Dietro la strategia rigorista di Berlino c’è una filosofia morale, poi sano pragmatismo, una dose di liberismo e tanta buona memoria
E se Angela Merkel avesse ragione sulla crisi dell’euro? Se davvero il rigore fiscale tutto-e-subito fosse l’unicaricetta per avere un domani una crescita duratura? E se la cancelliera tedesca non avesse torto a opporsi agli Eurobond e a ogni forma di mutualizzazione del debito con gli altri paesi della moneta unica? Se infine non sbagliasse affatto a rifiutare perfino l’exit strategy più immediata dalla crisi, quella che prevede la discesa in campo della Banca centrale europea a sostegno dei debiti sovrani più a rischio?
Sfogliando i giornali europei (tedeschi esclusi, ovvio), così come quelli anglosassoni, ci si rende conto che è sempre più difficile trovare qualcuno che sia disposto a dire apertamente: “Sì, Merkel ha ragione”. La cancelliera e il suo entourage ne sono consapevoli, ricordano le incoronazioni della stampa americana nel 2006 – quando Merkel, nel 2005 al suo primo mandato alla guida della Germania, fu subito definita da Forbes come “la donna più potente del mondo” – e fanno il confronto con il linciaggio mediatico attuale, ma non si scoraggiano. Anzi. La priorità – secondo ampi settori dell’establishment tedesco – è adesso quella di far capire le proprie ragioni ai concittadini europei. Sulla Klingelhöferstraße di Berlino, nella sede centrale della Konrad Adenauer Stiftung, c’è uno dei punti nevralgici da cui emana questa strategia di “soft power”. Non è un caso se da almeno due anni – ovvero in concomitanza con l’aggravarsi della crisi dell’euro – la potente Fondazione finanziata dal contribuente e affiliata alla Cdu, il partito della Merkel, ha incrementato in maniera sostanziale le risorse dedicate all’approfondimento e alla diffusione delle idee che informano le scelte di politica economica di Berlino. Uno dei programmi più foraggiati – in una Fondazione che solo in Germania organizza 2.500 eventi ogni anno, attirando 145 mila partecipanti, e che opera in 120 paesi in tutto il mondo – è oggi quello sulla “Soziale Marktwirtschaft”, l’economia sociale di mercato. Presto anche l’ufficio romano della Fondazione Adenauer si unirà all’offensiva (culturale), diffondendo un manifesto – che sarà chiosato da autorevoli economisti e pensatori italiani – sull’economia sociale di mercato. La prima citazione del manifesto, da promuovere nelle intenzioni della Fondazione con pubblicazioni e convegni, è di Ludwig Erhard, economista, politico e cancelliere dal 1963 al 1966: “Qualsiasi tentativo di creare un ipotetico benessere con spirito caritatevole, spendendo più denaro di quanto disponibile tramite le entrate del fisco, violerebbe principi buoni e assodati”. Poi ce n’è un’altra di Walter Eucken, economista tedesco e padre dell’ordoliberalismo, che suona così: “Ogni sforzo per rendere un sistema competitivo è vano a meno che non sia garantita una certa stabilità monetaria. Di conseguenza, c’è un primato della politica monetaria in ogni sistema competitivo”.
