lunedì 18 giugno 2012

Oltre allo Ior, di Paolo Rodari


Il denaro in cambio della salvezza? C’è un’altra chiesa oltre allo Ior e alle donazioni milionarie: è fatta di questua e piccole carità

Che ne sanno loro? Che ne sanno allo Ior, la banca vaticana, da dove vengono i soldi? Poco, a volte addirittura nulla. Del resto lo disse anche Gesù: “Non sappia la tua sinistra quello che fa la destra” (Matteo 6,3). Come a dire: i soldi si danno ma nell’anonimato. Solo così, spiega ancora Matteo, “il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa palesemente”.
Una montagna di soldi. Duecento milioni di euro si dice che lo Ior fosse pronto a versare, cash, per sanare il debito dell’ospedale San Raffaele e così farlo proprio. Euro dei fedeli, per la maggior parte, fatti fruttare a dovere. Donazioni anche di bassa entità che messe assieme una dopo l’altra sono divenute un bel gruzzoletto. Moneta sonante di cui non vergognarsi perché anche questa è la chiesa: cumuli di offerte raccolte spesso senza conoscerne il mittente. Spesso ma non sempre, perché c’è di tutto nel cosiddetto obolo di san Pietro, e cioè i soldi che i fedeli danno direttamente in offerta al Papa. Dai soldi, ad esempio, in tutto diecimila euro, che il 21 dicembre 2011 Bruno Vespa ha spedito a nome della sua famiglia e non anonimamente al Papa (“Ps. Quando possiamo avere un incontro per salutare il Santo Padre”, scrive Vespa nella missiva d’accompagnamento inviata a don Georg Gänswein, segretario del Papa, e pubblicata da Gianluigi Nuzzi in “Sua Santità”, Chiarelettere) a quelli che semplici fedeli, gente comune, spediscono spesso senza indicare le proprie generalità. C’è chi lascia pochi euro. E chi, a sorpresa, il patrimonio accumulato in tutta una vita.
Lo Ior vuole la trasparenza ed entrare nella “white list” dei paesi virtuosi? Bene, ma la domanda resta una: come? Come la mettiamo con le offerte? Come faranno a dire che le valigie piene di euro portate dentro da chi intende donare magari semplicemente per pulirsi la coscienza dai propri peccati è offerta e non riciclaggio? Dove sta il discrimine? Come faranno a spiegare che la trasparenza, in campo ecclesiale, cozza frontalmente con quel segreto, o discrezione, che è parte integrante di una vita di fede? Mistero, i misteri della fede appunto.
Le cronache raccontano tanti episodi. I più eclatanti hanno come protagonisti due monumenti sacri del cattolicesimo di fine Novecento: Giovanni Paolo II e madre Teresa di Calcutta. Quanto a Madre Teresa, difficile trovare una santa più ricca di lei. Ma come, non viveva di nulla chiedendo l’elemosina in giro per le strade di Calcutta come i suoi poveri, come i suoi lebbrosi? E così non fanno le sue discepole in ogni dove? Sì, certo. Ma in pochi sanno che allo Ior madre Teresa aveva un conto di proporzioni infinite. Lo trattava con sufficienza, questo conto. Migliaia di dollari frutto di donazioni, di offerte di uomini ricchi e poveri insieme, rapiti dalla sua semplicità e dalla sua fede. Quanti uomini, molti per senso di colpa verso la propria ricchezza, altri per fede, le hanno dato parte dei propri averi? Tanti, tantissimi. Soldi portati dentro il Vaticano in molteplici modi. Soldi sulla cui provenienza nessuno, nemmeno lei, si è mai fatta troppe domande. Perché diceva, testuale: “Non importa da dove arrivano i soldi. Importa solo come li si usano”. E lei ci costruiva i lebbrosari, gli ospedali, e quelli che avanzavano li lasciava lì, sul suo bel conto all’interno dello Ior, in quel bunker sotterraneo dove si dice vi siano anche diversi lingotti d’oro: fu nel 2007 che il Vaticano, ben consigliato visti i tempi presenti, pensò di trasformare diversi investimenti azionari in lingotti d’oro, oltre che in obbligazioni e contanti. Lingotti oggi custoditi dietro mura spesse tre, quattro metri, a prova insomma di bomba.
