Con la crisi volano gli stracci, le élite sono logore e i popoli si riaffacciano minacciosi sulla scena
Le crisi hanno questo di grande e terribile: che scoprono i simulacri, fanno volare gli stracci. In pochi mesi questa ha consumato l’illusione di una moneta unica senza governo, senza politica, senza anima comune. Tutte le élite sembrano di colpo logore e i popoli si riaffacciano sulla scena. Con la loro memoria e passione, con le loro diffidenze e rancori. Torna il pregiudizio culturale e antropologico, quindi l’odio. Tornano i caratteri nazionali che l’economia globale e la pulsione universale al consumo non hanno nemmeno scalfito. Decine di milioni di europei guardano la Germania di oggi con gli occhi di ieri. Irrita il ritorno nel cuore del continente di un paese di ottanta milioni di abitanti, ricco, florido, abituato per storia e cultura a muoversi compatto come una falange, che vuole rieducare, punendoli, spendaccioni e fannulloni. Che non si sa perché sono sempre bassi di statura, scuri di carnagione e forse hanno pure i capelli unti. Figli del sud insomma, che stanno sulla linea dell’olio d’oliva e comunque sotto quella del burro: greci, spagnoli, italiani, portoghesi, un po’ anche i francesi.
Il filosofo Hermann von Keyserling, discendente di una grande famiglia dell’aristocrazia germano-baltica, scrisse tra le due guerre “Das Spektrum Europas”, scandaloso bestseller dedicato ai caratteri nazionali europei e non solo. Quello tedesco lo legge a partire dalla vetrina di Giotto nella cattedrale di Assisi in cui si vede Federico Barbarossa steso al suolo e il Papa che gli mette un piede sul ventre: gli italiani raffigurati nel dipinto guardano la scena con divertimento misto a imbarazzo, i tedeschi con la compostezza di chi vede nella cerimonia la fonte di un diritto. Il popolo per il quale la rappresentazione e l’idea di una cosa è più importante della cosa stessa, che si tratti della ragione di stato, di un profitto o di un testo giuridico, scrive Keyserling, che ignora la passione primitiva e la gioia, concepisce la festa solo dentro una teoria filosofica o organizzata attorno allo spirito di un oggetto. Quanto di più lontano da noi. E siccome non li capiamo, ci fanno anche paura. Il problema è che comandano, sono loro a guardia della porta della salvezza o della dannazione. Con il piglio di sempre. La loro storica pulsione all’espansione e all’aggressione militare, per secoli vulnus del continente, è niente di fronte a questa dittatura senza qualità dell’aritmetica, del diritto, delle clausole a fondo pagina. La Prussia non fa paura: la pulizia etnica in nome del buon lavoro industriale e del deficit zero, a botte di Audi e spread, questo sì.
Non c’è da stupirsi se un numero crescente di europei si guarda in giro e cova spirito di rivolta. Non è stato il popolo greco a truccare i conti, nemmeno i falsi ciechi che zelanti cacciatori di statistiche hanno censito in numero sospetto su un’isola insignificante: è questo il welfare reale nel Mediterraneo dove non c’è la meccanica oliata e algida del sussidio ideale.
I Greci si vedono all’origine della nostra comune civiltà, per soprammercato stanno nella Comunità europea da trentuno anni e che club sarebbe mai quello in cui i soci senior non vengono trattati con un minimo di riguardo? Invece l’incomprensione, la solidarietà pelosa degli altri, la protervia del creditore principe e di chi lo fiancheggia hanno ferito a morte l’orgoglio di un popolo. Che con la memoria scava fino ai giorni della resistenza contro gli occupanti di ieri, che commisero eccidi e crudeltà e quando furono sconfitti non ritennero giusto nemmeno risarcire, pagare i debiti di guerra. Sui giornali frau Merkel è sistematicamente rappresentata con tanto di svastiche e croci uncinate, braccio d’onore del debole al forte. Alle elezioni del 6 maggio, il sentimento nazionale ferito e la rabbia popolare hanno messo le ali alle estreme, a nuovi neo nazisti antitedeschi e alle più tradizionali bandiere rosse dell’estrema sinistra. Chi ha fatto sistema e accettato i piani della troika, i partiti tradizionali e le grandi famiglie che li controllano, è stato severamente sconfitto. Si rivota il 17 giugno, con la speranza di arrivare a formare una maggioranza di governo. Qualche sera fa, nel corso di un dibattito televisivo, uno di Alba radiosa improvvisamente si alza e comincia a distribuire schiaffoni ad avversari e giornalisti, in egual misura a uomini e donne: la nuova democrazia formale nel tempo dell’odio.