Altro che stimolo fiscale, altro che stampare moneta. Sono sufficienti due citazioni, tra le tante, ed entrambe le leve della politica economica sono sistemate. Ma questo manifesto serve soprattutto per ricordare che, come Mario Monti racconta di aver spiegato al presidente americano Barack Obama, “bisogna tener presente che per i tedeschi l’economia è ancora un ramo della filosofia morale. La crescita non è il risultato della domanda aggregata keynesiana, è il premio a comportamenti virtuosi”. E’ questo “gap culturale” – si sostiene in ambienti della Cdu – una delle ragioni per cui è difficile trovare chi oggi nei paesi mediterranei dia ragione a Merkel. “La riflessione economica in Germania ha il suo punto di partenza nella libertà dell’individuo, ma anche nella sua responsabilità”, dice al FoglioMatthias Schäfer, a capo del Dipartimento per l’economia politica della Fondazione Konrad Adenauer a Berlino: “I risultati delle nostre decisioni hanno sempre un impatto, che può anche essere negativo, e di questo impatto dobbiamo tenere conto nel ricalibrare le stesse azioni”. Si prendano i paesi europei che oggi devono fronteggiare le conseguenze dell’eccessivo debito (privato o pubblico, o tutti e due) accumulato negli anni passati: è ovvio, ancor più secondo i canoni dell’economia sociale di mercato, che la crescita futura sarà “sostenibile” da un punto di vista ambientale e fiscale soltanto se non lascerà in eredità ulteriori dedi Marco Valerio Lo Prete biti da pagare alle prossime generazioni. Dietro il binomio economia-morale c’è poi una seconda riflessione: “In Germania è molto forte la cultura dello stato di diritto, delle regole. Tutte le parti contraenti di un accordo devono stare ai patti, rispettare gli obblighi assunti”, dice Schäfer facendo l’esempio degli impegni presi dagli stati europei a Maastricht e poi con il Fiscal compact sempre sui conti pubblici.
Parla di “solidarietà a doppio senso”, un’espressione decisamente teutonica che al Foglio è spiegata così da Veronica De Romanis, autrice nel 2009 del libro “Metodo Merkel” (Marsilio): “Il concetto di solidarietà tedesco è diverso da quello usato nei paesi latini, è una strada a doppio senso: assistenza finanziaria in cambio di responsabilità e regole. La solidarietà senza responsabilità si trasforma invece in assistenzialismo. Una realtà che la Merkel conosce bene, avendo vissuto per 35 anni nella Germania dell’Est, figlia di un pastore protestante dell’Ovest trasferitosi oltre la Cortina di ferro per amministrare il culto”. L’economista italiana, in passato per dieci anni nel Consiglio degli esperti del ministero dell’Economia, fa poi un altro esempio: “In Germania il rispetto degli accordi presi è molto importante, soprattutto se, come nel caso del memorandum greco, le condizioni da rispettare per ricevere il salvataggio sono state sottoscritte dalle autorità greche e anche dagli altri 16 membri dell’Eurozona. La cancelliera vuole soluzioni durature che rappresentino una base per costruire l’unione politica. Se la Grecia non rispetta gli accordi, perché mai dovrebbero rispettarli il Portogallo, l’Irlanda e in futuro, eventualmente altri paesi?”. E il vero problema “di cui si parla poco in Italia” – continua De Romanis – è che ad oggi la Grecia ha fatto “ben poco” per attuare il programma, se si escludono gli aspetti del rigore: “Mancano la riforma della Pubblica amministrazione, le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la vendita degli immobili pubblici – in Grecia non c’è un catasto nonostante l’Unione europea abbia offerto il proprio aiuto per costruirne uno – e una vera lotta all’evasione. Tutte misure che, se attuate, permetterebbero una redistribuzione più equa dei costi del rigore per la popolazione greca, dal momento che esistono ancora molte sacche di privilegi che non sono state toccate”. I ragionamenti su una politica economica che poggia su fondamenta morali valgono per buona parte della classe dirigente tedesca, non soltanto per l’attuale governo in carica a Berlino, conclude Schäfer, anche se nel caso della Merkel c’è un terzo fattore che influenza le sue scelte: “E’ il pensiero sociale di matrice cristiana”, dice il dirigente della Fondazione.