Dunque, il conto di madre Teresa. Karol Wojtyla sapeva tutto e benediceva. Perché anche lui, il suo obolo, lo usava così. Con quali soldi, del resto, il sindacato polacco di Solidarnosc ha abbattuto il comunismo in Polonia? Chi lo foraggiava? Chi lo sosteneva economicamente? Recentemente è stato Lech Walesa, leader di Solidarnosc ai tempi del comunismo, a spiegare. I soldi arrivavano al sindacato principalmente dal Vaticano e dalle sue organizzazioni “caritatevoli”. Quali? Dice di non ricordare. Anche lui, insomma, riceveva senza domandare, ringraziando senza moralismi il Papa e quel suo intraprendente banchiere statunitense che prende il nome di Paul Casimir Marcinkus. Dice Walesa: “Tutta l’attività caritatevole era svolta dalla chiesa che non era controllata. Noi – lui e gli altri dirigenti di Solidarnosc, ndr – dovevamo stare molto attenti, eravamo intercettati, i servizi segreti mettevano in atto provocazioni di ogni tipo e io dovevo tenermi lontano da tali situazioni”. Ma ciò non significa “che non abbiamo ricevuto, anzi”. Il 28 ottobre del 2008 a Gdansk – città sulla costa meridionale del Baltico, la sesta città più grande della Polonia – Walesa si è seduto davanti al pubblico ministero di Roma Luca Tescaroli, il giudice incaricato di occuparsi dell’inchiesta bis sulla morte del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri di Londra il 18 giugno del 1982. A Walesa il magistrato ha ricordato che nelle lettere di Calvi rinvenute dopo la sua morte c’era scritto che il banchiere aveva finanziato Solidarnosc con oltre mille milioni di dollari. E Walesa ha risposto: “La chiesa ci dava soldi ma noi non chiedevamo mai da dove arrivavano. La chiesa ci aiutava. Per noi era soltanto solidarietà”.
Solidarietà o riciclaggio? La differenza è tutta nell’approccio, l’angolatura con la quale si guardano le cose. E’ come per i peccati: per la chiesa il segreto del confessionale è sacro, sempre, anche se si tratta del crimine più orrendo, quello di pedofilia. Per le regole degli stati, invece, è sacrilegio non denunciare il crimine stesso, non violare il segreto. E cosa sono, ad esempio, quei 158 milioni di dollari che Carl Anderson, membro del board dello Ior che ha appena sfiduciato Ettore Gotti Tedeschi, ha dichiarato che i Cavalieri di Colombo di cui fa parte hanno devoluto nel solo 2011 in opere di carità? Cosa sono, e cioè, da dove vengono? E’ tutto frutto di offerte di fedeli? O c’è dell’altro?
Tornare a Giovanni Paolo II è sempre utile per capire cosa sia la chiesa cattolica. Nel 1996, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione, il collegio cardinalizio gli offrì un’ingente somma da destinare a qualche opera, a sua scelta. E cosa fece Wojtyla? La diede ai poveri? No: “Ho pensato di usarla per i lavori di ristrutturazione e decorazione della cappella Redemptoris Mater nel palazzo apostolico”. La Redemptoris Mater, insieme alla Sistina e alla Paolina, una delle tre cappelle pontificie del palazzo apostolico, ristrutturata coi soldi di un’offerta che sarebbe potuta servire per scopi diversi, filantropici, di carità. Ma Wojtyla aveva un’idea. Nella parte di fondo fece rappresentare la “parusia”, la seconda venuta di Cristo. L’“Erchomenos”, “colui che viene”, appare in un vortice della divinità che pare inaccessibile, dalla profondità imperscrutabile che però insieme si rende eccezionalmente vicina. Scende vestito da sacerdote, Cristo, mostrando le ferite patite sul calvario. Innanzi a lui pronti per la celebrazione celeste, ci sono Adamo ed Eva, vestiti di rosso, Filippo con il calice e Marco con il Vangelo. Poi Mosè che blocca il mar Rosso nel passaggio pasquale; sull’altro lato Noè con la barca e gli animali; Giona con la balena (un indistinto “grosso pesce”, in realtà, stando al Vangelo) e dall’altro lato Giuseppe d’Egitto con i covoni e i sacchi di grano. La terra e il mare alla fine del mondo ridaranno i morti a Cristo. Salgono, i morti, dalla terra vestiti di bianco: sono i morti che si salvano. L’arcangelo Michele mette la sua mano sulla bilancia del giudizio e rovescia il diavolo dalla bilancia stessa attraverso il mare nell’inferno. C’è anche l’inferno, certo, perché altrimenti Dio non sarebbe padre e amore ma un dittatore. Però se qualcuno di questi morti finisce all’inferno resta un mistero di Dio, imperscrutabile. Per questo l’inferno è celato da un velo rosso.
