sabato 30 giugno 2012

Cosa vuole Berlino, senza moralismi, di Domenico Lombardi


Capire Merkel


Sotto la patina rigorista, c’è una pervicace strategia egemonica

Il vertice dell’Unione europea che si è appena concluso recita un copione in gran parte simile a quelli precedenti. Come è accaduto in altri summit dall’inizio della crisi, alcune decisioni sono state prese, come la vigilanza bancaria unica e una maggiore flessibilità nell’utilizzo del Fondo salva stati. Tuttavia le scelte sistemiche, le più controverse ma anche più efficaci, sono state rinviate al futuro: unione fiscale e politica, ruolo della Banca centrale europea nell’alimentare credibilmente le risorse del Fondo salva stati per renderlo efficace, solo per citarne alcune. I mercati inizialmente reagiscono positivamente ma probabilmente cominceranno presto a ripensarci.
Il copione, implicitamente accreditato dalla stampa anglosassone, tende a raffigurare la cancelliera tedesca come un politico cauto, tattico più che stratega, a tratti miope, incapace di assumersi la responsabilità di scelte coraggiose per non disintegrare il precario equilibrio politico che tiene in vita la sua coalizione. In questa visione, il suo avere a cuore il destino dell’Eurozona, ovviamente in un contesto di accresciuta stabilità fiscale, non è fondamentalmente messo in discussione.
Il problema di questo approccio è che nasconde due ipotesi fondamentali, accettate acriticamente: che la Germania abbia a cuore il bene comune dell’intera Eurozona e che le categorie analitiche che ne devono guidare le sue decisioni siano da valutare esclusivamente con il metro della razionalità (e della scienza) economica. L’evidenza che abbiamo di fronte è, però, ugualmente compatibile con un altro schema interpretativo che vede nell’attuale crisi la leva più efficace per attuare un disegno egemonico di puro interesse nazionale.
Sorprende per esempio che il potere negoziale dell’opposizione parlamentare in Germania, vista la maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione dei nuovi trattati europei, non si sia risolto in un atteggiamento più conciliatorio della cancelleria. D’altronde nella logica dello schema qui proposto, la Germania ha interesse a procrastinare un processo di risoluzione di una crisi che aumenta la distanza relativa fra la sua economia e quelle di altri paesi. Nel prossimo anno, per esempio, Italia e Spagna si contrarranno nuovamente; l’economia tedesca crescerà, invece, dell’1,5 per cento, secondo il Fmi. Utilizzando uno strumentario squisitamente economico-finanziario rispetto a quello tradizionale strategico-militare, la Germania finirà col promuovere l’unione politica europea in una condizione di forza solo dopo aver disarmato quelle economie che ne possono compromettere la supremazia nel teatro europeo.
In linea con questo approccio, alla Bce si dà il semaforo verde a intervenire; ma più per calmierare gli sviluppi imprevedibili ed estremi della crisi che per stabilizzare le sorti delle economie vulnerabili; questo anche se adempiono agli impegni presi in sede europea e sono vittime evidenti di fenomeni di contagio, come l’Italia oggi. Il Fondo salva stati viene istituito, ma non è dotato inizialmente né di risorse adeguate né della necessaria flessibilità operativa. Gli viene, ora, attribuita maggiore flessibilità nel calmierare i rendimenti di quei paesi in regola con Bruxelles; eppure, senza un “meccanismo bazooka” che ne alimenti la capacità finanziaria, l’efficacia è a rischio.

L’esempio della Bce e del Fondo anti spread

Gli aiuti alle economie sotto stress attraverso i programmi di aggiustamento vengono erogati, ma sono costantamente sottodimensionati rispetto alle effettive esigenze finanziarie dei paesi in questione, anche se, di volta in volta, le condizioni sono ritoccate in senso favorevole. Nel frattempo, il dilatarsi dello spread fra i titoli di stato dell’Eurozona impone un onere crescente per le economie in crisi, ma accentua il ruolo di investimento rifugio dei titoli tedeschi. A parità di altre condizioni, si accresce così la possibilità, per il settore pubblico tedesco, di finanziarsi sul mercato e offrire migliori o maggiori servizi, rafforzando la competitività del sistema nazionale. Lo spread che grava sui titoli di stato tende a estendersi anche al mercato dei finanziamenti per le imprese. Pertanto, le aziende tedesche si trovano nella condizione di ammodernare il loro stock di capitale a condizioni più vantaggiose. Le imprese italiane, invece, sono impossibilitate ad accedere al mercato del credito, accentuando la difficoltà di colmare il divario competitivo. Come se non bastasse, le autorità di Berlino predicano l’aggiustamento nominale dei salari nelle economie meridionali per colmare il divario di competitività nell’Eurozona. In assenza della disponibilità da parte tedesca ad accettare per sé tassi di incremento salariale significativamente più elevati rispetto alla recente media storica, ciò comporta un’ulteriore riduzione nominale del pil per le economie meridionali (e un aumento dello stesso debito in rapporto al pil).
Un’analisi attenta della dinamica della crisi mette pertanto in luce la strutturale asimmetria di incentivi tra la Germania e le economie meridionali nella tempistica della risoluzione della crisi. In questo scenario, vi sono due circostanze che forzeranno Berlino a chiudere tale crisi. La prima prevede che la Francia venga coinvolta in modo più pervasivo nella dinamica recessiva che sta attanagliando le altre economie dell’Eurozona. Una situazione di difficoltà, protratta nel tempo, per Parigi, porterebbe alla fine della formale parità nell’asse franco-tedesco, motore storico dell’integrazione europea, suggellando l’obiettivo ultimo della strategia teutonica. La seconda circostanza è il rischio di un’imminente implosione dell’Eurozona innescata da una crisi spagnola con successivo contagio dell’Italia. Quale che sia l’ultimo capitolo della crisi, l’attesa favorisce sempre la Germania e pone in svantaggio (crescente) tutti gli altri.

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