venerdì 10 agosto 2012

Wagner e il Leviatano insonne, di Vito Tanzi


C’è una legge: nel tempo gli stati spendono e sprecano. Vero. Ma non tutto il mondo è paese

Pubblichiamo ampi stralci di uno studio appena pubblicato da Politeia, think tank indipendente inglese, e scritto da Vito Tanzi, direttore del Dipartimento affari fiscali del Fondo monetario internazionale dal 1981 al 2000, già sottosegretario al ministero del Tesoro dal 2001 al 2003 e Senior associate del Carnegie Endowment for International Peace. Il titolo originale del paper è: “Una strada realistica per la ripresa. Perché le soluzioni keynesiane non possono funzionare”.  

Uno degli aspetti centrali della spesa pubblica che potrebbe essere rilevante in un’ottica di uscita dalla crisi è l’attitudine dimostrata nel passato da alcuni – seppure non tutti – programmi governativi.  Lo sviluppo di questi programmi ha dimostrato una tendenza talmente regolare e prevedibile da assomigliare a una linea tipica di crescita della spesa pubblica, assimilabile alla “Legge di Wagner”. (La legge prende il suo nome da quello dell’economista tedesco Adolph Wagner, morto nel 1917,  e dimostra che con il progressivo sviluppo delle economie industriali, anche la spesa pubblica aumenta, ndr). 

La tendenza di cui parliamo indica il perché il ruolo economico dello stato nel suo complesso cresce con il tempo, e aiuta a metterein luce la Legge di Wagner: la maggior parte dei programmi di governo, specialmente quelli senza una scadenza chiaramente definita, tende ad ampliarsi e a diventare più dispendiosa con il passare degli anni. In generale, tanto più a lungo le direttive restano in vigore, tanto più risulteranno costose. Potranno essere snelle in origine, ma tendono comunque a diventare più onerose con il passare degli anni.
Ci sono almeno tre motivi principali che guidano questa espansione. Primo: i programmi pubblici, specialmente quelli indirizzati a una certa categoria sociale anziché con carattere universale, nel momento della loro creazione hanno avuto come obiettivo il sostegno o la protezione di un gruppo di individui limitato e ben definito (ad esempio persone con un handicap grave o che versano in condizioni di povertà estrema). Tuttavia con il passare del tempo la copertura si è estesa e si sono aggiunti nuovi beneficiari che non avevano le credenziali stabilite in origine, gruppi e individui che quindi in principio non sarebbero rientrati nei programmi. L’influenza di certi gruppi di pressione, la corruzione di funzionari pubblici, le truffe da parte di singoli individui e altri fattori possono contribuire alla crescita nel numero di persone “coperte”. L’aumento dei costi deriva principalmente dall’ampliamento nel tempo dei soggetti beneficiari della spesa.
C’è un secondo motivo di questa apparentemente ineluttabile espansione del ruolo governativo. Crescono le agevolazioni o i servizi forniti agli utenti in forza dei programmi, così come il numero di impiegati necessari per farli funzionare. (Ciò vale anche per i servizi che sono stati disegnati fin dal principio per avere una copertura universale, come ad esempio i servizi scolastici per alcune fasce di età o i servizi sanitari universali). L’aumento dei costi in questo caso non è dovuto all’aumento del numero di destinatari dei servizi, ma all’incremento del numero di impiegati o fornitori deputati a erogare i servizi ai cittadini. Nell’esempio delle scuole o dei servizi sanitari (progettati per dare una copertura universale), il numero di impiegati pubblici pagati per fornire i servizi e i costi relativi sono aumentati con l’aggiunta a libro paga di amministratori, consiglieri, manager e altri soggetti. Ad esempio, negli Stati Uniti è aumentato il numero di impiegati che si occupano di attività collegate allo sport o di carattere sociale (che hanno poco a che fare con l’educazione in senso stretto), oppure quello degli psicologi dell'infanzia o di professionisti specializzati nelle problematiche degli alunni in aggiunta a quello dei direttori generali. Dunque coloro i quali beneficiano dei programmi pubblici come “fornitori” (che spesso godono di migliori condizioni lavorative rispetto a quanti sono occupati nel settore privato) aumentano con il passare del tempo, il che spesso porta a consistenti aumenti nei costi dei programmi.
La terza ragione è che la maggior parte dei programmi pubblici, universali o no (fatta eccezione per le attività a relativamente bassa intensità di manodopera, come ad esempio la distribuzione gli assegni pensionistici), tende a produrre inefficienza tecnica. Queste inefficienze implicano degli sprechi perché il risultato conseguito o i servizi prestati potrebbero essere prodotti a costi inferiori. Inefficienze tecniche derivano dall’assenza di competitività nell’ambiente in cui operano gli impiegati pubblici: senza la motivazione del profitto o senza i meccanismi di concorrenza a guidare un intervento, i soggetti coinvolti tendono a non sentire l’incentivo a lavorare al massimo livello possibile e a non lavorare nel modo più efficiente ed economico.
La prova che le cose stanno così e le tre ragioni per un’espansione infinita dei costi si possono riscontrare in diversi paesi. Il fenomeno dell’aumento del costo dei singoli programmi riconducibili a queste tre cause, per esempio, è verificabile con le pensioni di invalidità in cui il numero è aumentato drammaticamente in molti paesi europei e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti le domande per ottenere sussidi per invalidità sono aumentati del 30 per cento dal 2007. Nel caso dei buoni pasto pubblici (“food stamps”), il numero di richiedenti è anch’esso aumentato significativamente nel corso degli anni, così come il numero di persone che pretendono pensioni pubbliche. Il numero delle richieste è cresciuto in maniera considerevole; e in assenza di riforme sia il numero dei beneficiari effettivi sia il costo dei programmi sono aumentati con sostanziale continuità.

