giovedì 28 giugno 2012

Perché rimettere in discussione l’euro non deve essere un tabù. Lo consigliano i numeri, di Giuseppe Di Taranto


Qualche idea in attesa del vertice dei ministri dell'Economia e delle Finanze di questa sera

Ci sarà il viceministro dell'Economia e delle Finanze, Vittorio Grilli, a rappresentare l'Italia al vertice a quattro previsto a Parigi per questa sera. Grilli sarà accompagnato dai suoi omologhi di Francia, Spagna e Germania, Pierre Moscovici, Luis De Guindos e Wolfgang Schaeuble. Il summit, che si svolgerà alla presenza del commissario europeo per gli Affari economici, Olli Rehn, è stato convocato per preparare attivamente il consiglio europeo del 28 e 29 giugno di Bruxelles.
Il dibattito che ha aperto il Foglio del 20 giugno sull’euro o, se si preferisce, sull’eventuale ritorno alla lira, merita alcune considerazioni, pur senza entrare nei suoi risvolti politici.
Il trattato di Maastricht, che prevedeva la successiva adesione alla moneta unica, era figlio del Rapporto Delors (1989) e di una sua riproposizione elaborata dalla Direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, “One market One money” (1990), che stimava i futuri vantaggi che l’euro avrebbe comportato. Nonostante la limitazione della sovranità monetaria delle Banche centrali dei singoli stati in materia di fissazione del tasso di sconto e di cambio (poteri entrambi trasferiti alla Bce) e al rispetto di alcuni fondamentali parametri (lotta all’inflazione, rapporto deficit/pil non superiore al 3 per cento e debito/pil non oltre il 60 per cento) si calcolava che la nuova architettura istituzionale e l’allargamento del mercato avrebbero condotto, nel medio periodo, a un incremento del reddito dell’Eurozona del 4,7 per cento, cui andava aggiunto uno 0,7 per cento per la stessa introduzione della moneta unica a causa dell’eliminazione dei costi di transazione e di cambio tra i paesi, una riduzione del livello dei prezzi del 6 per cento e una crescita dell’occupazione non inferiore a 2 milioni di unità. Inoltre, grazie alla maggiore mobilità della manodopera, gli investimenti sarebbero stati indirizzati verso le regioni più povere, dov’è minore il costo del lavoro, avviando processi di convergenza, sia del pil, sia dei tassi di disoccupazione, con le aree più ricche dell’Unione monetaria europea. Ebbene, a partire dall’anno precedente all’introduzione dell’euro come banconota, il 2001, a tutt’oggi, l’eurozona registra un incremento medio del pil di circa la metà rispetto a quello degli stati europei che non hanno adottato la moneta unica e di solo l’1,49 per cento; i disoccupati hanno raggiunto i 21 milioni, dunque un aumento di quasi 2 milioni l’anno; si è accentuato il processo di polarizzazione, cioè di allontanamento, invece che di convergenza, tra le aree a reddito elevato rispetto a quelle povere; si è ridotto, e non di poco, il potere d’acquisto in molti paesi: in Italia di oltre il 30 per cento. 
Il trattato di Maastricht incontrò non poche difficoltà sin dall’atto della sua ratifica da parte dei suoi stessi fautori. Autorevoli esponenti della Bundesbank sottolinearono che l’accordo raggiunto a Maastricht necessitava di una più attenta precisazione dei contenuti, mentre numerosi studiosi, anche francesi, e premi Nobel per l’Economia ne evidenziarono la eccessiva rigidità e ne contestarono l’obiettivo, la creazione della moneta unica, certi che un regime di cambi flessibili avrebbe comportato maggiore crescita e occupazione.

Ma le perplessità nei confronti del trattato non vennero solo da politici ed economisti. In numerosi paesi dove esso fu sottoposto a referendum popolare, i cittadini europei mostrarono, col loro voto, poco entusiasmo verso il progetto europeo. La Norvegia rifiutò di partecipare all’accordo di Maastricht; la Danimarca ottenne deroghe sulla moneta unica, sulla politica sociale e sulla difesa. In Svezia, il trattato fu approvato con il 54 per cento dei voti e in Francia con appena il 51 per cento. Quest’ultimo risultato è particolarmente significativo, sia perché esso è espressione della volontà popolare di una nazione che era stata tra i maggiori sostenitori della moneta unica, sia perché molti anni dopo, nel 2005, all’atto del referendum sulla Costituzione europea, i francesi, al pari degli olandesi, voteranno “no”. Nel 1992, i cittadini europei esprimevano la loro volontà su un progetto e, forse, su una speranza; nel 2005, su una realtà ormai consolidata e che già mostrava non poche criticità, a partire dall’aumento dei prezzi che si era registrato dopo l’introduzione dell’euro, e non solo in Italia, dal superamento del 3 per cento del rapporto deficit/pil imposto dal trattato e non rispettato proprio da Germania e Francia, dalla recessione conseguente ai troppi ed eccessivi vincoli in tema di finanza pubblica e di stabilità decisi a Maastricht.
D’altronde, la elezione di Hollande e il risultato delle elezioni politiche confermano l’opposizione dei francesi – e ormai della maggior parte dei paesi dell’Eurozona – alla linea del rigore, se non coniugata con la crescita. Alla luce degli obiettivi attesi con l’istituzione dell’Unione monetaria europea rispetto ai risultati conseguiti, è opportuno chiedersi se non sia giunto il tempo per un ripensamento della sua intera architettura giuridico-istituzionale, per evitare che la celebrazione, appunto nel 2012, del primo decennio dell’euro e dei venti anni del trattato di Maastricht si trasformi nella loro commemorazione.

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