sabato 30 giugno 2012

Riforme, poche cose da fare senza indugi, di Michele Ainis

ISTITUZIONI BLOCCATE E SINDROME DI STOCCOLMA

Una paralisi cerebrale ha trasformato le due Camere in organo consultivo del governo, facendo infine assumere al potere esecutivo le sembianze del legislativo

Possiamo mantenere i conti in ordine se nelle istituzioni regna il massimo disordine? Perché è questo il balletto di cui siamo spettatori: una quadriglia in cui i cavalieri si scambiano le dame, in cui ciascuno ruba il posto all'altro. Succede, da tempo, circa i conflitti fra politica e giustizia; succede nelle relazioni fra Stato e regioni, fonte d'un contenzioso che ormai assorbe per intero la Consulta; succede, soprattutto, nel rapporto del Parlamento col governo. Il gabinetto Monti ha chiesto 28 voti di fiducia in 7 mesi, in media uno a settimana: è il record storico della Repubblica italiana, tanto da oscurare le 50 fiducie in 42 mesi ottenute dall'ultimo governo Berlusconi. Per sovrapprezzo, inonda le assemblee legislative di decreti: sono 13 quelli da convertire entro Ferragosto. E ogni volta scatta, puntuale, il maxiemendamento, accompagnato dall'ennesima fiducia. Dunque dibattito strozzato, tempi contingentati, e in conclusione prendere o lasciare. Potremmo definirlo un sequestro di persona, se il Parlamento avesse un corpo e un'anima.



Ma in questo caso è il prigioniero che si consegna volontariamente al suo sequestratore. Di più: lo invoca, lo implora, come per effetto della sindrome di Stoccolma. È accaduto, per esempio, quanto alla riforma del finanziamento pubblico ai partiti. Una legge che la maggioranza aveva promesso di varare in fretta e furia, dopo gli scandali della Margherita e della Lega; impegnandosi per giunta a devolvere ai terremotati i quattrini dell'erario. Invece fin qui nessuna legge, mentre la tranche di luglio (91 milioni) sta per imbucarsi nelle capienti casse dei partiti. Sicché, per salvare la faccia, il 20 giugno la prima commissione del Senato ha approvato un ordine del giorno che reclama un decreto legge del governo, come se non ne avessimo già in circolo abbastanza. Col senno di poi, sarebbe stato meglio risparmiarsi la promessa, per evitare di venire sbugiardati. Come è successo anche ad Alfano: in tre settimane licenzieremo la nuova legge elettorale, aveva detto l'8 giugno, mentre Bersani e Casini annuivano in silenzio. Tempo scaduto, ma della legge non c'è neppure l'ombra.

È quest'impotenza, questa paralisi cerebrale, che ha trasformato le due Camere in organo consultivo del governo, facendo infine assumere al potere esecutivo le sembianze del legislativo. Eppure, a leggere la nostra vecchia Carta, il modello è di tutt'altro stampo: l'Italia è retta da una forma di governo parlamentare. Attenzione all'aggettivo, perché qui ha un valore sostantivo. Significa che è il Parlamento il motore del sistema, l'officina in cui si forgiano le riforme più essenziali. Già, ma quali? La legge sulla corruzione latita in Senato. A ridurre le province penserà il governo, ormai le Camere ci hanno rinunciato. Sulla riforma Rai è in programma una puntata a "Chi l'ha visto?". Idem per la legge sulla democrazia interna dei partiti. Senza dire dei temi etici: il testamento biologico, l'omofobia, il divorzio breve. Silenzio sulle carceri, benché siano divenute una vergogna nazionale. Silenzio sulle nuove regole per la cittadinanza agli immigrati, a dispetto dei gol di Balotelli. Silenzio su tutto, e nessun principe azzurro a svegliare la bella addormentata.

Da qui l'urgenza di metterci rimedio. Come? Con una riforma che restituisca al Parlamento la capacità di produrre decisioni. Intanto rinverdendone il prestigio, l'autorità perduta, e per questo ci vuole un'altra legge elettorale. E in secondo luogo con qualche intervento di manutenzione costituzionale, come quello pendente al Senato. Senza rivoluzioni, però: non c'è nessun bisogno di rovesciare la Costituzione come un calzino usato. E senza baratti: hanno sempre il fiato corto. Se il Pdl ha a cuore il presidenzialismo (amore legittimo, ancorché tardivo), difficilmente caverà un ragno dal buco scambiandolo con il doppio turno nei confronti del Pd, con il Senato federale nei confronti della Lega. Occorre cercare le soluzioni che uniscono, non quelle che dividono. Specialmente quando c'è da riscrivere le regole del gioco, perché allora serve l'accordo di tutti i giocatori.


http://www.corriere.it/politica/12_giugno_30/riforme-poche-cose-senza-indugi-ainis_323ef0c8-c276-11e1-a34b-90a1f1a78547.shtml

Cosa vuole Berlino, senza moralismi, di Domenico Lombardi


Capire Merkel


Sotto la patina rigorista, c’è una pervicace strategia egemonica

Il vertice dell’Unione europea che si è appena concluso recita un copione in gran parte simile a quelli precedenti. Come è accaduto in altri summit dall’inizio della crisi, alcune decisioni sono state prese, come la vigilanza bancaria unica e una maggiore flessibilità nell’utilizzo del Fondo salva stati. Tuttavia le scelte sistemiche, le più controverse ma anche più efficaci, sono state rinviate al futuro: unione fiscale e politica, ruolo della Banca centrale europea nell’alimentare credibilmente le risorse del Fondo salva stati per renderlo efficace, solo per citarne alcune. I mercati inizialmente reagiscono positivamente ma probabilmente cominceranno presto a ripensarci.
Il copione, implicitamente accreditato dalla stampa anglosassone, tende a raffigurare la cancelliera tedesca come un politico cauto, tattico più che stratega, a tratti miope, incapace di assumersi la responsabilità di scelte coraggiose per non disintegrare il precario equilibrio politico che tiene in vita la sua coalizione. In questa visione, il suo avere a cuore il destino dell’Eurozona, ovviamente in un contesto di accresciuta stabilità fiscale, non è fondamentalmente messo in discussione.
Il problema di questo approccio è che nasconde due ipotesi fondamentali, accettate acriticamente: che la Germania abbia a cuore il bene comune dell’intera Eurozona e che le categorie analitiche che ne devono guidare le sue decisioni siano da valutare esclusivamente con il metro della razionalità (e della scienza) economica. L’evidenza che abbiamo di fronte è, però, ugualmente compatibile con un altro schema interpretativo che vede nell’attuale crisi la leva più efficace per attuare un disegno egemonico di puro interesse nazionale.
Sorprende per esempio che il potere negoziale dell’opposizione parlamentare in Germania, vista la maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione dei nuovi trattati europei, non si sia risolto in un atteggiamento più conciliatorio della cancelleria. D’altronde nella logica dello schema qui proposto, la Germania ha interesse a procrastinare un processo di risoluzione di una crisi che aumenta la distanza relativa fra la sua economia e quelle di altri paesi. Nel prossimo anno, per esempio, Italia e Spagna si contrarranno nuovamente; l’economia tedesca crescerà, invece, dell’1,5 per cento, secondo il Fmi. Utilizzando uno strumentario squisitamente economico-finanziario rispetto a quello tradizionale strategico-militare, la Germania finirà col promuovere l’unione politica europea in una condizione di forza solo dopo aver disarmato quelle economie che ne possono compromettere la supremazia nel teatro europeo.
In linea con questo approccio, alla Bce si dà il semaforo verde a intervenire; ma più per calmierare gli sviluppi imprevedibili ed estremi della crisi che per stabilizzare le sorti delle economie vulnerabili; questo anche se adempiono agli impegni presi in sede europea e sono vittime evidenti di fenomeni di contagio, come l’Italia oggi. Il Fondo salva stati viene istituito, ma non è dotato inizialmente né di risorse adeguate né della necessaria flessibilità operativa. Gli viene, ora, attribuita maggiore flessibilità nel calmierare i rendimenti di quei paesi in regola con Bruxelles; eppure, senza un “meccanismo bazooka” che ne alimenti la capacità finanziaria, l’efficacia è a rischio.

