martedì 26 giugno 2012

Growsterity, di Luciano Capone


Il perdurare della crisi economica e lo stallo della situazione greca mettono sul banco degli imputati le ricette di austerità. La stessa espressione, austerity, è ambigua. Con austerità si indica genericamente un programma che tende alla riduzione del rapporto tra deficit e Pil e tra debito e pil. Per raggiungere questo obiettivo gli Stati possono fare due scelte: aumentare le entrate o diminuire le uscite. È evidente però che fra l’una cosa e l’altra passa una certa differenza: non è la stessa cosa abolire le province o alzare l’Iva, privatizzare le municipalizzate o introdurre l’Imu, alienare il patrimonio pubblico o tassare con nuove accise. La verità è che in Europa l’austerità è stata imposta più al privato che al pubblico, è stata più sbilanciata sul versante delle entrate che sul lato della spesa (l’Italia è l’esempio più paradigmatico). Il nostro “consolidamento fiscale” è stato del genere “cattivo”, per parafrasare il Presidente della BCE Mario Draghi.
Ci sono però esempi in cui l’austerità ha funzionato come l’Estonia e la Lettonia. I due paesi baltici hanno avuto una rapidissima crescita economica fino al 2008 e poi sono entrati in una grave recessione a causa dello scoppio della bolla immobiliare. Il governo estone ha rifiutato le classiche politiche keynesiane di “stimolo” attraverso la spesa pubblica e dal 2009 ha invece percorso una strada di dure riforme: taglio del 10% degli stipendi del settore pubblico, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione reale della spesa pubblica, semplificazione, liberalizzazione del mercato del lavoro, ha aumentato l’Iva ma non ha toccato la flat tax sui redditi che rimane intorno al 20%. Il paese ha subito un durissimo shock, ma oggi è in avanzo di bilancio, il Pil cresce al 7,6% (crescita più alta in Europa), la disoccupazione è scesa dal 19% all’11% e il debito pubblico è al 6% (non è un errore di battitura, è proprio il sei-per-cento). La Lettonia ha avuto una recessione ancora più forte con un calo del Pil del 24% dal 2007 al 2009, per evitare la bancarotta si è rivolta all’Europa per una piano di salvataggio da 7,5 miliardi. Di questi ne ha usati solo 4,4 e non per finanziare le proprie inefficienze, ma come investimento per le riforme e per aumentare la competitività. Ha chiuso la metà di tutti gli enti gestiti dal governo, ha ridotto di un terzo i dipendenti pubblici e del 25% lo stipendio agli altri, ha leggermente aumentato la pressione fiscale. La disoccupazione che aveva raggiunto il 19% è scesa al 15%, il Pil cresce del 5,5%, il debito pubblico è solo al 37% e, mentre economie più solide pensano di uscire dall’Euro, il paese è pronto ad entrare nella moneta unica a partire dal 2014. Va inoltre sottolineato che il presidente estone Ilves e il premier lettone Dombrovskis sono stati tra i pochissimi leader europei ad essere rieletti in piena crisi.
Naturalmente ci sono molti critici al modello baltico della growsterity (crescita attraverso l’austerità) e tra di essi non poteva mancare Paul Krugman, il guru dei neokeynesiani, che ha dedicato un post feroce alll’Estonia suscitando la dura reazione del presidente Ilves. I critici obiettano che durante gli anni di crisi i paesi baltici hanno subito una fortissima emigrazione, la crescita del Pil non ha ancora compensato la caduta degli anni precedenti, la disoccupazione seppure in calo è ancora alta e non si può prendere come modello un’area così piccola e marginale. Innanzitutto è curioso che molti di quelli che fanno queste osservazioni avevano esaltato l’Islanda, diventata  il modello di chi “noi la crisi non la paghiamo” e “un altro mondo è possibile”: grillini e indignados di casa nostra inneggiavano al default senza rendersi conto che l’Islanda aveva ripudiato il debito delle banche (non quello pubblico) e si era affidata alle amorevoli cure del FMI. Paul Krugman indicava l’Islanda come “il sentiero non intrapreso”, una via fatta di rottura delle regole, spesa pubblica, svalutazione e inflazione, fregarsene degli investitori: secondo il columnist del NyTimes la sofferenza e il dolore non sono inevitabili, sono una scelta degli Austerians (i pro-austerity). Insomma per costoro i paesi baltici non sono un modello indicativo perché abitati solo da 6 milioni di persone, mentre lo è l’Islanda che è un’isola e di anime ne conta 300 mila (venti volte di meno). In secondo luogo è vero che i paesi baltici impiegheranno qualche anno per ritornare al livelli pre-crisi, ma lo faranno prima dei paesi che non hanno fatto riforme e hanno preferito aumentare la spesa e la pressione fiscale.
Un altro punto da sottolineare è il capitolo “solidarietà”, la parola invocata dai greci e dai loro supporters per far allentare l’austerità “imposta” dalla troika. La Grecia per ottenere il finanziamento europeo si era impegnata a tagliare del 20% i dipendenti pubblici: è di ieri la notizia che, dopo il pensionamento di 90 mila statali, il governo ne ha riassunti 70 mila. Per l’ennesima volta la Grecia ha imbrogliato i propri finanziatori. Nonostante ciò si continua a chiedere a chi ha fatto durissimi sacrifici come gli estoni di finanziare i privilegi di chi continua a taroccare i conti. Lo stipendio medio di un estone è il 10% inferiore al “salario minimo” di un greco che tra l’altro può andare in pensione 10 anni prima ed avere una assegno 4 volte maggiore. “In nome della solidarietà – ha dichiarato il presidente estone Ilves – si arriva al punto di chiedere ai più poveri di trarre d’impaccio i più ricchi da politiche che i più poveri non hanno mai pensato di seguire”.
La nostra solidarietà va all’Estonia.

Nessun commento: