giovedì 21 giugno 2012

Roy, il piccolo trionfo del tecnico con la valigia, di Roberto Perrone

HODGSON CONTRO L'ITALIA

Dopo anni all'estero il c.t. inglese è profeta in patria


 «Nessuno credeva in noi e invece non solo abbiamo passato il turno, ma abbiamo anche vinto il girone». La storia della sua vita. Roy Hodgson da Croydon, 65 anni il 9 agosto, ama i giri larghi e anche se non li amasse, si è adattato. Del resto il viaggio fa parte del suo dna: suo padre era conducente di bus.

Nella notte di Donetsk ai giornalisti italiani che lo hanno avvicinato ha risposto: «Mi dispiace, ma non parlo più italiano». In italiano, ovviamente. In realtà Roy ora fa l'inglese, perché, calcisticamente parlando, è una vita che aspettava di diventarlo.

Da destra, Hodgson con Gerrard, Carroll e Rooney (Ap/Wigglesworth)

Roy Hodgson è una nostra vecchia conoscenza.Andammo a prenderlo a Zurigo il 12 ottobre del 1995, quando Massimo Moratti lo convinse a lasciare la Svizzera. Roy annunciò il suo addio alla Confederazione in tedesco, una delle sue sei lingue (inglese, francese, svedese, spagnolo e italiano, ovviamente). Quel giorno, in una piccola saletta del Waldhaus Dolder, a chi gli ricordava che non fosse mai stato profeta in patria rispose: «Non mi interessa. Mi conoscono in Svezia, in Svizzera, in Germania e soprattutto in Italia, tanto da venirmi a cercare. E poi la cosa importante è che mi abbiano riconosciuto mio padre e mia madre». Una risposta da Roy che ora si gode il suo piccolo trionfo, costruito in un mesetto circa.

Gli inglesi, che quando c'è il football di mezzo, anche se non raccattano nulla dal 1966 hanno sempre lo stesso birignao, ora guardano con occhio attento questo allenatore poliglotta e appassionato con la filosofia calcistica di Arrigo Sacchi (4-4-2 forever) ma l'entusiasmo di Giovanni Trapattoni. Per lui una panchina è come la fonte della giovinezza. Per questo non ha mai fatto lo schifiltoso, saltando dalla Svezia alla Svizzera, dall'Italia all'Inghilterra, dagli Emirati Arabi alla Finlandia, dalla Danimarca al ritorno a casa, dove è diventato profeta in patria dopo i 60 anni, conducendo il Fulham di Al Fayed ai migliori risultati in 130 anni di storia: settimo in Premier e finale di Europa League.

L'uomo che in Svizzera negli anni 90 divenne «celebre come il Cervino» ha anche i suoi detrattori: «È falso, non sa perdere, non accetta le critiche, si considera depositario della verità, il successo gli dà alla testa». Rilievi che posso essere fatti a qualsiasi altro allenatore. Riguardo alla falsità, però, così disse a Moratti quando si dimise, nel 1997: «Lei mi stima troppo e mi vuole troppo bene per licenziarmi, ma so che non è contento, perciò me ne vado io». Ad Appiano si era presentato, come un Mourinho ante litteram, con un discreto bagaglio di parole italiane. Disse «buongiorno» a Paul Ince.

Gli inglesi denunciano un ritorno al passato, allo «stone age long ball football». In pratica il calcio dell'età della pietra, palla lunga e pedalare. Roy fa con quello che ha. E non ha molto: ha perso anche Lampard, Barry e Cahill. Quando può predica pressing e difesa alta, quando non può, s'arrangia. L'ha imparato da noi. Per lui sono gli attaccanti che fanno la differenza e si tiene stretto, anche grassoccio e ansimante, Wayne Rooney. Si adatta, in campo e nella vita dove coltiva interessi a 360 gradi, da Shakespeare all'architettura danese, da Munch ai sigari cubani, (Montecristo: abbiamo inutilmente cercato di convertirlo al Toscano), dai grandi vini rossi al tennis (a cui ha cercato di avviare suo figlio Christopher), dal golf ai libri.

Ancora adesso, ne legge uno fino a pochi istanti prima di scendere in campo. Un curioso del calcio e della vita che ha un solo rimpianto: non essere stato presente al funerale del suo grande amico Giacinto Facchetti.


http://www.corriere.it/sport/euro-2012/notizie/21-giugno-roy-tecnico-valigia-perrone_dda2f96c-bb70-11e1-b706-87dd3eab4821.shtml

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