L’esempio della Bce e del Fondo anti spread

Gli aiuti alle economie sotto stress attraverso i programmi di aggiustamento vengono erogati, ma sono costantamente sottodimensionati rispetto alle effettive esigenze finanziarie dei paesi in questione, anche se, di volta in volta, le condizioni sono ritoccate in senso favorevole. Nel frattempo, il dilatarsi dello spread fra i titoli di stato dell’Eurozona impone un onere crescente per le economie in crisi, ma accentua il ruolo di investimento rifugio dei titoli tedeschi. A parità di altre condizioni, si accresce così la possibilità, per il settore pubblico tedesco, di finanziarsi sul mercato e offrire migliori o maggiori servizi, rafforzando la competitività del sistema nazionale. Lo spread che grava sui titoli di stato tende a estendersi anche al mercato dei finanziamenti per le imprese. Pertanto, le aziende tedesche si trovano nella condizione di ammodernare il loro stock di capitale a condizioni più vantaggiose. Le imprese italiane, invece, sono impossibilitate ad accedere al mercato del credito, accentuando la difficoltà di colmare il divario competitivo. Come se non bastasse, le autorità di Berlino predicano l’aggiustamento nominale dei salari nelle economie meridionali per colmare il divario di competitività nell’Eurozona. In assenza della disponibilità da parte tedesca ad accettare per sé tassi di incremento salariale significativamente più elevati rispetto alla recente media storica, ciò comporta un’ulteriore riduzione nominale del pil per le economie meridionali (e un aumento dello stesso debito in rapporto al pil).
Un’analisi attenta della dinamica della crisi mette pertanto in luce la strutturale asimmetria di incentivi tra la Germania e le economie meridionali nella tempistica della risoluzione della crisi. In questo scenario, vi sono due circostanze che forzeranno Berlino a chiudere tale crisi. La prima prevede che la Francia venga coinvolta in modo più pervasivo nella dinamica recessiva che sta attanagliando le altre economie dell’Eurozona. Una situazione di difficoltà, protratta nel tempo, per Parigi, porterebbe alla fine della formale parità nell’asse franco-tedesco, motore storico dell’integrazione europea, suggellando l’obiettivo ultimo della strategia teutonica. La seconda circostanza è il rischio di un’imminente implosione dell’Eurozona innescata da una crisi spagnola con successivo contagio dell’Italia. Quale che sia l’ultimo capitolo della crisi, l’attesa favorisce sempre la Germania e pone in svantaggio (crescente) tutti gli altri.

venerdì 29 giugno 2012

Non giocando a calcio si può vincere lo stesso. Il segreto dell’altra finalista e la mezza truffa della Spagna, di Jack O'Malley


Il catenaccio è morto e il tiki taka non si sente troppo bene. La terza finale di fila della Spagna è un inganno. Nell’Europeo più noioso dell’ultimo trentennio (persino il rigore a cucchiaio è già diventato un luogo comune) una delle squadre più noiose dai tempi della Grecia del 2004 arriva in finale per il semplice fatto che gli altri non esistono. Per di più, offrendo uno spettacolo peggiore della telecronaca Cerqueti-Collovati, che è tutto dire. Forse Del Bosque vuole dimostrare che non giocando a calcio si può vincere lo stesso, ma la parodia del Barcellona non può reggere a lungo (soprattutto là dove il Barcellona ha ormai dimostrato quest’anno di essere la parodia di se stessa), e in finale andrà punita. Nella partita contro il Portogallo (l’Arsenal delle Nazionali, che ogni volta sembra quella buona e poi non vince niente) ha offerto un gioco più imbarazzante dell’Inghilterra, che almeno un paio di volte verso la porta un pallone lo aveva calciato. Nel calcio conta il risultato finale, certo, ma al di là della gioia nazionale di chi porterà a casa il trofeo, questo Europeo non lascerà traccia negli annali del calcio, roba che la campagna acquisti dell’Inter e del Milan finora è stata più eccitante. Ci penseremo poi, ora bisogna seppellire definitivamente gli spagnoli, che da quando non fanno più i numeri da circo hanno perso anche l’unica utilità che avevano, quella di intrattenimento.

Stratosferica, Italia, di Lanfranco Pace


Adesso se po' fa'


Avremmo potuto perdere contro chiunque, ma con la Germania mai, mai, mai

 Stratosferica, Italia. Li abbiamo buttati fuori per la quarta volta in competizioni di alto livello, per la Germania siamo quello che era Santana per Pietrangeli, la bestia nera e maledetta, siamo la prova  provata che quando ci incontra si scopre debole, intimidita, ridotta al comune denominatore calcistico:muscoli, volontà e poco altro. 
Ci sarebbe voluta una Germania eccelsae non male educata  a maramaldeggiare con i piccoli. Ci sarebbe voluta una Germania consapevole di non giocare contro la Grecia e un simulacro di carenaggio. Ci sarebbe  voluto gioco ampio,  cambi repentini di ritmo e di fronte, ci sarebbe voluto genio. Non ce l’hanno. Ozil, il tanto decantato Ozil, ha vagato in campo smarrito come un pulcino, e finalmente si è visto che Pirlo vale dieci volte tanto, che fra De Rossi e Schweinsteiger non c’è confronto possibile, infine che Riccardo Montolivo, timido e incompiuto, ha solo bisogno che qualcuno gli dia fiducia con continuità. Se è stata la più brutta Germania vista agli Europei – e da molto tempo in qua in campo internazionale – è esclusivamente per merito degli azzurri.
Il pack dei sette e mezzo, i quattro dietro più Pirlo De Rossi e Marchisio e un po’ di Montolivo, anzi degli otto e mezzo, perché di Buffon non ci si può proprio dimenticare, decisivo tanto quanto Neuer è apparso colpevole di supponenza nel primo gol di Mario Balotelli,  questo blocco insomma è di acciaio temperato, regge l’urto e riparte, zigzaga nello stretto, esce palla al piede. E non spreca nulla. Presi uno ad uno non sono fenomeni, a parte Pirlo e De Rossi, ma nasce da questo collettivo un’alchimia che ha qualcosa di strabiliante: sono imbattibili di testa, reattivi nell’anticipo, si sorreggono l’uno con l’altro, ed è questa la grande bellezza del calcio. Mi duole ammetterlo, da milanista, ma questo blocco Juve fatto di bric e di brac, con recuperi vintage, è grande, ha ottima e robusta fattura: quel signore con il parrucchino o con il trapianto, non so mai, ha fatto un lavoro incommensurabile, sui piedi e nella testa, e Prandelli è stato più che mai intelligente  a farlo suo. Se poi ci si aggiungono le giocate fini di Montolivo, una decina, le quattro serpentine di Cassano e finalmente un Balotelli, essenziale e straripante, quattro occasioni, due errori e due gol, davvero non ce n’è per nessuno.  
Siamo e restiamo italiani però: e se non ci complichiamo la vita non siamo felici. Il risultato è bugiardo, abbiamo tirato in porta una decina di volte, sprecato quattro, cinque, palle gol: almeno due limpide di quelle che non si concedono a nessuno per definizione.
Ora siamo ebbri e felici. Anche il rigore – quello di tutti i giorni – ha altro sapore. Siamo insensibili allo spread.  Aver visto i tifosi tedeschi prima ammutolirsi, poi piangere vale come vendetta postuma della lira. Non ci ha sorpreso: in Polonia e Ucraina sapevamo che sarebbe potuto accadere di tutto, essere eliminati nella fase a gironi, perdere malamente con l’Irlanda o fare una figuraccia con la Francia o l’Inghilterra. Tutto sarebbe stato nel novero del possibile e poi come si dice la palla è – vagamente –rotonda. Ma arrivare in semifinale e perdere con la Germania, questo non sarebbe mai successo: mai, mai, mai.
Gli azzurri sanno di non avere ancora fatto nulla di importante: come diceva l’Avvocato il secondo classificato è solo il primo degli ultimi. E’ questo lo spirito di tutto un popolo che considera la dignità della partecipazione una roba per snob luetici e noiosi e vuole sempre e solo vincere. Domenica contro la Spagna sarà di nuovo grande battaglia. E grande calcio contro un avversario molto più tecnico dei sopravvalutati tedeschi. Non ci sono fantasmi, tra noi e loro. Solo una vendetta piccola e tutta latina da consumare. L’ho già scritto: questa volta se po’ fa’.

giovedì 28 giugno 2012

Inghilterra, Moratti: "Hodgson non è inferiore a Capello"

"In Italia non è mai stato apprezzato come meritava"

Massimo Moratti è sceso in campo a difesa di Roy Hodgson, ct inglese, poco considerato dalla stampa italiana che non manca mai di rimarcare come l'Inghilterra abbia perso molto dopo l'addio di Fabio Capello: “Hodgson mi è sempre piaciuto per la sua lealtà, cultura ed educazione. Purtroppo in Italia non è mai stato apprezzato a dovere. Sento certi commenti in tv e non li capisco: tutti a ripetere che l'Inghilterra sarebbe stata più pericolosa con Capello, ma non mi pare che con Hodgson la squadra sia in difficoltà: Ha fatto sette punti, come la Spagna, e nella fase a gironi solo la Germania ha fatto meglio. I risultati direi che sono dalla sua - continua Moratti intervistato da 'Il Giorno'. Ovviamente io tifo per gli azzurri e ho fiducia in Prandelli, ma credo che presi uno per uno i nostri avversari siano più forti di noi”.