Così volle Wojtyla: facendo suo l’auspicio del teologo svizzero amico di Ratzinger, Hans Urs von Balthasar, l’inferno venne rappresentato lasciando il dubbio che sia vuoto. E’ anche per questo motivo che il Vaticano, Giovanni Paolo II in testa, ha sempre accettato le offerte dei fedeli senza troppo indagare sulla loro origine. C’è chi dona anonimamente come forma d’espiazione, il prezzo per risparmiarsi le pene eterne, un’espiazione accettata senza facili moralismi. “Pago che forse mi salvo”, dicono alcuni. “Se i tuoi soldi serviranno per fare del bene può darsi che Dio avrà misericordia di te”, rispondono solitamente i preti che, senza troppi problemi, incassano. Come a dire: tentar non nuoce. Altrimenti non si capirebbe perché, ancora oggi, è possibile chiedere sante messe per la salvezza dei propri defunti. Dieci, quindici euro a messa e le pene che i cari defunti sono costretti a subire se ancora si trovano in purgatorio vengono lenite. Lo dice anche un’iscrizione collocata nel 1500 (e tutt’oggi esistente) in piazza del Gesù a Roma sotto un’icona della Madonna: per decisione di Papa Pio V – domenicano canonizzato da Clemente XI nel 1712 – chiunque recita sotto l’icona le litanie del rosario con fede riceve per sé e per le anime del purgatorio l’equivalente di cento giorni di indulgenza che possono divenire di più se si attraversa la strada e si versa la propria offerta nelle casse della chiesa antistante, la gloriosa chiesa dei gesuiti.
Soldi in cambio della salvezza, certo. Ma con le dovute precauzioni. Perché non hanno tutti i torti gli esperti di Moneyval, il gruppo del Consiglio d’Europa che dovrà decidere il prossimo luglio sulla richiesta della Santa Sede di ingresso nella lista dei paesi virtuosi in tema di antiriciclaggio, appunto la “white list” dell’Ocse. Non hanno tutti i torti a fare le pulci allo Ior perché in fondo la moderazione è necessaria. Del resto così da sempre vanno le cose: le riforme della chiesa nascono sempre dall’interno, con un ritorno deciso alla povertà. I soldi non spaventano e sui soldi gli uomini di chiesa non fanno facili moralismi certo, ma la povertà è un precetto evangelico da non disattendere. Povertà di spirito, anzitutto, ma anche povertà reale.
San Francesco non sarebbe stato tale se non avesse abbandonato tutto, da ricco mercante di stoffe a povero mendicante. San Francesco che, si domandano in molti, chissà cosa direbbe oggi se costretto ad attraversare le mura leonine. Si spoglierebbe nudo davanti ai banchieri dello Ior come fece il giorno che lasciò tutto innanzi a suo padre? Probabilmente sì. Perché è un dato di fatto: la chiesa non sarebbe tale se non ci fossero loro, i poveri, che quel poco che hanno lo danno “allegramente”, come san Paolo vuole che sia fatto. “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”, disse Gesù. Come a dire: la ricchezza non è un male in sé, ma la povertà facilita il rapporto con Dio, la comunione col mistero e dunque la salvezza eterna.