In Italia la rivolta è teatro. Tragico quando si suicidano uomini e donne sopraffatte dalla vergogna del fallimento o perché oggetto di attenzioni da parte di Equitalia. Se no è furore comico, meglio comicità furente. Teatralità che come scrive sempre Keyserling è il tratto distintivo di chi è strutturato in modo molecolare per famiglie e luoghi, svela il suo vero volto solo nelle relazioni intime, non sente affatto il bisogno della solitudine interiore perché come i greci forgiato dalla piazza, dal forum. Ma la teatralità è anche nel vis-à-vis terroristico, nel gesto funereo di dare la morte, lo ha graziosamente ricordato tal federazione anarchica virtuale. Che questa Europa piaccia sempre di meno è opinione diffusa che le istituzioni non colgono e comunque non contrastano: né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio saprebbero esattamente cosa dire per infondere fiducia e speranza. Agiscono certo, fanno, o comunque ci provano, ma i fatti non bastano mai a fugare fantasmi e paure inconsce. Se fossimo chiamati a votare se restare nell’euro o tornare alla consolatoria e mai dimenticata lira, voterebbe per la moneta europea poco più del 40 per cento degli italiani, dicono, ma chissà: però dieci anni fa erano tre su quattro, forse di più. Ben scavato vecchia talpa, avrebbe detto quello.
I Greci si vedono all’origine della nostra comune civiltà, per soprammercato stanno nella Comunità europea da trentuno anni e che club sarebbe mai quello in cui i soci senior non vengono trattati con un minimo di riguardo? Invece l’incomprensione, la solidarietà pelosa degli altri, la protervia del creditore principe e di chi lo fiancheggia hanno ferito a morte l’orgoglio di un popolo. Che con la memoria scava fino ai giorni della resistenza contro gli occupanti di ieri, che commisero eccidi e crudeltà e quando furono sconfitti non ritennero giusto nemmeno risarcire, pagare i debiti di guerra. Sui giornali frau Merkel è sistematicamente rappresentata con tanto di svastiche e croci uncinate, braccio d’onore del debole al forte. Alle elezioni del 6 maggio, il sentimento nazionale ferito e la rabbia popolare hanno messo le ali alle estreme, a nuovi neo nazisti antitedeschi e alle più tradizionali bandiere rosse dell’estrema sinistra. Chi ha fatto sistema e accettato i piani della troika, i partiti tradizionali e le grandi famiglie che li controllano, è stato severamente sconfitto. Si rivota il 17 giugno, con la speranza di arrivare a formare una maggioranza di governo. Qualche sera fa, nel corso di un dibattito televisivo, uno di Alba radiosa improvvisamente si alza e comincia a distribuire schiaffoni ad avversari e giornalisti, in egual misura a uomini e donne: la nuova democrazia formale nel tempo dell’odio.
In Italia la rivolta è teatro. Tragico quando si suicidano uomini e donne sopraffatte dalla vergogna del fallimento o perché oggetto di attenzioni da parte di Equitalia. Se no è furore comico, meglio comicità furente. Teatralità che come scrive sempre Keyserling è il tratto distintivo di chi è strutturato in modo molecolare per famiglie e luoghi, svela il suo vero volto solo nelle relazioni intime, non sente affatto il bisogno della solitudine interiore perché come i greci forgiato dalla piazza, dal forum. Ma la teatralità è anche nel vis-à-vis terroristico, nel gesto funereo di dare la morte, lo ha graziosamente ricordato tal federazione anarchica virtuale. Che questa Europa piaccia sempre di meno è opinione diffusa che le istituzioni non colgono e comunque non contrastano: né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio saprebbero esattamente cosa dire per infondere fiducia e speranza. Agiscono certo, fanno, o comunque ci provano, ma i fatti non bastano mai a fugare fantasmi e paure inconsce. Se fossimo chiamati a votare se restare nell’euro o tornare alla consolatoria e mai dimenticata lira, voterebbe per la moneta europea poco più del 40 per cento degli italiani, dicono, ma chissà: però dieci anni fa erano tre su quattro, forse di più. Ben scavato vecchia talpa, avrebbe detto quello.