http://www.tuttoeuropei.com/?action=read&idnotizia=1696

How Europe Can Rescue Europe, by George Soros


At their meeting in Rome last Thursday, the leaders of the eurozone’s four largest economies agreed on steps towards a banking union and a modest stimulus package to complement the European Union’s new “fiscal compact.” Those steps are not enough.
This illustration is by Newsart and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Newsart
CommentsGerman Chancellor Angela Merkel resisted all proposals to provide relief to Spain and Italy from the excessive risk premiums that both countries are now confronting. As a result, the EU’s upcoming summit could turn into a fiasco, which may well prove lethal, because it would leave the rest of the eurozone without a strong enough financial firewall to protect it from the possibility of a Greek exit.
CommentsEven if a fatal calamity can be avoided, the division between creditor and debtor countries will be reinforced, and the “periphery” countries will have no chance to regain competitiveness, because the playing field is tilted against them. This may serve Germany’s narrow self-interest, but it will create a very different Europe from the open society that fired people’s imagination and propelled European integration for decades. It will make Germany the center of an empire and permanently subordinate the “periphery.” That is not what Merkel or the overwhelming majority of Germans stand for.
CommentsMerkel argues that it is against the rules to use the European Central Bank to solve eurozone countries’ fiscal problems – and she is right. ECB President Mario Draghi has said much the same. Indeed, the upcoming summit is missing an important agenda item: a European Fiscal Authority (EFA) that, in partnership with the ECB, could do what the ECB cannot do on its own.
CommentsIn particular, the EFA could establish a Debt Reduction Fund – a modified form of the European Debt Redemption Pact that was proposed by Merkel’s Council of Economic Advisers and endorsed by Germany’s Social Democrats and Greens. In exchange for specified structural reforms in Italy and Spain, the Fund would acquire and hold a significant portion of their outstanding stock of debt. It would finance the purchases by issuing European Treasury bills – joint and several obligations of the member countries – and pass on the benefit of cheap financing to the countries concerned.
CommentsThe Treasury bills would be assigned a zero-risk rating by the authorities and treated as the highest-quality collateral for repo operations at the ECB. The banking system has an urgent need for risk-free liquid assets. Banks are currently holding more than €700 billion of surplus liquidity at the ECB, earning only one quarter of 1% interest. This assures a large and ready market for the bills at 1% or less.
Should a participating country subsequently fail to abide by its commitments, the EFA could impose a fine or other penalty, which would be proportionate to the violation, thereby preventing enforcement from becoming a nuclear option that can never be exercised. This would provide strong protection against moral hazard. A successor government in, say, Italy, would find it practically impossible to break any commitments undertaken by Italian Prime Minister Mario Monti’s current administration. With practically half of Italy’s debt financed by European Treasury Bills – producing an effect similar to a reduction in the average maturity of its debt – a successor government would be all the more responsive to any punishment imposed by the EFA.
CommentsAfter a suitable period, the participating countries would enter into debt-reduction programs tailored in a way that does not jeopardize their growth. This would be the prelude to the establishment of a full political union and the introduction of Eurobonds. Of course, the issuance of European Treasury bills would require the approval of the Bundestag, but it would be in conformity with the German Constitutional Court’s requirement that any commitment approved by the Bundestag be limited in time and size.
CommentsIt is not too late to turn this proposal into a political declaration that outlines not only the long-term goal of a political union, but also a road map toward a fiscal and banking union. Guided by this declaration, the eurozone’s financial-rescue fund, the European Stability Mechanism (ESM), could immediately take over the ECB’s holdings of Greek bonds; the ECB could start accumulating Spanish and Italian bonds; and Italy and Spain could implement the structural reforms needed to qualify for the Debt Redemption Fund.
CommentsThis agenda would bring immense relief to the financial markets. Equally important, it would change Europe’s political dynamics from negative to positive.
The main obstacle is that German politicians remain mired in a “can’t do” mode. Merkel insists that a political union should precede a full-fledged fiscal and banking union. That is both unrealistic and unreasonable. The three have to be developed together, step-by-step. There can be no treaty or constitutional clause preventing the establishment of the EFA if the German electorate, as represented by the Bundestag, approves it; otherwise, the ESM could not have been created. If the rest of Europe is united behind this proposal, and the Bundestag rejects it, Germany must take full responsibility for the financial and political consequences.

Greece and the Limits of Anti-Austerity, by Mark Roe


Is austerity dead? At last month’s G-8 meeting at Camp David, the German-led austerity program for the eurozone’s troubled southern members ran up against substantial resistance. Likewise, France’s recent presidential election bolstered those who argue that Europe must grow its way out of its debt-heavy public sector, rather than aim for immediate fiscal orthodoxy. And there is no guarantee that Greece’s newly elected center-right New Democracy party, which favors honoring the country’s bailout terms, will be able to form a majority government.
This illustration is by Steve Ansul and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Steve Ansul
CommentsThe United States, by contrast, has pursued expansionary and growth-oriented macroeconomic policies since the 2007-2009 financial crisis, despite massive budget deficits. Thus far, judging from the modest recovery in the US versus non-recovery in Europe, American policy accommodation is performing better than European austerity.
CommentsBut simply choosing between expansion and austerity is not the whole story. Macroeconomic policies interact with on-the-ground microeconomic realities in subtle but powerful, rarely remarked-upon ways. Simply put, Europe’s microeconomic structure makes the same growth-based macroeconomic policies less effective in the European Union than in the US.
CommentsHere’s why: macroeconomic easing, by lowering interest rates or otherwise pumping money into the economy, aims to increase economic activity. With more money moving around, businesses rehire employees and ask existing employees to work more hours. Entrepreneurs considering whether or not to start a business decide to proceed, and their bank lends them the money to make the new business viable.
CommentsThe newly hired workers and newly formed businesses spend money, which induces more hiring, more start-ups, and yet more spending. The economy grows, yielding higher tax revenues, thereby helping governments to put their fiscal house in order. The country grows its way out of its economic problems.
CommentsBut the EU cannot realize this scenario as easily as the US can, because micro-level rules in the EU generate friction that slows that kind of an expansion.
CommentsThe EU’s stricter labor rules are a well-known and often-cited example. European labor-market rigidities mean that it is difficult in many EU countries to downsize a company. Anticipating that difficulty, companies are less willing to hire in the first place, until they are sure that long-term demand for their products is sufficient to justify long-term hires. Hence, even if businesses get easier access to money and loans, many firms will still decline to hire on a large scale, fearing that they would be saddled with a large payroll in a future downturn.
CommentsFor example, The Economist’s recent portrait of Italian Prime Minister Mario Monti shows that Italy continues to be stymied by labor rules that make businesses reluctant to expand beyond 15 employees (after which it becomes hard for a firm to downsize). To work smoothly, expansive macroeconomic policies require compatible microeconomic rules.
CommentsThere is some irony in the fact that the strongest proponent of austerity has been German Chancellor Angela Merkel’s government, because Germany, particularly under her predecessor Gerhard Schroeder’s Social Democrat-led government, did much more to liberalize the country’s rules for labor and business than other EU governments. Expansive, growth-based policy could work better in Germany than in many eurozone countries for which it is being prescribed.
CommentsRules that impede business start-ups may be an even more important obstacle to making monetary expansion effective. It is simply too difficult to launch many types of businesses in many places, and to expand those that are started. Necessary licenses are often not routinely obtained. The simple start-up paperwork is still more burdensome than it is in the US. Indeed, while this process has become easier in Europe in recent years, the World Bank estimates that it still takes twice as long to start up a small business in Greece and much of the rest of the EU as it does in the US – and four times as long in Spain.
CommentsWhile the relative absence of Facebook-style mega-entrepreneurial successes in Europe is regularly bemoaned, the difficulties of opening hairdressers, basic retailers, and simple mail-order businesses may have an equally profound overall effect.
CommentsConsider taxi licensing. Many people can drive a cab, including many who are unemployed, but not so many can get permission to do so in many major cities in Europe and the US. Imagine much of the economy organized like the taxi industry. Most kinds of economic stimulus won’t generate more taxis, until entry restrictions are reduced.
CommentsMagda Bianco, Silvia Giacomelli, and Giacomo Rodano, researchers at the Bank of Italy, report that these institutional roadblocks to expansion remain substantial in Italy. A factory might get easier access to funds, and it might see more demand for its products, but, rather than hiring new workers, it might decide to raise its prices. A potential competitor might consider entering that market; but, given substantial regulatory entry barriers, it might ultimately decide to remain in its current business.
CommentsExpansionary monetary policy in such an environment might fail. Perhaps for this reason, France’s new president, François Hollande, favors using the government to direct specific outcomes – for example, by hiring 60,000 new teachers.
One can imagine a grand bargain in Europe, with expansionary macroeconomic policies coupled with the easing of microeconomic impediments. But existing businesses and already-employed workers prefer the status quo, and can powerfully inhibit policymakers. There may be more than a little of this in Greek politics, and that of other EU countries.

