lunedì 11 giugno 2012

Sull’orlo di una guerra che forse non ci sarà. Un’indagine, di Nicoletta Tiliacos


Ma tu da che parte staresti?


Anche gli Autorevoli di mezzo mondo cominciano a domandarsi che cosa accadrebbe agli stati d’Europa (e agli altri) in caso di fallimento dell’euro, immiserimento generalizzato, rivolte, risorgenza di atavismi nazionali.


Lo spettro di uno spettro si aggira per l’Europa. Qualcuno – imprudentemente, se non pazzamente – è stato anche tentato di chiamarlo guerra. Come il ministro delle Finanze polacco, Jacek Rostowski. Il quale, il 16 settembre scorso, ha riportato pubblicamente, di fronte agli esterrefatti parlamentari di Strasburgo, il commento di un suo amico, “capo di una importante banca europea”, sulle conseguenze degli choc politici ed economici che si stavano abbattendo sull’Eurozona. Secondo quell’anonimo banchiere, se fossero continuati (ed eravamo solo all’inizio) avrebbero reso “davvero difficile evitare una guerra in Europa”.


Con certe cose non si scherza e qui non c’è nessuna intenzione di farlo. Ma è come se la tentazione di ricorrere alle metafore belliche, ai richiami a passati periodi funesti della nostra storia, a certe lezioni che non si imparano mai del tutto, fosse ormai diventata irresistibile, e non solo per leggerezza o per un dubbio gusto giornalistico che si pasce di catastrofismo. 
Pochi giorni fa, anche una fonte autorevole come Foreign Policy ha pubblicato un commento non proprio tranquillizzante sull’attuale situazione europea, firmato dall’economista australiano John Quiggin. Il quale ha attinto abbondantemente alla storia dei conflitti del secolo breve – dalla Prima guerra mondiale alla Guerra fredda, dalla crisi dei missili a Cuba alla Guerra del Kippur nel 1973 – per sostenere che esistono automatismi, innescati da scelte che all’inizio sembrano innocue o quasi, ma che invece preparano l’esca alla deflagrazione in caso di crisi; e ha aggiunto che non sempre si può contare sul caso benevolo che impedisce il peggio, se il peggio è nelle possibilità: “In una crisi, tutti tendono a ritenere che spetti a qualcun altro fare qualcosa per evitare il disastro. Nell’attuale crisi economica, l’Europa sembra essere avviata nella stessa direzione. Tutte le parti principali hanno inserito il pilota automatico, e ciascuno sembra aspettarsi che qualcun altro risolva il problema”. In particolare, “la Bce rifiuta di acquistare titoli di stato e rimane ferma sul controllo dell’inflazione. In retrospettiva, la creazione della Bce sembra una ripetizione dei sistemi di mobilitazione militare costruiti prima del 1914”. Quiggin invita dunque tutti a fare la loro parte – invita in particolare la Bce a desistere dalla propria linea – se si vuole salvare il salvabile. E non esita a richiamare il parallelo, per dare il senso del tempo presente, con quel “paio di settimane tra l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, a giugno, e la mobilitazione generale alla fine di luglio, durante il quale un’azione decisa avrebbe potuto prevenire la guerra”.