Anche in Francia, abituata a vedersi come eccezione e a considerare il mondo esterno come giardino eretto alla grandezza delle proprie idee, si sta alzando il vento. Loro il rumore degli stivali della Wehrmacht che battevano sulle pietre dei Campi Elisi non lo hanno mai dimenticato. “Il ne faut plus dire qu’on peut dormir à l’abri de bruits de bottes”, cantava Jean Ferrat. Quelli che vorrebbero rovesciare tavoli, stracciare patti di stabilità, regole d’oro, Fiscal compact, sciogliersi da ogni vincolo per ritrovare intera la sovranità perduta, sono minoranza. Robusta però. E poi quello è un popolo che borbotta spesso. Quando ha avuto paura che arrivasse l’idraulico polacco o il dentista romeno a rubare il pane, ha mandato a picco il progetto di Costituzione europea. Uno dei frondisti del 2005, Laurent Fabius, è oggi il ministro degli Esteri del nuovo presidente. E’ un dettaglio ma fa comunque disordine.
Magari è febbre passeggera. Magari arriverà un demiurgo, ma ce ne vorrà più d’uno, che farà calare tassi e tensione, imponendo uno scaglionamento ragionevole e sopportabile del debito degli stati e dei cittadini. I popoli torneranno allora a fidarsi della politica e si accontenteranno di stare a guardare.
In fondo l’Unione ha ancora un certo appeal. Nuovi popoli vogliono andare là dove vanno tutti perché sperano in vantaggi conseguenti. “Kamo svi tamo i mi”, lo dicono i croati che fra un anno entreranno a pieno titolo nel club, tessera numero 28. Il paese incupito dove appena si balla in agosto e per lo più dalle parti di Dubrovnik, i cui giovani figli sognano di andarsene il più lontano possibile, in Australia o in Nuova Zelanda, ci crede. E’ convinto che sia il passo giusto da compiere. Perché altri lo hanno fatto e altri ancora sono in lista d’attesa. A nessuno fa piacere restare solo. Hanno accettato salassi e sacrifici pur di restare dentro parametri che non sono mai uguali per tutti, fluttuano secondo circostanze e interessi strategici che sfuggono alla comprensione dei popoli. Ma se il ritorno non c’è, se i sacrifici già affrontati e quelli che ci dicono che dobbiamo fare ancora per due anni, forse tre, forse quattro, si riveleranno completamente inutili e non porteranno da nessuna parte?
Magari è febbre passeggera. Magari arriverà un demiurgo, ma ce ne vorrà più d’uno, che farà calare tassi e tensione, imponendo uno scaglionamento ragionevole e sopportabile del debito degli stati e dei cittadini. I popoli torneranno allora a fidarsi della politica e si accontenteranno di stare a guardare.
In fondo l’Unione ha ancora un certo appeal. Nuovi popoli vogliono andare là dove vanno tutti perché sperano in vantaggi conseguenti. “Kamo svi tamo i mi”, lo dicono i croati che fra un anno entreranno a pieno titolo nel club, tessera numero 28. Il paese incupito dove appena si balla in agosto e per lo più dalle parti di Dubrovnik, i cui giovani figli sognano di andarsene il più lontano possibile, in Australia o in Nuova Zelanda, ci crede. E’ convinto che sia il passo giusto da compiere. Perché altri lo hanno fatto e altri ancora sono in lista d’attesa. A nessuno fa piacere restare solo. Hanno accettato salassi e sacrifici pur di restare dentro parametri che non sono mai uguali per tutti, fluttuano secondo circostanze e interessi strategici che sfuggono alla comprensione dei popoli. Ma se il ritorno non c’è, se i sacrifici già affrontati e quelli che ci dicono che dobbiamo fare ancora per due anni, forse tre, forse quattro, si riveleranno completamente inutili e non porteranno da nessuna parte?