La doppia verità di Berlino e Parigi, di Stefano Cingolani


La Germania sferza gli altri paesi sul rigore e sui tempi ma non ha ancora approvato né il Fiscal compact né il Meccanismo di stabilità

E’ sostanza o accidente? Parola o cosa?Alla vigilia del vertice che dovrebbe salvare l’euro (almeno stando alle aspettative suscitate) si ripropone l’antico dilemma di Don Ferrante di fronte alla peste. Ieri sera si è svolto un incontro preliminare tra la cancelliera Merkel e il presidente francese Hollande. Rivive, dunque, l’asse renano? Una cosa è l’immagine, tutt’altra la realtà.
“Abbiamo lavorato bene sullo sviluppo”, è la dichiarazione ufficiale. Ma Frau Angela ha ridimensionato la bozza di proposte presentata dal quartetto Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi. Cominciando da quella che sembra più consistente e urgente: l’unione bancaria, sostenuta apertamente dal presidente francese. Secondo un rapporto di Nomura il fabbisogno di capitale delle banche europee è immenso già adesso, figuriamoci in caso di crisi: 100 miliardi di euro in Spagna, 60 in Gran Bretagna, 48 in Francia, 45 in Germania. L’Italia si ferma a una ventina, ma grandi istituti come Unicredit sono perennemente sotto attacco e il Monte dei Paschi viene salvato con altri due miliardi di Tremonti bond. Parigi accusa Berlino di non voler rinunciare alla potenza di fuoco delle proprie banche le quali, ancorché concausa della grande crisi del 2008 perché stracolme di mutui subprime, sono state protette e coccolate. Per non parlare delle Landesbanken e della casse di risparmio. Berlino a sua volta attacca Parigi: “Ma siete voi a non rispettare i patti di bilancio”. E non ha torto. Anche se qualche cambiamento viene registrato, si tratta di movimenti impercettibili. Hollande ha bisogno di una cifra che va tra i 7 e i 10 miliardi affinché il suo disavanzo resti entro il 4,5 per cento del pil. E il pareggio nella Costituzione? La Francia di Hollande, che doveva essere una soluzione, diventa un problema?
La Merkel ha respinto con veemenza gli Eurobond. “Mai durante la mia vita”. Ma l’Eliseo getta acqua sul fuoco: “Era una battuta in privato”. Gli esperti tedeschi, tuttavia, spiegano che mutualizzare il debito è estraneo anche allo spirito della Repubblica federale di Germania. Allo spirito forse, ma la realtà è ben più opaca. Berlino ha deciso di garantire titoli emessi dai Länder per far pagare loro tassi meno elevati. Esiste infatti anche uno spread interno tra il tasso dei Bund ormai vicino a zero e quel che le regioni pagano per colmare i loro buchi di bilancio. Il governo federale su questo è stato messo con le spalle al muro e, per ragioni di forza maggiore, ha mollato, approfittando del fatto che il Parlamento non ha ancora approvato né il Fiscal compact né il Meccanismo europeo di stabilità.
Sul dossier europeo, prima si è messo di traverso il Partito socialdemocratico che ha contrattato qualche sconto elettorale. Poi il 21 maggio è stato raggiunto un accordo, ma la maggioranza di due terzi è ancora lontana. Anche perché la Corte costituzionale di Karlsruhe ha deciso di accogliere un ricorso rigorista presentato dalla Linke, il partito di estrema sinistra. Dunque, la Merkel predica bene ma razzola male? I tedeschi, che lanciano la palla avanti e chiedono agli altri di cedere sovranità, sono i primi a non volerla cedere o comunque a fare resistenza. Per sciogliere ogni dubbio urbi et orbi, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha proposto di lasciare la parola direttamente agli elettori con un referendum costituzionale. La cancelliera, infuriata, tra una partita della Germania e una quadriglia romana, lo ha mandato elegantemente a quel paese.
Anche Olli Rehn, l’ex calciatore finlandese commissario economico dell’Ue, minimizza la proposta italiana di far comperare dal Fondo salva stati (oggi Efsf, domani Esm) i titoli dei paesi in difficoltà, ma “virtuosi”, insomma quelli che stanno tirando la cinghia, soprattutto Spagna e Italia. Lo scudo anti spread è solo paracetamolo? Dipende. Se il fondo emette titoli garantiti dalla Banca centrale, quindi a basso interesse, allora le cose cambiano e molto.
Si torna così al punto di partenza: che cosa può fare la Bce. Mario Draghi vuole un solenne sostegno da parte del Consiglio europeo. Pur senza trasformarsi in una Federal reserve, ha molte munizioni in canna. Ha già detto che può ricorrere a un terzo finanziamento illimitato delle banche quando si saranno davvero consumati gli effetti degli altri due (mille miliardi di euro). Per evitare che esse parcheggino il denaro liquido presso la Bce, Draghi potrebbe far ricorso, spiega Bloomberg, a tassi di interesse negativi come la Banca centrale svedese e la Bank of England, costringendo così a prestare davvero all’economia reale la moneta raccolta e trattenuta per motivi precauzionali. Una misura del genere potrebbe accompagnarsi a un taglio del tasso di riferimento portandolo dall’uno allo 0,50. Secondo l’Economist, la Bce ha poteri illimitati, ma è riluttante a usarli.

Gli alibi (facili) che non aiutano, di Alberto Alesina

NOI E BERLINO

I padri fondatori del progetto europeo negli anni Cinquanta avevano ben chiari i rischi dei conflitti intraeuropei di cui purtroppo la nostra storia è ricca. La loro visione era improntata dalla volontà assai nobile di evitarne altri. In questi giorni l'Europa sta rischiando di perdere qualcosa di ben più importante della moneta unica: la cooperazione economica, se non addirittura una cooperazione politica pacifica. Il livore antitedesco che si respira nel Sud Europa e in Francia è molto pericoloso, stucchevole e in gran parte infondato.

Quali sarebbero le colpe dei tedeschi? Primo: non essere stati più generosi con la Grecia e altri Paesi in difficoltà. Sicuramente i leader europei (tutti, non solo i tedeschi) hanno fatto un gran pasticcio con la Grecia creando poi contagio, ma è troppo facile essere generosi con i soldi degli altri. Cosa direbbero gli italiani se il loro governo proponesse loro un raddoppio dell'Imu per aiutare Grecia, Portogallo e le banche spagnole e irlandesi? Secondo: i tedeschi si sono arricchiti con le esportazioni ai Paesi mediterranei. E allora? Se i tedeschi sono più produttivi e hanno costi del lavoro per unità di prodotto piu bassi cosa dovrebbero fare: lavorare meno e peggio per aiutarci? È una colpa produrre Audi e Bmw che tutti vogliono?

I tedeschi erano i malati d'Europa negli anni Novanta. Hanno fatto riforme del mercato del lavoro difficili e hanno mantenuto un rigore salariale ferreo per dieci anni. Ora ne godono i benefici: ne hanno tutto il diritto. Terzo: i tedeschi si sono avvantaggiati da un euro «basso» rispetto al livello di un ipotetico marco. A parte il fatto che quasi la metà delle esportazioni tedesche sono all'interno dell'aera euro, i Paesi mediterranei hanno guadagnato anche loro dall'euro e più della Germania. Per esempio i tassi di interesse sui loro debiti non sarebbero stati così bassi perché si era eliminato il rischio svalutazione di dracma, lira e pesetas. Se questi Paesi invece di seguire politiche prudenti si sono buttati a capofitto a prendere a prestito in modo insostenibile o come nel caso dell'Italia si sono «addormentati» e non hanno fatto nulla è unicamente colpa loro.

Quarto: i tedeschi dovrebbero consumare di più sia a livello privato che pubblico. Un'altra chimera. La Germania ha un debito pubblico dell'80 per cento del Pil, non sono certo stati delle irragionevoli «formiche», né hanno fatto aggiustamenti fiscali draconiani. E comunque pensare che un paio di punti di spesa pubblica tedesca risolvano i nostri problemi è pura illusione senza alcun fondamento macroeconomico. Quinto: le colpe delle banche tedesche. Certamente, ne hanno tante, soprattutto quelle che si sono buttate a testa bassa nel marasma del subprime americano. Ma tanti sbagli hanno fatto anche le banche spagnole, greche, irlandesi e francesi. La bolla edilizia finanziata dalle banche spagnole è stata un disastro colossale.

È comprensibile quindi che la Signora Merkel rifiuti gli eurobond, e che sia sospettosa di altri schemi fiscali che finirebbero per far pagare il conto ai tedeschi. Dovrebbe essere però più aperta nel breve periodo su garanzie europee alle banche, questo sì. L'unico modo per convincerla a essere più accondiscendente è di fare riforme strutturali decise, incisive e veloci, senza se e senza ma. In cambio dell'unione bancaria che riduca i tassi che le imprese pagano e di una qualche forma di «socializzazione» del debito, i Paesi come il nostro dovrebbero legarsi le mani con programmi di riforme accettate, condivise e, sì, controllate dall'Unione Europea. Se questo significa perdita di sovranità nei confronti della Germania, così sia. Dovevamo pensarci prima.

