessari per farli funzionare. (Ciò vale anche per i servizi che sono stati disegnati fin dal principio per avere una copertura universale, come ad esempio i servizi scolastici per alcune fasce di età o i servizi sanitari universali). L’aumento dei costi in questo caso non è dovuto all’aumento del numero di destinatari dei servizi, ma all’incremento del numero di impiegati o fornitori deputati a erogare i servizi ai cittadini. Nell’esempio delle scuole o dei servizi sanitari (progettati per dare una copertura universale), il numero di impiegati pubblici pagati per fornire i servizi e i costi relativi sono aumentati con l’aggiunta a libro paga di amministratori, consiglieri, manager e altri soggetti. Ad esempio, negli Stati Uniti è aumentato il numero di impiegati che si occupano di attività collegate allo sport o di carattere sociale (che hanno poco a che fare con l’educazione in senso stretto), oppure quello degli psicologi dell'infanzia o di professionisti specializzati nelle problematiche degli alunni in aggiunta a quello dei direttori generali. Dunque coloro i quali beneficiano dei programmi pubblici come “fornitori” (che spesso godono di migliori condizioni lavorative rispetto a quanti sono occupati nel settore privato) aumentano con il passare del tempo, il che spesso porta a consistenti aumenti nei costi dei programmi.
La terza ragione è che la maggior parte dei programmi pubblici, universali o no (fatta eccezione per le attività a relativamente bassa intensità di manodopera, come ad esempio la distribuzione gli assegni pensionistici), tende a produrre inefficienza tecnica. Queste inefficienze implicano degli sprechi perché il risultato conseguito o i servizi prestati potrebbero essere prodotti a costi inferiori. Inefficienze tecniche derivano dall’assenza di competitività nell’ambiente in cui operano gli impiegati pubblici: senza la motivazione del profitto o senza i meccanismi di concorrenza a guidare un intervento, i soggetti coinvolti tendono a non sentire l’incentivo a lavorare al massimo livello possibile e a non lavorare nel modo più efficiente ed economico.
La prova che le cose stanno così e le tre ragioni per un’espansione infinita dei costi si possono riscontrare in diversi paesi. Il fenomeno dell’aumento del costo dei singoli programmi riconducibili a queste tre cause, per esempio, è verificabile con le pensioni di invalidità in cui il numero è aumentato drammaticamente in molti paesi europei e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti le domande per ottenere sussidi per invalidità sono aumentati del 30 per cento dal 2007. Nel caso dei buoni pasto pubblici (“food stamps”), il numero di richiedenti è anch’esso aumentato significativamente nel corso degli anni, così come il numero di persone che pretendono pensioni pubbliche. Il numero delle richieste è cresciuto in maniera considerevole; e in assenza di riforme sia il numero dei beneficiari effettivi sia il costo dei programmi sono aumentati con sostanziale continuità.

La deriva “alla greca”
Un esempio estremo di questa tendenza arriva dalla Grecia, dove l’età pensionabile per lavori considerati usuranti è stata fino a pochi mesi fa di 55 anni per gli uomini e 50 per le donne. Un tale trattamento tanto vantaggioso per i lavori più faticosi ha provocato negli anni una progressiva riclassificazione di diverse professioni come “usuranti”: il giornalista e saggista americano Michael Lewis, nel suo libro intitolato “Boomerang”, ha segnalato che ad Atene circa 600 impieghi sono classificati come tali, inclusi parrucchieri, annunciatori radiofonici, camerieri, e musicisti. Un’altra immagine la fornisce il programma di buoni alimentari introdotto negli Stati Uniti dal presidente Franklin Delano Roosvelt nel 1939 per aiutare solo le persone più povere. Nel 2011 la bellezza di 45 milioni di persone, ovvero un americano su sette, hanno ricevuto sussidi alimentari, al costo di 72 miliardi di dollari; tra il 2007 e il 2011 il numero di beneficiari di questo programma è cresciuto del 70 per cento, ed è improbabile che il numero di persone molto povere sia cresciuto allo stesso modo. A Washington, una delle città con il più alto reddito individuale al mondo, un abitante su cinque adesso usufruisce dei “food stamps”. Lo stesso processo ha portato a un aumento nel numero di chi riceve pensioni pubbliche in paesi come gli Stati Uniti, Italia e alcuni altri.
Negli stessi casi è aumentato pure il numero di funzionari nei programmi pubblici, con l’annessa inefficienza che spesso caratterizza le politiche governative. Questa inefficienza si sviluppa di norma quando le istituzioni si trovano in una posizione di monopolio o non devono affrontare le pressione di un mercato competitivo. Alcune di queste inefficienze possono avere origine nelle regole per il mercato del lavoro promosse dalle organizzazioni sindacali o possono essere dovute a controlli laschi.
Ammettere l’esistenza di queste tendenze generali e fare qualcosa a riguardo può essere importante per far diventare i governi più efficienti e rendere più sostenibili i conti pubblici nel medio termine. Per raggiungere l’obiettivo può servire un ritorno alle intenzioni originali di questi stessi programmi. In ballo anche l’eliminazione di alcuni tra di essi dall’ambito del settore pubblico. Dovremmo riconoscere che esistono differenze enormi, fino al 20 per cento del pil, nei livelli di spesa pubblica dei paesi industrializzati. Si potrebbero comparare Australia, Svizzera, Giappone e Corea del Sud da un lato, e Italia, Belgio, Francia, Grecia dall’altro. Eppure differenze così ampie nella spesa pubblica non corrispondono a livelli tanto differenti di welfare che i governi riescono a fornire ai cittadini. Se il primo gruppo di paesi riesce a cavarsela così bene con un livello di spesa inferiore (spesso molto inferiore) al 35 per cento del pil, perché gli altri paesi avrebbero bisogno del 45 o addirittura oltre il 50 per cento del pil da dedicare ai programmi governativi? Questa domanda dovrebbe essere posta con tanta più urgenza adesso che rimettere in ordine i conti pubblici è diventata una priorità fondamentale per molti paesi.