Guerra, in questo caso, sta per fine dell’euro e per i contrasti – anche striscianti, anche “freddi”, comunque pesantissimi – che potrebbero rendere estranei, al limite dell’inimicizia, paesi che si sognarono fratelli nell’Unione europea. Germania e Francia, per fare i nomi più scontati, ma non solo. Quale dovrebbe essere allora, nel caso di quel malaugurato scenario, la scelta dell’Italia? Se crollasse la casa dell’Eurozona, da chi o con chi cercare asilo e unità d’azione? Lo abbiamo chiesto a una serie di commentatori, storici, intellettuali. Qualcuno è stato al gioco, qualcun altro ha preferito di no. Ecco, comunque, le risposte.
Lo studioso di letteratura dell’est europeo Francesco M. Cataluccio ritiene che “realisticamente, le uniche guerre possibili oggi in Europa sono quelle civili, come paventava nello scorso autunno (anzi, fu una delle pezze d’appoggio della fretta di liquidare Berlusconi) un documento della banca svizzera Ubs sugli scenari italiani in caso di default. La guerra, anche fredda, anche a bassa intensità, anche mascherata da ostilità striscianti, invece no, non è proprio possibile, perché l’interrelazione tra i paesi europei, e non solo, è troppo forte. A livello bancario, Germania e Francia sono una cosa sola, e lo dimostra l’abbassamento del rating di alcune banche tedesche di pochi giorni fa. Nessuno potrebbe farla franca, se le cose andassero a rotoli. Sono ancora convinto che la Merkel non può far fallire la Grecia perché farebbe fallire le banche tedesche, e se sparisce la Spagna sparisce anche la Germania”. Per questo, aggiunge Cataluccio, “non posso rispondere a questa domanda un po’ da Risiko. Ma posso dire che se fossi un greco in questo momento non avrei dubbi e sceglierei la Russia. L’Europa se lo meriterebbe, visto che ha rifiutato un salvataggio che un anno fa avrebbe implicato cinquanta miliardi di spesa e che oggi appare praticamente impossibile. Uno scenario probabile è che, in nome della comune radice ortodossa e dell’interesse ad avere un avamposto fedele nel Mediterraneo, la Russia accorra in aiuto della Grecia. Dove il porto ateniese del Pireo, non dimentichiamolo, ormai è in mani cinesi”.


A questo proposito, un esponente del Partito socialista greco, che preferisce non essere nominato, ci fa notare che “il ruolo dei russi in questi tempi è quello di spingere in segreto – per quanto possano essere segrete questo genere di cose – verso un ritorno alla dracma; dopo aver quasi perso la Siria e dopo aver consolidato la propria influenza su Cipro, a cui hanno dato un ingente prestito, i russi da tempo si concentrano sulla Grecia, e in questo hanno trovato un alleato molto disponibile nelle autorità religiose del Monte Athos. E’ comprensibile la preoccupazione europea per una deriva greca verso la Russia, molto interessata al gioco energetico nel Mediterraneo orientale. Il premier Karamanlis aveva coltivato ottimi rapporti con Putin, poi Papandreou – ‘l’amerikano’ – una volta eletto li aveva ridimensionati. Ma ora Tsipras, il leader della sinistra radicale dato per vincente alle prossime elezioni, ha espresso l’intenzione di rafforzarli nuovamente”.
Refrattario anche solo a immaginare uno scenario di rottura aperta tra nazioni europee, e quindi a maggior ragione all’idea di schierarsi con l’una o con l’altra, è il filosofo ed ex sindaco veneziano Massimo Cacciari, la cui risposta è piuttosto secca, come nel suo stile: “Questo non è tempo né di guerre né di guerre civili. E’ tempo di immane casino, simile a quello che è avvenuto negli anni Settanta. Israele potrebbe bombardare l’Iran, ma le potenze occidentali possono solo combattere guerre economiche”.


Alessandro Campi, studioso di storia del pensiero politico, dice che “anche senza immaginare una rottura drastica e una nuova e aperta rivalità tra nazioni europee, vedo in arrivo tempi molto difficili per la necessità di rivedere standard di vita e modelli di consumo dati per scontati. Nessuno più, in Europa, tanto meno le nuove generazioni, è abituato a scenari di privazione: pochi soldi, poco cibo, pochi vestiti, molte persone sotto lo stesso tetto. Disoccupazione di massa, pauperismo crescente, insorgere di estremismi, altissima conflittualità sociale: non abbiamo più la tenuta emotiva, prima ancora che politica, per fronteggiare tutto questo. Ma da questi scenari alla Weimar, improntati alla crisi e alla frustrazione, non è detto che le democrazie escano distrutte. Certi valori sono stati ben introiettati, e dopo sessant’anni non si torna facilmente indietro. Detto questo, se noi italiani dovessimo scegliere l’alleato di tempi complessi e ricchi di contrasti, non avrei dubbi: mi schiererei con la Germania contro il nostro avversario storico che è stato ed è la Francia, da Machiavelli in poi”.