Insomma, le promesse non bastano più e gli attacchi sguaiati contro la Germania di giornali, economisti e politici francesi e mediterranei sono controproducenti. I tedeschi si irrigidiranno ancora di più perdendo entusiasmo per il progetto europeo. E questo sarebbe un vero disastro. Se il progetto Euro dovese fallire non sarà certo una responsabilità dei tedeschi.


http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_27/alesina-gli-alibi-facili-che-non-aiutano_9bbd012a-c019-11e1-931f-9ffeafa6de3c.shtml

Le ragioni di Angela, di Marco Valerio Lo Prete


Dietro la strategia rigorista di Berlino c’è una filosofia morale, poi sano pragmatismo, una dose di liberismo e tanta buona memoria

E se Angela Merkel avesse ragione sulla crisi dell’euro? Se davvero il rigore fiscale  tutto-e-subito fosse l’unicaricetta per  avere un domani una crescita duratura? E se la cancelliera tedesca non avesse torto  a opporsi agli Eurobond e a ogni forma di  mutualizzazione del debito con gli altri  paesi della moneta unica? Se infine non  sbagliasse affatto a rifiutare perfino l’exit  strategy più immediata dalla crisi, quella che prevede la discesa in campo della Banca  centrale europea a sostegno dei debiti  sovrani più a rischio?
Sfogliando i giornali europei (tedeschi  esclusi, ovvio), così come quelli anglosassoni,  ci si rende conto che è sempre più  difficile trovare qualcuno che sia disposto  a dire apertamente: “Sì, Merkel ha ragione”. La cancelliera e il suo entourage ne  sono consapevoli, ricordano le incoronazioni  della stampa americana nel 2006 –  quando Merkel, nel 2005 al suo primo mandato  alla guida della Germania, fu subito  definita da Forbes come “la donna più potente  del mondo” – e fanno il confronto con  il linciaggio mediatico attuale, ma non si  scoraggiano. Anzi. La priorità – secondo  ampi settori dell’establishment tedesco – è  adesso quella di far capire le proprie ragioni ai concittadini europei. Sulla Klingelhöferstraße  di Berlino, nella sede centrale della Konrad Adenauer Stiftung, c’è uno dei punti nevralgici da cui emana questa  strategia di “soft power”. Non è un caso  se da almeno due anni – ovvero in concomitanza  con l’aggravarsi della crisi dell’euro  – la potente Fondazione finanziata  dal contribuente e affiliata alla Cdu, il partito  della Merkel, ha incrementato in maniera  sostanziale le risorse dedicate all’approfondimento  e alla diffusione delle  idee che informano le scelte di politica  economica di Berlino. Uno dei programmi  più foraggiati – in una Fondazione che solo  in Germania organizza 2.500 eventi ogni  anno, attirando 145 mila partecipanti, e  che opera in 120 paesi in tutto il mondo –  è oggi quello sulla “Soziale Marktwirtschaft”,  l’economia sociale di mercato. Presto anche l’ufficio romano della Fondazione  Adenauer si unirà all’offensiva (culturale),  diffondendo un manifesto – che  sarà chiosato da autorevoli economisti e  pensatori italiani – sull’economia sociale  di mercato. La prima citazione del manifesto,  da promuovere nelle intenzioni della  Fondazione con pubblicazioni e convegni, è di Ludwig Erhard, economista, politico  e cancelliere dal 1963 al 1966: “Qualsiasi  tentativo di creare un ipotetico benessere  con spirito caritatevole, spendendo  più denaro di quanto disponibile tramite  le entrate del fisco, violerebbe principi  buoni e assodati”. Poi ce n’è un’altra di Walter Eucken, economista tedesco e padre  dell’ordoliberalismo, che suona così:  “Ogni sforzo per rendere un sistema competitivo  è vano a meno che non sia garantita  una certa stabilità monetaria. Di conseguenza,  c’è un primato della politica monetaria  in ogni sistema competitivo”.
Altro  che stimolo fiscale, altro che stampare moneta. Sono sufficienti due citazioni, tra le  tante, ed entrambe le leve della politica  economica sono sistemate.  Ma questo manifesto serve soprattutto  per ricordare che, come Mario Monti racconta  di aver spiegato al presidente americano  Barack Obama, “bisogna tener presente  che per i tedeschi l’economia è ancora  un ramo della filosofia morale. La crescita  non è il risultato della domanda aggregata  keynesiana, è il premio a comportamenti  virtuosi”. E’ questo “gap culturale”  – si sostiene in ambienti della Cdu – una  delle ragioni per cui è difficile trovare chi  oggi nei paesi mediterranei dia ragione a  Merkel. “La riflessione economica in Germania  ha il suo punto di partenza nella libertà  dell’individuo, ma anche nella sua  responsabilità”, dice al FoglioMatthias Schäfer, a capo del Dipartimento per l’economia  politica della Fondazione Konrad  Adenauer a Berlino: “I risultati delle nostre  decisioni hanno sempre un impatto,  che può anche essere negativo, e di questo  impatto dobbiamo tenere conto nel ricalibrare  le stesse azioni”. Si prendano i paesi  europei che oggi devono fronteggiare le  conseguenze dell’eccessivo debito (privato  o pubblico, o tutti e due) accumulato negli  anni passati: è ovvio, ancor più secondo i  canoni dell’economia sociale di mercato,  che la crescita futura sarà “sostenibile” da  un punto di vista ambientale e fiscale soltanto  se non lascerà in eredità ulteriori dedi  Marco Valerio Lo Prete  biti da pagare alle prossime generazioni.  Dietro il binomio economia-morale c’è poi  una seconda riflessione: “In Germania è  molto forte la cultura dello stato di diritto,  delle regole. Tutte le parti contraenti di un  accordo devono stare ai patti, rispettare gli  obblighi assunti”, dice Schäfer facendo l’esempio  degli impegni presi dagli stati europei  a Maastricht e poi con il Fiscal compact  sempre sui conti pubblici.
Parla di “solidarietà  a doppio senso”, un’espressione decisamente  teutonica che al Foglio è spiegata così da Veronica De Romanis, autrice nel  2009 del libro “Metodo Merkel” (Marsilio):  “Il concetto di solidarietà tedesco è diverso  da quello usato nei paesi latini, è una  strada a doppio senso: assistenza finanziaria  in cambio di responsabilità e regole. La  solidarietà senza responsabilità si trasforma  invece in assistenzialismo. Una realtà  che la Merkel conosce bene, avendo vissuto  per 35 anni nella Germania dell’Est, figlia  di un pastore protestante dell’Ovest  trasferitosi oltre la Cortina di ferro per amministrare  il culto”. L’economista italiana,  in passato per dieci anni nel Consiglio degli  esperti del ministero dell’Economia, fa  poi un altro esempio: “In Germania il rispetto  degli accordi presi è molto importante,  soprattutto se, come nel caso del memorandum  greco, le condizioni da rispettare  per ricevere il salvataggio sono state sottoscritte  dalle autorità greche e anche dagli  altri 16 membri dell’Eurozona. La cancelliera  vuole soluzioni durature che rappresentino  una base per costruire l’unione  politica. Se la Grecia non rispetta gli accordi,  perché mai dovrebbero rispettarli il  Portogallo, l’Irlanda e in futuro, eventualmente  altri paesi?”. E il vero problema “di  cui si parla poco in Italia” – continua De  Romanis – è che ad oggi la Grecia ha fatto  “ben poco” per attuare il programma, se si  escludono gli aspetti del rigore: “Mancano  la riforma della Pubblica amministrazione,  le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la  vendita degli immobili pubblici – in Grecia  non c’è un catasto nonostante l’Unione europea  abbia offerto il proprio aiuto per costruirne  uno – e una vera lotta all’evasione.  Tutte misure che, se attuate, permetterebbero  una redistribuzione più equa dei costi  del rigore per la popolazione greca, dal momento  che esistono ancora molte sacche di  privilegi che non sono state toccate”. I ragionamenti  su una politica economica che  poggia su fondamenta morali valgono per  buona parte della classe dirigente tedesca,  non soltanto per l’attuale governo in carica  a Berlino, conclude Schäfer, anche se  nel caso della Merkel c’è un terzo fattore  che influenza le sue scelte: “E’ il pensiero  sociale di matrice cristiana”, dice il dirigente  della Fondazione. 
Sostiene però Paul Krugman, premio Nobel  per l’Economia, che è proprio quest’invasione  di campo della morale a complicare  oggi le cose in Europa: “Il problema di  come affrontare le crisi viene formulato  spesso in termini morali: ‘Quei paesi sono  in difficoltà perché hanno peccato, e si devono  riscattare attraverso la sofferenza’ –  scrive l’editorialista del New York Times  nel suo ultimo libro “Fuori da questa crisi,  adesso!” (Garzanti) – Un modo insensato  di affrontare le difficoltà concrete dell’Europa”.  Krugman accusa Merkel di fare  del “moralismo” quando insiste con le sue  politiche di austerity fiscale a danno della  ripresa economica. Una risposta (indiretta)  all’economista neokeynesiano e ai molti  che la pensano come lui viene dal minuto  ma autorevole “partito” dei merkeliani in  Italia: lasciamo pure da parte morale e moralismo  – è il loro ragionamento – il punto  è che l’approccio di Berlino è corretto da  un punto di vista politico ed economico. Innanzitutto  per il suo pragmatismo: “La ragione  principale della posizione della  Merkel è che se la Germania cominciasse  a fare quello che le chiedono gli altri, in poco  tempo il differenziale o spread tra i nostri  titoli e i Bund tedeschi si ridurrebbe, è vero, ma solo perché i tassi per la Germania  comincerebbero a salire, segnalando  un maggiore rischio percepito nei confronti  di quel paese, e senza che quelli italiani  o spagnoli scendano”, dice al Foglio Vito Tanzi, per 20 anni direttore a Washington  del Dipartimento affari fiscali del Fondo  monetario internazionale. “Le condizioni  fiscali della Germania non sono così solide  come generalmente si crede – osserva l’autore  di una delle disamine delle finanze  pubbliche internazionali più celebrate negli  Stati Uniti, “Government versus  markets” (Cambridge University Press,  2011) – Il debito pubblico supera l’80 per  cento del pil e l’indebitamento è oltre l’1  per cento del pil. Con le condizioni attuali  la Germania non avrebbe rispettato i termini  del Patto di Maastricht”. Tra l’altro i debiti  pubblici di Grecia, Irlanda, Portogallo,  Spagna, Italia e Francia, messi assieme, sono  pari al 200 per cento del pil tedesco;  nemmeno la prima economia del continente  potrebbe sobbarcarsi il salvataggio di  tutti. Il problema, secondo Tanzi, è di quanti  s’illudono “credendo che ci sia una soluzione  collettiva ai problemi dei singoli paesi.  Le riforme fatte finora sono ancora molto  caute. Questa non era la solita recessione  keynesiana, ma una recessione causata  dall’esplosione di bolle. Si sapeva che  avrebbe richiesto molte più riforme strutturali  vere e più tempo per uscirne”. Tanzi,  che da anni vive negli Stati Uniti, fa un  parallelo con il sistema federale vigente oltreoceano:  “Nell’Unione monetaria americana  il governo centrale non interverrebbe,  e infatti non sta intervenendo, per risolvere  i problemi fiscali della California e  dell’Illinois. La realtà – conclude l’economista  – è che per vari stati membri dell’Eurozona  dare la colpa ai tedeschi, in inglese  si chiama ‘passing the buck’, è politicamente  conveniente perché allontana da loro la  responsabilità”.