La deriva “alla greca”
Un esempio estremo di questa tendenza arriva dalla Grecia, dove l’età pensionabile per lavori considerati usuranti è stata fino a pochi mesi fa di 55 anni per gli uomini e 50 per le donne. Un tale trattamento tanto vantaggioso per i lavori più faticosi ha provocato negli anni una progressiva riclassificazione di diverse professioni come “usuranti”: il giornalista e saggista americano Michael Lewis, nel suo libro intitolato “Boomerang”, ha segnalato che ad Atene circa 600 impieghi sono classificati come tali, inclusi parrucchieri, annunciatori radiofonici, camerieri, e musicisti. Un’altra immagine la fornisce il programma di buoni alimentari introdotto negli Stati Uniti dal presidente Franklin Delano Roosvelt nel 1939 per aiutare solo le persone più povere. Nel 2011 la bellezza di 45 milioni di persone, ovvero un americano su sette, hanno ricevuto sussidi alimentari, al costo di 72 miliardi di dollari; tra il 2007 e il 2011 il numero di beneficiari di questo programma è cresciuto del 70 per cento, ed è improbabile che il numero di persone molto povere sia cresciuto allo stesso modo. A Washington, una delle città con il più alto reddito individuale al mondo, un abitante su cinque adesso usufruisce dei “food stamps”. Lo stesso processo ha portato a un aumento nel numero di chi riceve pensioni pubbliche in paesi come gli Stati Uniti, Italia e alcuni altri.
Negli stessi casi è aumentato pure il numero di funzionari nei programmi pubblici, con l’annessa inefficienza che spesso caratterizza le politiche governative. Questa inefficienza si sviluppa di norma quando le istituzioni si trovano in una posizione di monopolio o non devono affrontare le pressione di un mercato competitivo. Alcune di queste inefficienze possono avere origine nelle regole per il mercato del lavoro promosse dalle organizzazioni sindacali o possono essere dovute a controlli laschi.
Ammettere l’esistenza di queste tendenze generali e fare qualcosa a riguardo può essere importante per far diventare i governi più efficienti e rendere più sostenibili i conti pubblici nel medio termine. Per raggiungere l’obiettivo può servire un ritorno alle intenzioni originali di questi stessi programmi. In ballo anche l’eliminazione di alcuni tra di essi dall’ambito del settore pubblico. Dovremmo riconoscere che esistono differenze enormi, fino al 20 per cento del pil, nei livelli di spesa pubblica dei paesi industrializzati. Si potrebbero comparare Australia, Svizzera, Giappone e Corea del Sud da un lato, e Italia, Belgio, Francia, Grecia dall’altro. Eppure differenze così ampie nella spesa pubblica non corrispondono a livelli tanto differenti di welfare che i governi riescono a fornire ai cittadini. Se il primo gruppo di paesi riesce a cavarsela così bene con un livello di spesa inferiore (spesso molto inferiore) al 35 per cento del pil, perché gli altri paesi avrebbero bisogno del 45 o addirittura oltre il 50 per cento del pil da dedicare ai programmi governativi? Questa domanda dovrebbe essere posta con tanta più urgenza adesso che rimettere in ordine i conti pubblici è diventata una priorità fondamentale per molti paesi.

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