Lo storico ed ex ambasciatore Sergio Romano è invece preoccupato “per lo stato di salute delle democrazie degli stati nazionali. Per essere eletti bisogna fare promesse e progetti che, una volta al potere, non si possono mantenere, anche perché gli stati esistono ancora sulla carta ma hanno perduto le leve del potere, che sono in mani altrui, e il governo dell’economia non dipende più da loro. Il collasso di un sistema politico può essere quasi più grave di un conflitto aperto tra nazioni, ma continuo a essere ottimista e conosco abbastanza i tedeschi per non sapere che il giorno in cui non potessero più lucrare sul mercato europeo sarebbe un disastro anche per loro. Vediamo infatti che già si stanno spostando su posizioni più europeiste, di grande coerenza. E’ impeccabile dire, come fa ora la Germania, che è disposta a dare di più ma nel quadro di un sacrificio di sovranità da parte di tutti”. Ma se invece dovesse saltare il banco? “Posso immaginare, in questa ipotesi, solo un’ostilità nei fatti e non dichiarata tra nazioni europee, e anche un forte disagio sociale in certi paesi, magari forti turbolenze al loro interno. Tirato a forza in una simulazione alla quale non credo, direi che dovremmo scegliere come alleato la Germania, perché quello è il nostro mercato. Non dimentichiamo che, prima dell’euro, avevamo un’industria del nord est che faceva i bilanci in marchi tedeschi. E poi, facendo ora una riflessione che è più culturale che politica, noi italiani abbiamo sempre dato l’impressione di essere molto più filo francesi di quanto non fossimo in realtà. Ma i nostri partiti li abbiamo fatti sul modello tedesco, i nostri sindacati pure, l’industrializzazione italiana l’ha fatta il capitale tedesco”.


Sul tema degli stati nazionali ridimensionati dalle banche e dai poteri economici sovranazionali, il giornalista Marco D’Eramo dissente da Romano: “ Il gioco del potere non è a somma zero, non è il piatto del poker che tocca solo al vincitore. Le nuove tecnologie del potere aumentano la posta in gioco continuamente. Di fronte a nuovi poteri, gli stati nazionali si riconfigurano e diventano reciprocamente funzionali con quei nuovi soggetti, mentre si accresce il potere di tutti. Per questo la Germania non ha mai ammesso che qualcuno comprasse una vera azienda tedesca, e per questo le nostre multinazionali contano come il due di briscola: perché il nostro stato nazionale è debole”. D’Eramo sottolinea che “le estreme conseguenze, cioè le guerre, non si addicono all’era atomica. Tanto per dire che senza quella variabile, in una situazione primo Novecento, oggi una guerra forse in Europa sarebbe già scoppiata, e non conta il fatto che sarebbe una guerra tra simili. Le guerre non hanno bisogno di incompatibilità ideologiche, le guerre tra simili ci sono sempre state. Torniamo all’Europa di oggi, dove la cosa più ragionevole sarebbe che fosse la Germania a uscire dall’euro e che tutti gli altri paesi – solo quelli latini, messi insieme, fanno il pil del Giappone – stringessero un fronte comune. Ma la Francia è troppo boriosa e troppo piena di vecchie idee di grandeur per abbassarsi a giocare con la Spagna e con l’Italia, per non parlare della Grecia. Mentre la Germania, che soffre perché la Francia ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu e lei no, è sempre troppo sicura di sé. Oggi – prosegue D’Eramo – la Germania ha deciso che gli Stati Uniti hanno esaurito la loro egemonia, li danno per spacciati e puntano sulla Cina come potenza di domani. Non è così, se non altro perché gli americani hanno la valuta di riferimento delle transazioni internazionali, e sono gli unici che possono stampare la moneta che serve (come hanno fatto) senza rischiare l’inflazione. La Germania sta ora usando la debolezza dell’euro per erodere le sovranità nazionali, ma non ci sarà ostilità. I francesi (che secondo l’ex cancelliere tedesco socialdemocratico Helmut Schmidt dovrebbero smetterla di pagare il biglietto di seconda classe e pretendere di viaggiare in prima) faranno magari la voce grossa ma sono rane, non tori, e anche questo impedirà il conflitto. Alla fine dovranno accettare il federalismo alla tedesca, che magari comporterà in prima istanza un sud dell’Europa terzomondizzato. Se Risiko deve essere, comunque, vedo piuttosto la riproposizione di antichi modelli: un’area ‘asburgica’ che si va ricostituendo, i turchi che rilanciano il modello ottomano, Germania, Polonia e Repubblica ceca che si aggregano, la Russia che attrae Grecia e Cipro, oltre ai tradizionali satelliti orientali. Siamo di fronte a una crisi politica di democrazia, non a una crisi economica. Vorrei dire che questo è il capitalismo reale, bellezza, altro che schierarsi con questo o con quello. Bisognerebbe scappare ma non è possibile”.