“I leader politici di molti paesi Ue, Italia  inclusa – rincara la dose Fabio Scacciavillani,  capoeconomista del Fondo d’investimenti  dell’Oman – amerebbero modificare  il noto slogan pubblicitario e poter dire:  ‘Per tutto il resto c’è Merkelcard’”. Come  dire che a pagare, in fondo, dovrebbero essere  sempre i tedeschi. Alberto Alesina, economista di Harvard ed editorialista del Corriere della Sera, alla Merkel dà “pienamente  ragione”, e così sul numero dell’Espresso  in edicola ha paragonato il tutto a  una cena tra amici: “Prima di ordinare si  accordano che ognuno pagherà il proprio  conto. Alcuni ordinano aragosta e champagne,  altri un’insalata mista e acqua minerale”.  Alla fine del pasto però “i signori dell’aragosta  si accorgono di non avere abbastanza  soldi per pagare. (…) A quel punto  chiedono di dividere il conto tra tutti i commensali,  anche quelli che hanno ordinato  l’insalata. Questi signori stizziti rispondono  picche”. Qualcuno al posto loro se la sentirebbe  di biasimarli? Anche se ci indicassero  (a noi paesi mediterranei) la strada della  cucina, per aiutare i lavapiatti per qualche  tempo?  Berlino dunque resiste a chi le chiede di  intervenire, e non solo per la peculiare cultura  economica descritta da Schäfer o per  il sano pragmatismo liberista lodato da  Tanzi e Alesina: “C’è anche una comprensibile  ritrosia dovuta alla memoria storica  della leadership tedesca – dice Scacciavillani,  un passato in Banca centrale europea  e Fondo monetario internazionale, dopo un  dottorato all’Università di Chicago – una  memoria nient’affatto lontana nel tempo”.  Il riferimento non è alla solita iperinflazione  che avrebbe minato le basi della Repubblica  di Weimar negli anni Venti del secolo  scorso, ma piuttosto a quanto accaduto  nei più vicini anni 90: “Tendiamo a dimenticare  che Wolfgang Schäuble, attuale ministro  delle Finanze di Merkel, negoziò sull’avvio  della moneta unica con Carlo Azeglio Ciampi. Mettiamoci nei suoi panni:  Ciampi gli aveva promesso che entro il 2005  il nostro debito pubblico, decisamente fuori  dal limite stabilito nei parametri di Maastricht,  sarebbe rientrato all’80 per cento in  rapporto al pil, da 120 e passa che era. Il  nostro paese – era il ragionamento concordato  tra Roma e Berlino – sarebbe tra l’altro  stato aiutato dal calo dei tassi d’interesse  sul debito, grazie al fatto che l’area dell’euro  sarebbe stata percepita come un’area  dal rischio omogeneo. Così è stato fino  al 2009-2010. I nostri interessi sono calati  drasticamente e con essi è stato abbattuto  il servizio sul debito”. Quel che non è stato  abbattuto, ovviamente, è stato il debito  stesso: “La leadership tedesca fece un’apertura  di credito nei nostri confronti, peraltro  in violazione delle regole. Ma la fiducia  nella leadership italiana si è rivelata  malriposta. Schäuble, che oggi è una delle  principali controparti diplomatiche del nostro  esecutivo, ricorda benissimo tutto ciò,  ha già sentito tutte queste storie e queste  lamentele sulla necessaria condivisione  dei rischi tra paesi meno virtuosi e paesi  più virtuosi”. E soprattutto ha sotto gli occhi  i risultati fallimentari di quelle promesse  non rispettate. Anche così si spiega  l’apparente paradosso per cui gli strumenti  salva euro ormai sono quasi unanimemente  individuati – Eurobond e politica  monetaria iper espansiva – ma restano inutilizzati:  “Per i tedeschi questi strumenti  potranno essere utilizzati solo quando le  regole per l’unione politica e fiscale saranno  in campo, affiancate da sanzioni automatiche  – dice Scacciavillani – Anzi, da  meccanismi seri di prevenzione che evitino  la rottura delle regole”.
E nel frattempo in Italia? “C’è un abisso  tra la gravità dei problemi e la radicalità  delle misure prese che invece sono soltanto  dei palliativi – dice Scacciavillani – Questo  vale per la riforma del mercato del lavoro,  per le semplificazioni, per le liberalizzazioni,  etc. Ma gli investitori internazionali  hanno capito il gioco di Merkel e insistono,  mantenendo la pressione su di noi”.  Certo non aiuta il fatto che le conferme di  questo meccanismo – ovvero: soltanto l’agitazione  dei mercati fa smuovere alcuni  paesi verso riforme che altrimenti non farebbero  – ci siano eccome: sulla riforma  del mercato del lavoro, ha commentato  Maurizio Ferrera sulla prima pagina del  Corriere della Sera di ieri, “ci voleva  un’importante scadenza Ue (il Consiglio europeo  del 28 e 29 giugno) per convincere  partiti e parti sociali a posare le armi. Ancora  una volta, il ‘vincolo esterno’ ci spinge  a fare quei compiti a casa che altrimenti  non faremmo: esattamente la tesi di Angela  Merkel”.  Ammetteranno però, anche i più merkeliani,  che quest’alleanza Berlino-Lady  Spread rischia di decimare l’Europa e il  progetto ideale che c’è dietro, e il caso greco  è sempre lì a fare da monito. “Vorrei  chiarire una cosa su quanto sta avvenendo  ad Atene – dice Scacciavillani – Qualcuno  veramente crede che il partito di sinistra  estremista Syriza avrebbe potuto rinegoziare  i termini del memorandum con la Troika  (Ue, Bce e Fmi) su risanamento fiscale e  riforme? La realtà è che il governo, nel caso  respingesse le richieste della Troika, resterebbe  senza liquidità. Sarebbe costretto  a emettere cambiali, che nominalmente  varrebbero 1 a 1 con l’euro ma che le banche  non sarebbero obbligate a convertire a  quel prezzo. Le persone che hanno più disperato  bisogno di liquidità – per esempio  perché devono comprare medicinali o altri  beni di prima necessità – sarebbero le prime  a dover convertire queste cambiali, anche  a 0,5-0,3 euro. La gente allora capirà a  che perdita di ricchezza va incontro, si ribellerà,  e qualsiasi governo dovrà tornare  al tavolo delle trattative”. Fino a quando?  “Fino a quando – scherza Scacciavillani –  ci potrebbe essere un finlandese alla guida  dell’Agenzia delle entrate greca, per esempio”.  Non è soltanto una boutade: “In un’unione  fiscale potrebbe succedere. Il direttore  di un’agenzia statale della California  può venire anche da un altro stato. Il federalismo  non è un semplice ‘volemose bene’”. 
Comunque sia le pressioni aumentano, e ora al coro dei critici dell’attuale strategia  anti crisi si è aggiunto Obama, al punto  che il settimanale Zeit in edicola titola  così: “Tutto il mondo vuole i nostri soldi.  Cosa la Germania può permettersi. E cosa  no”. Si legge per esempio in uno dei due  editoriali portanti: “Se Berlino cede e paga,  ai paesi della periferia mancherà l’incentivo  a riformare la propria struttura  economica. Berlino non deve cedere, perché  se cede sarà l’Europa a diventare debole”.  Poi parole tutt’altro che dolci per l’Italia:  “Mario Monti ha già interrotto il percorso  riformatore, durato appena qualche mese. L’Italia ha fatto abbastanza, adesso tocca  ai tedeschi varare gli Eurobond, questo  il suo messaggio”. Ragionamenti simili sono  svolti per il caso della Spagna guidata  dal conservatore Mariano Rajoy e per la  Francia del presidente socialista François  Hollande. C’è forse un senso di accerchiamento a  Berlino? Per De Romanis “la Merkel non è  isolata, come spesso si pensa in Italia. E’ sostenuta  da Finlandia, Austria, Olanda e  Slovacchia. Lo stesso presidente dell’Eurogruppo,  Jean-Claude Junker, ha ribadito  che il memorandum greco non deve essere  modificato nella sostanza”. La cancelliera  non è isolata neanche all’interno del suo  paese: “All’indomani del voto greco, il leader  dei socialisti tedeschi, Sigmar Gabriel,  ha dichiarato che gli obiettivi e i contenuti  delle riforme devono restare validi. L’ottanta  per cento dei tedeschi approva la sua  linea rigorista e non vuole che i propri soldi  vengano trasferiti verso chi non rispetta  gli impegni”. Schäfer (Fondazione Konrad  Adenauer, vicina alla Cdu), aggiunge anche  la Polonia – che comunque non è nell’euro  – tra i paesi più in sintonia con la Germania,  poi ipotizza uno scenario di deflagrazione  della moneta unica, ma non nel senso  comunemente descritto dai giornali italiani:  “Si è molto discusso del rischio che la  Grecia o altri possano uscire dall’euro. Ma  se gli stati più intransigenti sulla responsabilità  fiscale si vedessero costretti a un  bailout dei conti pubblici altrui, la moneta  pubblica si potrebbe rompere anche nell’altro  senso”. Ovvero con l’abbandono dei  cosiddetti “virtuosi”. 
I fatti però hanno la testa dura, e al momento, a quattro anni dall’inizio della crisi, l’Europa rischia un ulteriore avvitamento  tra crescita debole e conti fuori controllo.  Anche per questa obiezione il Merkel-pensiero  ha una risposta. In Germania, per  esempio, si ricorda che la stessa locomotiva  d’Europa, fino a qualche anno fa, era “la  malata d’Europa”, tra crescita stagnante e  disoccupazione elevata. Seguì un periodo  di riforme strutturali dolorose, e oggi l’economia  è tornata a correre. Idem in Europa,  secondo De Romanis: “I mercati alla fine  premiano chi si comporta bene. Basta guardare  ai casi dell’Irlanda e del Portogallo.  Due paesi che hanno avuto l’aiuto finanziario  da parte di Fmi, Bce e Ue, hanno fatto  le riforme, hanno retto all’aggiustamento e oggi vedono i risultati. Lo spread dell’Irlanda  e del Portogallo è sceso su livelli prossimi  alla Spagna”. Abbastanza per concludere,  insomma, che in Europa perfino le  “colpe” della situazione nella quale ci troviamo  oggi andrebbero quantomeno “mutualizzate”. Un po’ alla Germania, un po’ a  tutti gli altri.

