lunedì 20 agosto 2012

Quegli insegnamenti sull’eccessiva foga rigorista di Berlino che vengono dalla caduta dell’impero romano, di Eutimio Tiliacos


A far crollare l’Urbe non furono gli unni (che tolleravano il fisco romano), ma le tribù che con il saccheggio minarono la base imponibile. No pil, no tasse

Pubblichiamo ampi stralci del numero in uscita di Lettera Anesti, newsletter mensile di economia e finanza. 
Popolazione e territorio sono concetti simili ma non sempre coincidenti da un punto di vista geografico, e diventano congruenti solo se esiste tra loro un nesso economico. L’odierna politica tedesca verso l’area dell’euro, e in particolare verso i paesi cosiddetti “periferici” di quell’area, sembra non tener completamente conto di questo aspetto la cui ignoranza nelle epoche passate è stata causa di crolli di vasti imperi come l’impero romano e dopo di questo di quello carolingio, solo per citarne alcuni.
Secondo lo storico Peter Heather, Fellow di Storia medievale al Worcester College dell’Università di Oxford in Inghilterra – le sue tesi sono contenute tra l’altro in “La Caduta dell’impero romano. Una nuova storia”, Garzanti –, infatti, a determinare la caduta dell’impero romano non furono direttamente gli unni nel loro spostamento verso ovest ma gli effetti indiretti che questo fatto storico generò, con il riversarsi dal 376 d.C. in poi nel territorio dell’impero romano a sud e a ovest del Danubio di centinaia di migliaia di abitanti di tribù di ceppo linguistico germanico (goti, svevi, vandali) o iranico (alani) originariamente stanziate al di fuori dei confini dell’impero e in fuga dagli unni. Questi ultimi non avevano alcuna intenzione di sostituirsi a Roma nel prelievo fiscale ma volevano solo scorrazzare per l’Europa saccheggiando qua e là, e furono per anni persino un esercito di riserva alleato di cui si servì Roma stessa per tenere a bada le altre tribù barbare. Il sacco di Roma del 410 d.C. fu infatti conseguente solo alla circostanza che le milizie mercenarie unne non avevano avuto da Roma il soldo da lungo tempo a loro dovuto per i servigi resi all’impero.
A provocare la rovina dell’impero furono piuttosto le tribù transfughe dagli unni che da quel 376 d.C. in poi – prima con il consenso dell’imperatore Valente e poi con la forza – si impossessarono di porzioni progressivamente crescenti di territorio sottraendole al fisco romano, determinando così una caduta dei proventi che sino ad allora avevano alimentato la macchina bellica indispensabile per garantire ai cittadini la pax romana e la difesa dei confini.
Si dice infatti che gli unni preferissero conquistare popolazioni da assoggettarelasciando loro ampia autonomia, piuttosto che “territori” con le implicazioni che necessariamente ne sarebbero derivate di far seguire alla conquista territoriale la creazione di una vasta e complessa macchina burocratico/fiscale come quella posta in essere per secoli dai romani. Gli unni, ancora secondo Heather, erano ben lieti che gli esattori romani continuassero a fare il loro lavoro a favore di Roma anche nei territori da loro occupati, salvo farsi versare un contributo su quanto esatto. Non così le altre tribù citate che annientarono in toto la base imponibile romana nei territori che esse andavano occupando man mano.
La lezione che se ne trae è che se per una serie di circostanze, magari non volute o non previste, si priva uno stato o un impero di una significativa base fiscale, a catena si generano una serie di conseguenze che possono determinare effetti dirompenti da un punto di vista economico e distruttivi da quello politico. A volte cioè gli effetti vanno al di là delle intenzioni per quanto buone esse possano essere in origine.

Guai se non c’è un’economia da tassare

Riportando il discorso ai giorni nostri va osservato che le politiche di rigore di bilancio sono sacrosante ma se attuate con troppa frenesia conducono a recessioni prolungate; queste a loro volta generano la distruzione di parte della base imponibile fiscale, poiché minano irrimediabilmente persino il tessuto produttivo. Ergo qualche riflessione ulteriore si impone. La crisi attuale, che dura ininterrottamente attraverso varie fasi dal 2007, è infatti una crisi atipica per i suoi connotati e la sua durata che ha ecceduto quelle delle precedenti crisi e richiederebbe per il suo superamento, come recentemente enunciato anche dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, strumenti altrettanto atipici di politica economica e di politica monetaria, mentre viene affrontata ancora con strumenti convenzionali. E’ come se in epoca di guerre missilistiche si volessero combattere battaglie ancora con l’arco e le frecce o si volesse schiacciare una mosca su una lastra di vetro di una finestra usando il martello.
In termini di durata la crisi della prima guerra del Golfo durò dal 3 agosto 1990 al 17 gennaio 1991, quella asiatica andò dal 27 ottobre 1997 al 9 gennaio 1998, la crisi russa dal 4 agosto 1998 al 28 ottobre dello stesso anno, e ancora: la crisi delle Torri gemelle dal 7 settembre (cominciò prima del giorno 11) 2001 al 5 novembre 2001, infine la crisi Enron e poi a seguire la seconda guerra del Golfo andarono dal 3 luglio 2002 al 7 aprile 2003. Come si può osservare ciascuna di queste crisi durò un arco di tempo che non ha ecceduto in ciascun caso l’anno, e tra una crisi e l’altra ci sono stati periodi di forte ripresa dell’economia globale.
Non è questo il caso della crisi attuale che – come appena accennato – dura ininterrottamente dal 9 agosto 2007 e ha visto succedersi in un tutt’uno al suo interno anche la crisi della banca d’affari Lehman Brothers (15 settembre 2008-27 maggio 2009), quella greca (dal 6 maggio 2010 fino a oggi) e quella più generale di altri paesi dell’euro (a partire almeno dall’8 agosto 2011). Le misure adottate per contrastarla hanno comportato un netto aumento del debito pubblico nella generalità dei paesi interessati, trasferendo a carico dei contribuenti i guasti di una politica finanziaria che è benevolo definire arrischiata. In aggiunta – è questo il dato più allarmante – hanno implicato pesanti effetti recessivi in alcuni paesi dell’area euro che hanno modificato, comprimendola invece di allargarla, la base imponibile fiscale come accadde all’epoca del collasso dell’impero romano.

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