In un’isola, forse. La filosofa ed ex parlamentare Claudia Mancina risponde senza esitazioni: “Io starei con il Regno Unito, perché l’Inghilterra è l’unico paese che nella storia d’Europa abbia svolto un ruolo positivo, cosa che per motivi evidenti a tutti non si può dire né della Germania né della Francia. Aggiungo però che non ha senso schierarsi senza essere di fronte ai termini reali di uno scontro”. Potrebbe essere nei termini di un approfondimento dei contrasti già noti, per esempio: “Ma nemmeno in quel caso potrei scegliere la Francia contro la Germania o viceversa. Anche se non dimentico che una delle persone che ha detto le cose più condivisibili sulla situazione attuale è l’ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer. Se la Germania fosse rappresentata da quelli come lui, sarebbe senz’altro la mia parte, quella che sceglierei se le circostanze lo imponessero” (in un’intervista al Corriere, il 26 maggio scorso, Fischer ha detto che “sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell'ordine europeo una terza volta”, e ha aggiunto che sono necessari, per scongiurare il peggio, “Unione politica e Unione fiscale dell'Eurogruppo, crescita e riforme strutturali”; con la Germania che accetti, con ovvie garanzie, l’europeizzazione del debito e la Francia che contraccambi con l’assenso a un governo comune e “controllo parlamentare comune della zona euro”).


Anche il giornalista del Corriere della Sera Pierluigi Battista sceglierebbe come alleato europeo la Gran Bretagna. Premette però dovrebbe ancora valere la famosa regola per cui “due nazioni che hanno entrambe ristoranti McDonald’s nei propri confini non potranno mai combattersi. Quello che diceva in altri termini Benjamin Constant, quando sosteneva che il commercio avvicina le nazioni e rende più dolci i loro rapporti”. Ritiene quindi irreale una situazione di ostilità da Guerra fredda tra paesi come la Francia e la Germania: “Dal punto di vista commerciale l’Europa deve competere con veri giganti, e ogni nazione europea presa per se stessa appare minuscola e debole, confrontata ai paesi asiatici e alla stessa America. Non credo che le divergenze in Europa, per quanto gravi, possano portare a vere rotture. Ma se proprio si mettesse male, e fosse necessario scegliere un alleato privilegiato, sceglierei l’Inghilterra, se non altro per aver visto come va a finire in ‘Master and Commander’”.


Il giornalista economico Marco Ferrante è a sua volta convinto che “la polarità più trasparente, più schietta, è ancora quella angloamericana. La questione economica con cui siamo alle prese si accompagna a una questione culturale, e da questo punto di vista mi sento più prossimo al vecchio asse angloamericano. Se l’Europa ripiombasse in una situazione di rivalità aperte e di nazionalismi, per l’Italia mi augurerei semplicemente la possibilità di rimanerne fuori. L’ultimo mezzo secolo ha dimostrato che le culture politicamente più generose sono quella inglese e quella americana. Certamente perseguono i loro interessi, e sarebbe assurdo che non lo facessero, ma lo fanno ragionando in termini inclusivi. Se si dovesse arrivare a situazioni di tensione, alla necessità di schierarsi, mi metterei dalla parte di quei paesi che nel corso della storia recente dell’occidente sono stati capaci di ragionare in termini più globali. Non è un caso che abbiano vinto due guerre mondiali e che abbiano un sistema di valori molto solido”.


La storica Anna Bravo dice di non riuscire nemmeno a immaginare una situazione di conflitto in un’Europa di nuovo spezzettata, ma in quel caso “il mio cuore batterebbe più dalla parte della Francia, che mi sembra sostenga ragioni che sento come simili alle nostre. Mettiamo che la Germania abbia senza dubbio la sua parte di ragione, ma che in nome di quella parte di ragione si arrocchi su posizioni che portino alla rovina intere popolazioni europee. Si può essere rigorosi e inflessibili e mettere in conto i più alti prezzi, come Lenin che diceva che bisogna rompere le uova per fare la frittata. Ma nel frattempo andrebbero almeno salvate le galline, perché poi, senza di loro, non ci sono più né uova e nemmeno frittate. E se in Europa tutti sono nei guai tranne la Germania, significa che c’è qualcosa che non va”.