I poveri e i frati mendicanti. Per secoli hanno fatto la questua nelle campagne, poveri tra i più poveri. E’ il diritto canonico che ancora oggi riconosce agli ordini religiosi mendicanti il diritto di chiedere la questua. Coloro che per proprio sostentamento non dispongono di beni immobili o di redditi fissi (cappuccini, minori osservanti, etc.) hanno licenza di chiedere, di mendicare. Ma a delle condizioni: i frati questuanti devono girare sempre almeno in due e pernottare presso le case religiose o nelle parrocchie, osservare le pratiche religiose a cui sono abitualmente tenuti, non protrarre la loro lontananza dal convento oltre un mese nel territorio della loro diocesi; non oltre i due mesi fuori dal territorio della loro diocesi.
Marco 12, versetti 41-44, oppure Luca 21, versetti 1-4. Poco prima dell’ultima tragica settimana a Gerusalemme, Gesù è nel tempio. C’è il tesoro, soldi delle offerte dei fedeli del tempio stesso che i sacerdoti usano per compiere olocausti o per aiutare i poveri. Si tratta di contributi volontari, non di tasse, che essi richiedono per la manutenzione del tempio e per le loro necessità. Gesù e i suoi discepoli osservano “come” i credenti fanno le loro offerte. Vedono i ricchi che gettano con ostentazione molte monete. E poi arriva lei, la vedova, che offre “due spiccioli”, un importo che per Marco equivale a un “quattrino”, offerta insignificante. Per Gesù è la vedova, non sono i ricchi, a essere “generosa”, non tanto perché “ha pensato” di fare l’offerta – lei che avrebbe anche potuto obiettivamente farne a meno – né perché ha dato i due spicciolini a Jahvè o ai poveri più poveri di lei, ma perché in quella misera offerta essa ha dato “tutto quanto aveva per vivere”. L’insegnamento è palese: è a persone siffatte che occorre guardare. E’ questa gente che fa la chiesa. La gente che dà tutto, non il superfluo, e che dà tutto rimanendo nell’anonimato. E spesso nella povertà.
Alla fine, insomma, resta valido l’insegnamento di san Paolo, prima ai Corinzi capitolo sette: “Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa, infatti, la figura di questo mondo!”. E cioè: i soldi non devono fare paura. I soldi si possono usare ma, come faceva madre Teresa, quasi dimenticandosi di averli.
Un concetto, questo, che fece suo il predecessore di Gotti Tedeschi in sella allo Ior, il riservato Angelo Caloia: in una lezione ai diplomatici di vari paesi del medio oriente e del Nordafrica, tenuta a Roma alla Pontificia Università Gregoriana nel maggio del 2007, Caloia disse che i soldi dell’obolo di san Pietro “sono diretti soprattutto ai bisogni materiali di diocesi povere, a istituti religiosi e comunità di fedeli in gravi difficoltà: poveri, bambini, vecchi, emarginati, vittime di guerre e disastri naturali, rifugiati, eccetera”. Ma, disse, esiste un ulteriore cespite della “carità del Papa”, i profitti dello Ior. Anche questi sono una benedizione. E, una volta fatti, possono essere usati nel modo giusto, senza scandalizzarsi. Ogni anno lo Ior mette a completa disposizione del Papa la differenza fra le proprie entrate e uscite dell’anno precedente. L’ammontare di questa somma è segreto. Si pensa però che sia ingente, capace da sola di raddoppiare lo stesso obolo. Le cifre sono trapelate negli ultimi anni. Nel 1992 si parlò di 60,7 miliardi di lire italiane, nel 1993 di 72,5 miliardi, nel 1994 di 75 miliardi e nel 1995 di 78,3 miliardi. Cifre per nulla paragonabili alle offerte che i fedeli, da sempre, versano nelle parrocchie, anche nelle zone più povere del pianeta, per il sostentamento del clero e per le opere di carità della chiesa. Ma l’importante non è la quantità, ma come questi soldi si usano. Così insegna la chiesa.

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