La filosofia profonda dell’Unione, il principio ispiratore è che la meta non conta, conta solo il movimento. E’ l’Europa al ribasso: la meta è questione che attiene alla politica, alla grandi scelte e alla grande politica, vuole l’adesione dei popoli ed élite lungimiranti dotate delle necessarie competenze. Il movimento è parola vuota. Come dire, sono buoni tutti. E’ il movimento senza meta e senza passione che ha messo in ginocchio l’Europa. Anche quest’altra illusione è svanita sotto i colpi della crisi, l’illusione che basti riprendere il cammino, allargare il club, inventarsi l’ennesimo artificio istituzionale, mettere un po’ di vernice democratica, agitare e servire con la retorica d’uso. Non basterà un parlamento un po’ più vicino magari con qualche potere in più, un’altra gentile Lady Ashton che si occupi di coordinare la politica d’immigrazione. Anche l’elezione diretta a suffragio universale potrebbe non bastare. Una malinconica lanugine ricoprirà i cuori degli europeisti più convinti. E davvero una scintilla potrà mettere a fuoco la secca prateria. O l’Europa vera o the waste land.
Nemmeno i padri fondatori sapevano dove sarebbe andato a finire quello cui stavano dando vita. Adenauer ed Erhard, Churchill, De Gaulle, Robert Schuman e Jean Monnet, De Gasperi, Spaak e Spinelli, Rossi e Beyen e Bech, Walter Hallstein o Mansholt avevano idee molto diverse tra loro. L’Europa nasce nell’indifferenza se non nell’ostilità di socialdemocratici e liberali, grazie alla convergenza fra democristiani e chi la vedeva come un baluardo al comunismo sovietico.
Una generazione che però sentiva come una missione: impedire che si cadesse di nuovo nell’abisso.
Si mossero con cautela, un passo alla volta. Parlare di carbone e acciaio oggi fa quasi sorridere, eppure questo era allora l’industria bellica. Fu dunque una decisione di grande coraggio con un forte significato simbolico: mai più nessuno sarebbe morto per l’Alsazia e la Lorena, la Ruhr mai più avrebbe generato mostri e stirpi pericolose.
Si badò all’essenziale. Il trattato d’amicizia tra l’allora Germania ovest e la Francia, firmato da Adenauer e De Gaulle. La politica agricola perché non si ripetesse in nessun paese europeo l’Hongerwinter, la carestia che tra il 1944 e il 1945 costrinse mezza Olanda a nutrirsi di bulbi di tulipano e provocò migliaia di vittime. Non era il migliore dei mondi ma un buon mondo, un mondo confortevole.
Nemmeno i padri fondatori sapevano dove sarebbe andato a finire quello cui stavano dando vita. Adenauer ed Erhard, Churchill, De Gaulle, Robert Schuman e Jean Monnet, De Gasperi, Spaak e Spinelli, Rossi e Beyen e Bech, Walter Hallstein o Mansholt avevano idee molto diverse tra loro. L’Europa nasce nell’indifferenza se non nell’ostilità di socialdemocratici e liberali, grazie alla convergenza fra democristiani e chi la vedeva come un baluardo al comunismo sovietico.
Una generazione che però sentiva come una missione: impedire che si cadesse di nuovo nell’abisso.
Si mossero con cautela, un passo alla volta. Parlare di carbone e acciaio oggi fa quasi sorridere, eppure questo era allora l’industria bellica. Fu dunque una decisione di grande coraggio con un forte significato simbolico: mai più nessuno sarebbe morto per l’Alsazia e la Lorena, la Ruhr mai più avrebbe generato mostri e stirpi pericolose.
Si badò all’essenziale. Il trattato d’amicizia tra l’allora Germania ovest e la Francia, firmato da Adenauer e De Gaulle. La politica agricola perché non si ripetesse in nessun paese europeo l’Hongerwinter, la carestia che tra il 1944 e il 1945 costrinse mezza Olanda a nutrirsi di bulbi di tulipano e provocò migliaia di vittime. Non era il migliore dei mondi ma un buon mondo, un mondo confortevole.
La crescita ininterrotta dell’economia per i primi trenta anni, les trente glorieuses, rafforzò l’idea che la costruzione europea benché non fosse né federazione né confederazione, malgrado un funzionamento strampalato, fosse invenzione originale della scienza politica e conquista sociale irreversibile.