Sostiene però Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, che è proprio quest’invasione di campo della morale a complicare oggi le cose in Europa: “Il problema di come affrontare le crisi viene formulato spesso in termini morali: ‘Quei paesi sono in difficoltà perché hanno peccato, e si devono riscattare attraverso la sofferenza’ – scrive l’editorialista del New York Times nel suo ultimo libro “Fuori da questa crisi, adesso!” (Garzanti) – Un modo insensato di affrontare le difficoltà concrete dell’Europa”. Krugman accusa Merkel di fare del “moralismo” quando insiste con le sue politiche di austerity fiscale a danno della ripresa economica. Una risposta (indiretta) all’economista neokeynesiano e ai molti che la pensano come lui viene dal minuto ma autorevole “partito” dei merkeliani in Italia: lasciamo pure da parte morale e moralismo – è il loro ragionamento – il punto è che l’approccio di Berlino è corretto da un punto di vista politico ed economico. Innanzitutto per il suo pragmatismo: “La ragione principale della posizione della Merkel è che se la Germania cominciasse a fare quello che le chiedono gli altri, in poco tempo il differenziale o spread tra i nostri titoli e i Bund tedeschi si ridurrebbe, è vero, ma solo perché i tassi per la Germania comincerebbero a salire, segnalando un maggiore rischio percepito nei confronti di quel paese, e senza che quelli italiani o spagnoli scendano”, dice al Foglio Vito Tanzi, per 20 anni direttore a Washington del Dipartimento affari fiscali del Fondo monetario internazionale. “Le condizioni fiscali della Germania non sono così solide come generalmente si crede – osserva l’autore di una delle disamine delle finanze pubbliche internazionali più celebrate negli Stati Uniti, “Government versus markets” (Cambridge University Press, 2011) – Il debito pubblico supera l’80 per cento del pil e l’indebitamento è oltre l’1 per cento del pil. Con le condizioni attuali la Germania non avrebbe rispettato i termini del Patto di Maastricht”. Tra l’altro i debiti pubblici di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Francia, messi assieme, sono pari al 200 per cento del pil tedesco; nemmeno la prima economia del continente potrebbe sobbarcarsi il salvataggio di tutti. Il problema, secondo Tanzi, è di quanti s’illudono “credendo che ci sia una soluzione collettiva ai problemi dei singoli paesi. Le riforme fatte finora sono ancora molto caute. Questa non era la solita recessione keynesiana, ma una recessione causata dall’esplosione di bolle. Si sapeva che avrebbe richiesto molte più riforme strutturali vere e più tempo per uscirne”. Tanzi, che da anni vive negli Stati Uniti, fa un parallelo con il sistema federale vigente oltreoceano: “Nell’Unione monetaria americana il governo centrale non interverrebbe, e infatti non sta intervenendo, per risolvere i problemi fiscali della California e dell’Illinois. La realtà – conclude l’economista – è che per vari stati membri dell’Eurozona dare la colpa ai tedeschi, in inglese si chiama ‘passing the buck’, è politicamente conveniente perché allontana da loro la responsabilità”.
“I leader politici di molti paesi Ue, Italia inclusa – rincara la dose Fabio Scacciavillani, capoeconomista del Fondo d’investimenti dell’Oman – amerebbero modificare il noto slogan pubblicitario e poter dire: ‘Per tutto il resto c’è Merkelcard’”. Come dire che a pagare, in fondo, dovrebbero essere sempre i tedeschi. Alberto Alesina, economista di Harvard ed editorialista del Corriere della Sera, alla Merkel dà “pienamente ragione”, e così sul numero dell’Espresso in edicola ha paragonato il tutto a una cena tra amici: “Prima di ordinare si accordano che ognuno pagherà il proprio conto. Alcuni ordinano aragosta e champagne, altri un’insalata mista e acqua minerale”. Alla fine del pasto però “i signori dell’aragosta si accorgono di non avere abbastanza soldi per pagare. (…) A quel punto chiedono di dividere il conto tra tutti i commensali, anche quelli che hanno ordinato l’insalata. Questi signori stizziti rispondono picche”. Qualcuno al posto loro se la sentirebbe di biasimarli? Anche se ci indicassero (a noi paesi mediterranei) la strada della cucina, per aiutare i lavapiatti per qualche tempo? Berlino dunque resiste a chi le chiede di intervenire, e non solo per la peculiare cultura economica descritta da Schäfer o per il sano pragmatismo liberista lodato da Tanzi e Alesina: “C’è anche una comprensibile ritrosia dovuta alla memoria storica della leadership tedesca – dice Scacciavillani, un passato in Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, dopo