Perché rimettere in discussione l’euro non deve essere un tabù. Lo consigliano i numeri, di Giuseppe Di Taranto


Qualche idea in attesa del vertice dei ministri dell'Economia e delle Finanze di questa sera

Ci sarà il viceministro dell'Economia e delle Finanze, Vittorio Grilli, a rappresentare l'Italia al vertice a quattro previsto a Parigi per questa sera. Grilli sarà accompagnato dai suoi omologhi di Francia, Spagna e Germania, Pierre Moscovici, Luis De Guindos e Wolfgang Schaeuble. Il summit, che si svolgerà alla presenza del commissario europeo per gli Affari economici, Olli Rehn, è stato convocato per preparare attivamente il consiglio europeo del 28 e 29 giugno di Bruxelles.
Il dibattito che ha aperto il Foglio del 20 giugno sull’euro o, se si preferisce, sull’eventuale ritorno alla lira, merita alcune considerazioni, pur senza entrare nei suoi risvolti politici.
Il trattato di Maastricht, che prevedeva la successiva adesione alla moneta unica, era figlio del Rapporto Delors (1989) e di una sua riproposizione elaborata dalla Direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, “One market One money” (1990), che stimava i futuri vantaggi che l’euro avrebbe comportato. Nonostante la limitazione della sovranità monetaria delle Banche centrali dei singoli stati in materia di fissazione del tasso di sconto e di cambio (poteri entrambi trasferiti alla Bce) e al rispetto di alcuni fondamentali parametri (lotta all’inflazione, rapporto deficit/pil non superiore al 3 per cento e debito/pil non oltre il 60 per cento) si calcolava che la nuova architettura istituzionale e l’allargamento del mercato avrebbero condotto, nel medio periodo, a un incremento del reddito dell’Eurozona del 4,7 per cento, cui andava aggiunto uno 0,7 per cento per la stessa introduzione della moneta unica a causa dell’eliminazione dei costi di transazione e di cambio tra i paesi, una riduzione del livello dei prezzi del 6 per cento e una crescita dell’occupazione non inferiore a 2 milioni di unità. Inoltre, grazie alla maggiore mobilità della manodopera, gli investimenti sarebbero stati indirizzati verso le regioni più povere, dov’è minore il costo del lavoro, avviando processi di convergenza, sia del pil, sia dei tassi di disoccupazione, con le aree più ricche dell’Unione monetaria europea. Ebbene, a partire dall’anno precedente all’introduzione dell’euro come banconota, il 2001, a tutt’oggi, l’eurozona registra un incremento medio del pil di circa la metà rispetto a quello degli stati europei che non hanno adottato la moneta unica e di solo l’1,49 per cento; i disoccupati hanno raggiunto i 21 milioni, dunque un aumento di quasi 2 milioni l’anno; si è accentuato il processo di polarizzazione, cioè di allontanamento, invece che di convergenza, tra le aree a reddito elevato rispetto a quelle povere; si è ridotto, e non di poco, il potere d’acquisto in molti paesi: in Italia di oltre il 30 per cento. 
Il trattato di Maastricht incontrò non poche difficoltà sin dall’atto della sua ratifica da parte dei suoi stessi fautori. Autorevoli esponenti della Bundesbank sottolinearono che l’accordo raggiunto a Maastricht necessitava di una più attenta precisazione dei contenuti, mentre numerosi studiosi, anche francesi, e premi Nobel per l’Economia ne evidenziarono la eccessiva rigidità e ne contestarono l’obiettivo, la creazione della moneta unica, certi che un regime di cambi flessibili avrebbe comportato maggiore crescita e occupazione.

Ma le perplessità nei confronti del trattato non vennero solo da politici ed economisti. In numerosi paesi dove esso fu sottoposto a referendum popolare, i cittadini europei mostrarono, col loro voto, poco entusiasmo verso il progetto europeo. La Norvegia rifiutò di partecipare all’accordo di Maastricht; la Danimarca ottenne deroghe sulla moneta unica, sulla politica sociale e sulla difesa. In Svezia, il trattato fu approvato con il 54 per cento dei voti e in Francia con appena il 51 per cento. Quest’ultimo risultato è particolarmente significativo, sia perché esso è espressione della volontà popolare di una nazione che era stata tra i maggiori sostenitori della moneta unica, sia perché molti anni dopo, nel 2005, all’atto del referendum sulla Costituzione europea, i francesi, al pari degli olandesi, voteranno “no”. Nel 1992, i cittadini europei esprimevano la loro volontà su un progetto e, forse, su una speranza; nel 2005, su una realtà ormai consolidata e che già mostrava non poche criticità, a partire dall’aumento dei prezzi che si era registrato dopo l’introduzione dell’euro, e non solo in Italia, dal superamento del 3 per cento del rapporto deficit/pil imposto dal trattato e non rispettato proprio da Germania e Francia, dalla recessione conseguente ai troppi ed eccessivi vincoli in tema di finanza pubblica e di stabilità decisi a Maastricht.
D’altronde, la elezione di Hollande e il risultato delle elezioni politiche confermano l’opposizione dei francesi – e ormai della maggior parte dei paesi dell’Eurozona – alla linea del rigore, se non coniugata con la crescita. Alla luce degli obiettivi attesi con l’istituzione dell’Unione monetaria europea rispetto ai risultati conseguiti, è opportuno chiedersi se non sia giunto il tempo per un ripensamento della sua intera architettura giuridico-istituzionale, per evitare che la celebrazione, appunto nel 2012, del primo decennio dell’euro e dei venti anni del trattato di Maastricht si trasformi nella loro commemorazione.