Non è più vero. Da quando se ne parla, dopo tutti i modelli e gli scenari messi a punto da banche, istituti strategici, cancellerie, è come se l’esplosione della zona euro fosse già avvenuta. Nella nostra mente: per dirla con un vacuo neologismo alla moda, è “esplosione percepita”. Il pensiero allora corre a François Hollande, presidente unto dal suffragio universale, legittimo portatore delle speranze del suo e di altri popoli che qualcosa cambi. E in fretta. Che alla forza devastante del feticcio e della rappresentazione qualcuno si opponga a difendere la qualità della nostra vita e senza complessi anche l’importanza della gioia. Perché sennò farne l’inno ufficiale europeo? Invece è passato poco più di un mese, lo abbiamo intravisto solo al vertice di Camp David: portava un vestito scuro su sfondo agreste, sembrava già, se non bollito, quanto meno opaco. Non sembra proprio l’uomo che potrebbe imporre un nuovo ordine simbolico nella casa comune. Anche quelli che fanno sempre blocco con chi governa, che credono nella funzione salvifica della tecnocrazia e burocrazia sovranazionale, si macerano in dubbi silenziosi. I tanti appelli all’ottimismo, a rimboccarsi le maniche perché ne abbiamo viste di peggiori, il che è vero, suonano come falsa moneta.
La fuga del risparmio dalle banche spagnole, italiane e francesi verso la Svizzera o l’Asia o i bond americani, centinaia di miliardi in poche settimane, è la spia della paura che cresce, il sintomo di un possibile attacco di panico generalizzato.
Un tempo si andava a Bruxelles un po’ come ai mercati generali, si cercavano e scambiavano favori sul latte o sui pomodori, sul burro o sulla siderurgia, si ottenevano le giuste compensazioni, un meccanismo folle che funzionava però alla perfezione. Le crisi di allora erano increspature di schiuma: in un universo mercantile un compromesso non si nega a nessuno. E nessuno ha mai potuto decentemente sostenere che i suoi interessi fossero stati lesi.
Non è più vero. Da quando se ne parla, dopo tutti i modelli e gli scenari messi a punto da banche, istituti strategici, cancellerie, è come se l’esplosione della zona euro fosse già avvenuta. Nella nostra mente: per dirla con un vacuo neologismo alla moda, è “esplosione percepita”. Il pensiero allora corre a François Hollande, presidente unto dal suffragio universale, legittimo portatore delle speranze del suo e di altri popoli che qualcosa cambi. E in fretta. Che alla forza devastante del feticcio e della rappresentazione qualcuno si opponga a difendere la qualità della nostra vita e senza complessi anche l’importanza della gioia. Perché sennò farne l’inno ufficiale europeo? Invece è passato poco più di un mese, lo abbiamo intravisto solo al vertice di Camp David: portava un vestito scuro su sfondo agreste, sembrava già, se non bollito, quanto meno opaco. Non sembra proprio l’uomo che potrebbe imporre un nuovo ordine simbolico nella casa comune. Anche quelli che fanno sempre blocco con chi governa, che credono nella funzione salvifica della tecnocrazia e burocrazia sovranazionale, si macerano in dubbi silenziosi. I tanti appelli all’ottimismo, a rimboccarsi le maniche perché ne abbiamo viste di peggiori, il che è vero, suonano come falsa moneta.
La fuga del risparmio dalle banche spagnole, italiane e francesi verso la Svizzera o l’Asia o i bond americani, centinaia di miliardi in poche settimane, è la spia della paura che cresce, il sintomo di un possibile attacco di panico generalizzato.
Un tempo si andava a Bruxelles un po’ come ai mercati generali, si cercavano e scambiavano favori sul latte o sui pomodori, sul burro o sulla siderurgia, si ottenevano le giuste compensazioni, un meccanismo folle che funzionava però alla perfezione. Le crisi di allora erano increspature di schiuma: in un universo mercantile un compromesso non si nega a nessuno. E nessuno ha mai potuto decentemente sostenere che i suoi interessi fossero stati lesi.