un dottorato all’Università di Chicago – una memoria nient’affatto lontana nel tempo”. Il riferimento non è alla solita iperinflazione che avrebbe minato le basi della Repubblica di Weimar negli anni Venti del secolo scorso, ma piuttosto a quanto accaduto nei più vicini anni 90: “Tendiamo a dimenticare che Wolfgang Schäuble, attuale ministro delle Finanze di Merkel, negoziò sull’avvio della moneta unica con Carlo Azeglio Ciampi. Mettiamoci nei suoi panni: Ciampi gli aveva promesso che entro il 2005 il nostro debito pubblico, decisamente fuori dal limite stabilito nei parametri di Maastricht, sarebbe rientrato all’80 per cento in rapporto al pil, da 120 e passa che era. Il nostro paese – era il ragionamento concordato tra Roma e Berlino – sarebbe tra l’altro stato aiutato dal calo dei tassi d’interesse sul debito, grazie al fatto che l’area dell’euro sarebbe stata percepita come un’area dal rischio omogeneo. Così è stato fino al 2009-2010. I nostri interessi sono calati drasticamente e con essi è stato abbattuto il servizio sul debito”. Quel che non è stato abbattuto, ovviamente, è stato il debito stesso: “La leadership tedesca fece un’apertura di credito nei nostri confronti, peraltro in violazione delle regole. Ma la fiducia nella leadership italiana si è rivelata malriposta. Schäuble, che oggi è una delle principali controparti diplomatiche del nostro esecutivo, ricorda benissimo tutto ciò, ha già sentito tutte queste storie e queste lamentele sulla necessaria condivisione dei rischi tra paesi meno virtuosi e paesi più virtuosi”. E soprattutto ha sotto gli occhi i risultati fallimentari di quelle promesse non rispettate. Anche così si spiega l’apparente paradosso per cui gli strumenti salva euro ormai sono quasi unanimemente individuati – Eurobond e politica monetaria iper espansiva – ma restano inutilizzati: “Per i tedeschi questi strumenti potranno essere utilizzati solo quando le regole per l’unione politica e fiscale saranno in campo, affiancate da sanzioni automatiche – dice Scacciavillani – Anzi, da meccanismi seri di prevenzione che evitino la rottura delle regole”.
E nel frattempo in Italia? “C’è un abisso tra la gravità dei problemi e la radicalità delle misure prese che invece sono soltanto dei palliativi – dice Scacciavillani – Questo vale per la riforma del mercato del lavoro, per le semplificazioni, per le liberalizzazioni, etc. Ma gli investitori internazionali hanno capito il gioco di Merkel e insistono, mantenendo la pressione su di noi”. Certo non aiuta il fatto che le conferme di questo meccanismo – ovvero: soltanto l’agitazione dei mercati fa smuovere alcuni paesi verso riforme che altrimenti non farebbero – ci siano eccome: sulla riforma del mercato del lavoro, ha commentato Maurizio Ferrera sulla prima pagina del Corriere della Sera di ieri, “ci voleva un’importante scadenza Ue (il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno) per convincere partiti e parti sociali a posare le armi. Ancora una volta, il ‘vincolo esterno’ ci spinge a fare quei compiti a casa che altrimenti non faremmo: esattamente la tesi di Angela Merkel”. Ammetteranno però, anche i più merkeliani, che quest’alleanza Berlino-Lady Spread rischia di decimare l’Europa e il progetto ideale che c’è dietro, e il caso greco è sempre lì a fare da monito. “Vorrei chiarire una cosa su quanto sta avvenendo ad Atene – dice Scacciavillani – Qualcuno veramente crede che il partito di sinistra estremista Syriza avrebbe potuto rinegoziare i termini del memorandum con la Troika (Ue, Bce e Fmi) su risanamento fiscale e riforme? La realtà è che il governo, nel caso respingesse le richieste della Troika, resterebbe senza liquidità. Sarebbe costretto a emettere cambiali, che nominalmente varrebbero 1 a 1 con l’euro ma che le banche non sarebbero obbligate a convertire a quel prezzo. Le persone che hanno più disperato bisogno di liquidità – per esempio perché devono comprare medicinali o altri beni di prima necessità – sarebbero le prime a dover convertire queste cambiali, anche a 0,5-0,3 euro. La gente allora capirà a che perdita di ricchezza va incontro, si ribellerà, e qualsiasi governo dovrà tornare al tavolo delle trattative”. Fino a quando? “Fino a quando – scherza Scacciavillani – ci potrebbe essere un finlandese alla guida dell’Agenzia delle entrate greca, per esempio”. Non è soltanto una boutade: “In un’unione fiscale potrebbe succedere. Il direttore di un’agenzia statale della California può venire anche da un altro stato. Il federalismo non è un semplice ‘volemose bene’”.