Perché la Merkel non si può permettere di fare la moralista, di Charles Wyplosz


Nel 2010 fu Berlino a violare la clausola “no bailout” per salvare Atene (e le banche tedesche). Ora cambi

La cancelliera Angela Merkel ha fatto sapere che la Germania non può salvare l’euro. Ha ragione. Fin dall’inizio della crisi dell’Eurozona, con l’evidente effetto domino che ne è conseguito, è stato chiaro che il governo tedesco, con il suo forte debito, non avrebbe potuto essere considerato l’ultimo salvatore. Ma mantenere l’euro sarà un’operazione costosa e la Germania dovrà condividerne il peso. La soluzione dovrà combinare una nuova strutturazione del debito e una trasformazione della Banca centrale europea (Bce) trasformata in prestatore di ultima istanza di banche e governi. Ora Angela Merkel deve levare il veto tedesco. Tutti i leader dell’Eurozona, inclusa la Merkel, sono responsabili della spiacevole situazione che si è venuta oggi a creare.
• L’espediente politico del maggio 2010 – ovvero il salvataggio della Grecia con la promessa che sarebbe stato “unico ed eccezionale” – è stato ufficialmente venduto come una necessità per evitare il contagio.
• A due anni di distanza, è evidente che si è trattato di un errore politico storico, seppure prevedibile.
La crisi ha inghiottito tre piccole nazioni – Grecia, Irlanda e Portogallo – e ora sta per raggiungere Spagna e Italia. La Francia potrebbe essere la prossima vittima. Il debito pubblico di questi sei paesi ammonta al 200 per cento del pil tedesco. Con il suo proprio debito che è pari all’80 per cento del pil, la Germania non può davvero arrestare lo sfacelo.
Il dibattito pubblico in Germania e altrove è spesso moralistico, accordandosi con i timori degli economisti per il cosiddetto “azzardo morale”.
• I paesi che hanno considerato a lungo il bilancio del governo come un limite puramente teorico ora non possono semplicemente chiedere aiuto.
• Lo stesso discorso vale per le nazioni che hanno permesso alle proprie banche di alimentare una bolla dei prezzi immobiliari e ora socializzano le perdite private che ne risultano.
E’ assodato: le cattive politiche devono avere conseguenze. In questo i moralisti hanno ragione. Ma la questione è più complicata di quel che sembra. Bisogna chiedersi: quali paesi hanno calpestato la disciplina fiscale dell’Eurozona? Quali dovrebbero essere le conseguenze? Quali sono i costi per l’unione monetaria nel suo complesso? Poco prima della crisi finanziaria del 2007-08, pochi paesi dell’Eurozona potevano asserire di essere stati fiscalmente disciplinati. Il grafico qui sotto mostra che potevano affermarlo la Finlandia, la Spagna e l’Irlanda, ma non la Grecia e l’Italia. Gran parte delle nazioni dell’Eurozona – Germania inclusa – si trovavano nella zona grigia. Poi la ruota del destino che guida le crisi che si autoalimentano ha cominciato a girare, lasciandoci con l’impressione che i forti giudizi morali debbano invece essere molto relativizzati.


Lassismo della supervisione bancaria
Com’è risaputo, è stata la scarsa supervisione bancaria a condurre l’Irlanda e la Spagna tra i paesi colpevoli. Ancora una volta, la storia non è finita e presto molte nazioni potranno essere accusate di acquiescenza. In cima alla lista troviamo la Francia e la Germania. Se la Grecia non fosse stata soccorsa, alcune grandi banche francesi e tedesche, già indebolite dalla crisi dei mutui subprime, sarebbero state destinatarie di un costoso salvataggio.
Lo schema di riduzione del debito applicato per la Grecia ha fornito a tali banche un’efficace strategia di uscita ed è stato prorogato a sufficienza affinché potessero disporre di un’ampia parte delle loro partecipazioni iniziali nel debito pubblico greco.

Le lezioni dei casi estremi: Lettonia e Grecia

(…) In termini di conseguenze, la questione si rivela incredibilmente complicata. L’austerity è stata la norma accettata come punizione. I fautori dell’austerity hanno inizialmente cercato di qualificarla come una misura solo moderatamente spiacevole, un “dolore positivo” che sarebbe servito da utile lezione per le generazioni future. Tuttavia, i fatti hanno completamente intaccato tale prospettiva. Il mito delle contrazioni fiscali espansive, note anche come moltiplicatori negativi, si è rivelato un errore disastroso. E i suoi ultimi assertori indicano la Lettonia a dimostrazione del suo funzionamento, ma l’origine di tale valutazione non è chiara. Il debito pubblico lettone è ancora in aumento come percentuale del pil, che ora è inferiore del 15 per cento rispetto ai valori del 2007, prima del piano di stabilizzazione. Certo, nel 2010 la perdita era del 20 per cento, ma questo conferma semplicemente quanto siano positivi i moltiplicatori. La Lettonia ha dovuto inoltre sostenere costi pesantissimi. La disoccupazione è balzata al 20 per cento, e si mantiene tuttora al 16 per cento, mentre l’emigrazione – a quanto pare – è massiccia. (…)
Quella greca è un’esperienza di declino economico senza fine, disoccupazione massiccia e grande disagio sociale. Certo, ai greci viene insegnata una lezione, ma quale? L’opposizione alle riforme economiche è forte ora come lo era prima della crisi, ma la xenofobia e il richiamo dei politici populisti stanno aumentando in misura spettacolare. Il dibattito sui moltiplicatori tende a nascondere le conseguenze politiche dell’austerità nel mezzo di una recessione. In quanto economisti, dobbiamo anche ampliare i nostri confini di osservazione. Se si tiene conto di tali aspetti, le conseguenze della strategia adottata nel 2010 semplicemente non sono giustificabili, anche su un piano morale. Soprattutto perché i soggetti più colpiti dalla punizione non sono quelli che hanno tratto i maggiori benefici dall’indisciplina fiscale precedente alla crisi dell’Eurozona.

Tempo di bilanci (disastrosi)
La strategia adottata nel maggio 2010 dai leader dell’Eurozona non solo ha mancato gli obiettivi che si era prefissata, ossia il ripristino della sostenibilità del debito, la prevenzione del contagio e la riduzione dell’azzardo morale, ma non ha nemmeno prodotto una soluzione in grado di porre fine alla crisi. Serve quindi una svolta di 180 gradi rispetto a quanto deciso più di due anni fa. Sfortunatamente, si tratterà di una misura costosa.
• Diversi paesi non saranno mai in grado di raggiungere una crescita sostenibile sotto il peso dell’attuale debito pubblico.
• Alcuni esempi: la Grecia, il Portogallo e l’Italia.
• La lista potrebbe anche allungarsi e includere l’Irlanda, la Spagna e la Francia.
I governi di questi paesi dovranno ristrutturare il proprio debito, completamente nel caso della Grecia o parzialmente – se l’intervento sarà sufficientemente tempestivo – negli altri casi.
• Quando le banche di questi paesi falliranno (per non avere adeguatamente diversificato il loro portafoglio), anche il loro salvataggio dovrà essere finanziato dall’esterno.
Chi pagherà?
• Le banche straniere, naturalmente, finiranno per ridurre il debito sovrano ristrutturato; a loro volta, potrebbero dover essere salvate dai rispettivi governi.
• Anche i creditori ufficiali subiranno perdite. (…)
Con l’attesa cresce il costo dei salvataggi
Più si aspetterà a intervenire, più il deterioramento economico sarà profondo – maggiori prestiti ai governi e più crediti non performanti nelle banche – e pesanti i costi finali. Un aspetto importante è che l’elenco dei “salvatori” si riduce, mentre si allarga il numero dei “salvati”. Ciò fa sì che gli oneri si concentrino su un numero decrescente di nazioni benestanti. Attendere troppo a lungo implica la possibilità che vengano a mancare nazioni benestanti o l’Eurozona. Probabilmente entrambi.
Perché la Germania e altri contribuenti, prevalentemente dell’area settentrionale, dovrebbero pagare per altri, soprattutto appartenenti alla zona meridionale? Perché i loro governi sono responsabili della disastrosa situazione in cui versiamo.
• L’ottimo trattato di Maastricht prevedeva una clausola di non salvataggio (no bailout) volta a proteggere tutti i contribuenti dell’Eurozona dall’indisciplina fiscale di altri paesi.
• Tale clausola è stata violata una prima volta nel maggio 2010, sotto la leadership di Angela Merkel, quindi di nuovo per soccorrere l’Irlanda, il Portogallo e ora la Spagna.
Si è trattato di un “crimine” in termini di politica economica. A quel tempo sembrava una scelta conveniente, almeno presumendo che non ci sarebbe stato contagio.
Un principio morale di base prevede che i criminali siano considerati responsabili delle conseguenze delle proprie azioni, anche se mancano di intenzionalità. I contribuenti dell’Eurozona sono le vittime dei leader che hanno eletto. Ora devono scegliere tra lo scioglimento dell’Eurozona e il pagamento. Pagare rimane ancora l’alternativa più economica, ma non per molto.