Oggi assistiamo al vortice dei vertici, a due, a tre, a sette, a venti, si susseguono annunci da ultima spiaggia, si creano grandi attese, si fanno ballare cifre impressionanti, poi cala il sipario e monta la vertigine del grande nulla. Nessuno sembra a misura di governare questa crisi. Tant’è che non si spostano nemmeno, ora fanno molte teleconferenze. Occorre la forza della parola, la potenza del simbolo, non ascoltiamo l’una, non vediamo l’altro. Bisognerebbe sedurre, convincere, inventare e infiammare. Eppure una manifestazione per l’Europa non c’è mai stata ed è tuttora impensabile. A parte coloro che la vedono esclusivamente in funzione anti islamica di difesa della cristianità come ai tempi di Carlo Martello. In un freddo giorno di settembre del 1984, Helmut Kohl e François Mitterrand commemorarono insieme i caduti della Grande guerra davanti all’ossario di Fort Douaumont, vicino Verdun: si presero per mano, rimasero così qualche minuto, i media tedeschi parlarono di evento storico, quelli francesi si commossero. Eppure l’abbraccio fraterno fra ex combattenti dalle due parti del Reno c’era già stato una ventina di anni prima, sia pure senza eccessiva enfasi.
Sia Kohl che Mitterrand credevano molto nel destino dei rispettivi paesi, poco o punto in quello dell’Europa intesa come superamento delle singole nazioni. L’Unione sopravvivrà a questa crisi solo se Gran Bretagna Francia e Germania, le nazioni più forti, ricorderanno finalmente di aver generato imperialismo e colonialismo, i mostri del secolo passato, e faranno passi indietro.
Poco prima della caduta del Muro, Hans Magnus Enzensberger scrisse “Ach Europa!”, in cui ci raccontava l’autunno della socialdemocrazia svedese, gli anacronismi della Norvegia, le speranze polacche, i primi passi della Spagna verso la democrazia, un Portogallo frastornato dalla rivoluzione dei garofani, e quel miracolo di vitalismo nonostante lo stato chiamato Italia. Non è certo per snobismo culturale che tralasciò allora i tre grandi. Sapeva che rappresentavano i maggiori ostacoli sulla strada di una vera Europa. Quando d’improvviso si sgretola un ordine mondiale che sembrava immutabile, l’Europa va in affanno. E viene messa nell’angolo dal ritorno in forze dello stato nazione. Il principio della riunificazione tedesca passò ovviamente al vaglio dei grandi del mondo, tempi e modi della sua realizzazione furono discussi e concordati a tre: Thatcher, Mitterrand e Kohl. L’offensiva del cancelliere, fulminea e geniale, prese in contropiede gli altri. Mitterrand traccheggiò e poi buttò in angolo: disse che non si sarebbe opposto alla sola condizione che la Germania rinunciasse al marco a favore di una moneta comune, l’euro appunto. Kohl accettò in meno di un amen. Come dicono gli inglesi, non c’è miglior pranzo di quello che ti viene offerto.
Poco prima della caduta del Muro, Hans Magnus Enzensberger scrisse “Ach Europa!”, in cui ci raccontava l’autunno della socialdemocrazia svedese, gli anacronismi della Norvegia, le speranze polacche, i primi passi della Spagna verso la democrazia, un Portogallo frastornato dalla rivoluzione dei garofani, e quel miracolo di vitalismo nonostante lo stato chiamato Italia. Non è certo per snobismo culturale che tralasciò allora i tre grandi. Sapeva che rappresentavano i maggiori ostacoli sulla strada di una vera Europa. Quando d’improvviso si sgretola un ordine mondiale che sembrava immutabile, l’Europa va in affanno. E viene messa nell’angolo dal ritorno in forze dello stato nazione. Il principio della riunificazione tedesca passò ovviamente al vaglio dei grandi del mondo, tempi e modi della sua realizzazione furono discussi e concordati a tre: Thatcher, Mitterrand e Kohl. L’offensiva del cancelliere, fulminea e geniale, prese in contropiede gli altri. Mitterrand traccheggiò e poi buttò in angolo: disse che non si sarebbe opposto alla sola condizione che la Germania rinunciasse al marco a favore di una moneta comune, l’euro appunto. Kohl accettò in meno di un amen. Come dicono gli inglesi, non c’è miglior pranzo di quello che ti viene offerto.
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