Comunque sia le pressioni aumentano, e ora al coro dei critici dell’attuale strategia anti crisi si è aggiunto Obama, al punto che il settimanale Zeit in edicola titola così: “Tutto il mondo vuole i nostri soldi. Cosa la Germania può permettersi. E cosa no”. Si legge per esempio in uno dei due editoriali portanti: “Se Berlino cede e paga, ai paesi della periferia mancherà l’incentivo a riformare la propria struttura economica. Berlino non deve cedere, perché se cede sarà l’Europa a diventare debole”. Poi parole tutt’altro che dolci per l’Italia: “Mario Monti ha già interrotto il percorso riformatore, durato appena qualche mese. L’Italia ha fatto abbastanza, adesso tocca ai tedeschi varare gli Eurobond, questo il suo messaggio”. Ragionamenti simili sono svolti per il caso della Spagna guidata dal conservatore Mariano Rajoy e per la Francia del presidente socialista François Hollande. C’è forse un senso di accerchiamento a Berlino? Per De Romanis “la Merkel non è isolata, come spesso si pensa in Italia. E’ sostenuta da Finlandia, Austria, Olanda e Slovacchia. Lo stesso presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Junker, ha ribadito che il memorandum greco non deve essere modificato nella sostanza”. La cancelliera non è isolata neanche all’interno del suo paese: “All’indomani del voto greco, il leader dei socialisti tedeschi, Sigmar Gabriel, ha dichiarato che gli obiettivi e i contenuti delle riforme devono restare validi. L’ottanta per cento dei tedeschi approva la sua linea rigorista e non vuole che i propri soldi vengano trasferiti verso chi non rispetta gli impegni”. Schäfer (Fondazione Konrad Adenauer, vicina alla Cdu), aggiunge anche la Polonia – che comunque non è nell’euro – tra i paesi più in sintonia con la Germania, poi ipotizza uno scenario di deflagrazione della moneta unica, ma non nel senso comunemente descritto dai giornali italiani: “Si è molto discusso del rischio che la Grecia o altri possano uscire dall’euro. Ma se gli stati più intransigenti sulla responsabilità fiscale si vedessero costretti a un bailout dei conti pubblici altrui, la moneta pubblica si potrebbe rompere anche nell’altro senso”. Ovvero con l’abbandono dei cosiddetti “virtuosi”.
I fatti però hanno la testa dura, e al momento, a quattro anni dall’inizio della crisi, l’Europa rischia un ulteriore avvitamento tra crescita debole e conti fuori controllo. Anche per questa obiezione il Merkel-pensiero ha una risposta. In Germania, per esempio, si ricorda che la stessa locomotiva d’Europa, fino a qualche anno fa, era “la malata d’Europa”, tra crescita stagnante e disoccupazione elevata. Seguì un periodo di riforme strutturali dolorose, e oggi l’economia è tornata a correre. Idem in Europa, secondo De Romanis: “I mercati alla fine premiano chi si comporta bene. Basta guardare ai casi dell’Irlanda e del Portogallo. Due paesi che hanno avuto l’aiuto finanziario da parte di Fmi, Bce e Ue, hanno fatto le riforme, hanno retto all’aggiustamento e oggi vedono i risultati. Lo spread dell’Irlanda e del Portogallo è sceso su livelli prossimi alla Spagna”. Abbastanza per concludere, insomma, che in Europa perfino le “colpe” della situazione nella quale ci troviamo oggi andrebbero quantomeno “mutualizzate”. Un po’ alla Germania, un po’ a tutti gli altri.
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