Il politologo Angelo Panebianco ha scritto lunedì scorso, in un editoriale sul Corriere della Sera dedicato alla distanza tra élite europee e comuni cittadini, che non possiamo più contare, nelle attuali condizioni, sull’impossibilità del ritorno di “una età del disordine, simile a quella che la sconvolse nella prima metà del Ventesimo secolo”, e ha parlato di un ciclo generazionale che porta oggi alla ribalta, necessariamente, coloro che quell’età del disordine non l’hanno nemmeno vissuta come riverbero dai racconti dei genitori. Invitato dal Foglio a immaginare un inverarsi di una nuova “età del disordine” intesa come rivalità aperta tra nazioni europee, e a spiegare quale sarebbe la scelta di campo migliore per l’Italia, Panebianco risponde che “qui non stiamo parlando di freddezza o di schermaglie. Il punto è se cade l’euro o non cade. E se cade significa guerra. Non subito, certo, ma anche dopo la grande crisi del ’29, durata per tutti gli anni Trenta, sono passati dieci anni prima della guerra, e già nel 1933 era arrivato Hitler. Ma preferisco non partecipare al Risiko, spiacente. Credo che dobbiamo salvare l’euro e l’Europa, perché se si sfascia tutto sono guai. La possibilità che questo avvenga purtroppo c’è, perché gli anticorpi sono pochi e perché i mercati stanno aspettando una decisione che è difficilissima da prendere, per mille ragioni. Ma fino ad allora preferisco non pensarci. Se tutto crollasse ci sarebbe un marasma oggi nemmeno possibile da immaginare; figuriamoci come si può capire da quale parte stare, prima ancora di sapere quali sono le parti contendenti. Gli scenari sono fatti per essere smentiti dalla storia, e ci sarà soprattutto da capire quante democrazie resterebbero in piedi, dopo la fine dell’euro. Lo ripeto: sarebbe un evento catastrofico, pazzesco. Può anche aver ragione chi oggi dice che con l’euro ci siamo messi in una trappola, ma ormai ci siamo e dobbiamo salvare, con l’euro, noi stessi”.


Luigi Zingales, economista all’Università di Chicago, ha scritto qualche giorno fa sul Sole 24 Ore: “L’illusione italica che l’aiuto straniero venga senza alcun costo veniva già stigmatizzata da Manzoni nell’‘Adelchi’: ‘E il premio sperato sarebbe a quei forti, sarebbe, o delusi, rivolger le sorti di un volgo straniero por fine al dolor?’. In questa contingenza l’Italia deve trovare una soluzione da sola. Se poi l’aiuto straniero viene, ben venga, ma almeno lo possiamo trattare da un punto di forza e non di debolezza”. Anche a Zingales abbiamo chiesto di immaginare una rottura europea e la necessità, per l’Italia, se non proprio di aspettarsi l’aiuto (a doppio taglio) che gli italiani speravano dai Franchi, di scegliere tra ex alleati. “Bisognerebbe capire prima di tutto come avviene quella rottura. Se la rottura è valutaria, è chiaro che dovremmo stare con l’Europa del sud, con i paesi che non ce la fanno a reggere la Germania. Già due anni fa scrissi che l’euro doveva rompersi su una linea nord-sud, in cui alla Germania tocca la parte avanzata e a noi quella dell’euro di riserva, che magari aspira a diventare quello vero ma ancora non lo è. L’euro a due velocità, insomma. Se la rottura avvenisse su questo piano, la scelta sarebbe obbligata”. Ma se la rottura fosse invece “più ricca di elementi di strategia di governo, con tutti i difetti che pure le riconosco, sceglierei di stare dalla parte della Germania. Angela Merkel ha ragione. Se ci fossero stati gli Eurobond sei mesi fa, nessuno avrebbe fatto riforme, né i greci né gli spagnoli. Il punto fondamentale è che abbiamo un problema di finanza pubblica molto serio e un problema di debito altrettanto serio. Pensare che i nostri guai siano colpa degli altri è una strategia politica fallimentare, questa sì, capace di creare divisioni in Europa. Tutti accusano la Merkel di colpe che sono delle classi politiche dei paesi che ora la attaccano. Conviene a molti dire che la colpa è dei tedeschi, ma non è vero”.


Lo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia, ritiene credibile solo l’ipotesi che avvengano, nell’incalzare della crisi, “forti mutamenti, scossoni, magari cambiamenti di tipo peronista e rivolte contro le élite politiche, finanziarie e amministrative, se non dovesse più funzionare l’Europa”. Ipotesi piuttosto concreta, peraltro, “perché non esiste un demos europeo, non c’è una passione europea e non c’è vincolo di solidarietà. E ora che la solidarietà servirebbe, l’Europa si sfascia. Da che parte starei, in quel caso? Naturalmente dalla parte di chi facesse all’Italia le condizioni migliori, e francamente non so immaginare chi potrebbe essere. Dando per scontata un’accentuazione delle attuali posizioni, non potrei dimenticare che l’adozione dell’euro da parte dell’Italia si è risolta in un notevole vantaggio economico per la Germania. Furono i tedeschi a imporci il cambio a 1.936,27 lire per un euro, che è stato uno dei fattori delle nostre difficoltà nelle esportazioni. Se la Germania perseverasse in posizioni contrarie all’interesse italiano, non ho difficoltà a dire che sarei contro la Germania. Ma non so a favore di chi. Con gli elementi attuali, sarebbe come giocare a Monopoli alla cieca, senza sapere se Parco della Vittoria o Vicolo Stretto hanno lo stesso valore”.


Il critico Alfonso Berardinelli pensa che una rottura europea potrebbe significare soprattutto “grandi derive sociali. E se la guerra fosse ancora di moda per risolvere acute controversie internazionali, si potrebbe temere che ne esploda una o più. Ma ho l’impressione che oggi le guerre vengano usate solo quando lo squilibrio di potenza è enorme, quindi non tra Germania e Inghilterra o tra Germania e Francia. In Europa, la paura, il panico, la depressione per l’attuale crisi economica sono tali da paralizzare l’aggressività, mi pare, più che da scatenarla. L’impressione è che tutto stia già crollando, come se non ci fossero energie per combattere. Le nostre società oscilleranno tra anarchismo attivo (qualche follia terroristica, magari) e anarchismo passivo prevalente, cioè scetticismo, indifferenza civile, rifiuto dello stato e della politica. Stanno venendo al pettine i nodi della globalizzazione. Lo dimostra la prevalenza di una politica dei tecnici, cioè di una politica di adeguazione e omologazione tra le parti della grande macchina. Solo che alla lunga – prosegue Berardinelli – questa nuova minorità e impotenza della politica indebolirà i legami sociali già fiacchi. Prima siamo arrivati a una politica senza idee e senza cultura, di pura competizione elettoralistica. Ora questa politica senza idee su quale società volere è messa fuori gioco dagli automatismi dei mercati finanziari. Non sappiamo nemmeno più che cosa vuol dire la parola economia, è un mostro astratto che nessuno riesce a controllare. Tutto questo ci rende socialmente più rassegnati e più stupidi, perché non capiamo, nemmeno gli economisti lo capiscono, quello che succede”. Se fosse necessario schierarsi, dopo una rottura tra le nazioni dell’Unione, Berardinelli “preferirebbe di no”, come Bartleby lo scrivano di Melville: “Ho sempre avuto dubbi sull’interconnessione e sulla globalizzazione, e sono per la possibilità di fare ognuno a modo suo. Ma se fossi proprio costretto, in questo momento sceglierei la Francia, per la sua vicinanza ai paesi latini più in difficoltà. Non penso che la Germania abbia delle colpe. E’ un paese di assoluta mediocrità, di nessuna iattanza, che però in questo momento non può rappresentare l’Europa, non ne è politicamente in grado. I tedeschi sono modesti, miti, non hanno nessun desiderio di tradurre in termini politici la loro preminenza economica. L’utopia europea era di imparare gli uni dagli altri. Ma di fronte allo squilibrio economico esploso recentemente, la Germania si è rivelata un gigante economico e un nano politico. Della Gran Bretagna non mi fiderei, gli inglesi sono tutti contenti di starsene al sicuro nella loro isola, fuori dai guai dell’euro. La Francia – di Hollande, non era lo stesso con Sarkozy – ci sorride un po’ di più, ci fa sentire di non essere soli in questa crisi. La Francia è l’unica, mi pare, in grado di fare schieramento, di rendere possibile un fronte che metta la Germania con le spalle al muro, che la spinga a uscire dall’egoismo di paese di benestanti. Io mi fiderei dei francesi. Almeno per il momento”.

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