domenica 10 giugno 2012

Mezzo secolo di conservatorismo USA, di Lee Edwards


Non esisteva alcun movimento conservatore quando The Conservative Mind fu pubblicato nella primavera del 1953. Vi era, al suo posto, una congerie incoerente e litigiosa di pensatori, di scrittori e di uomini politici, le cui differenze sembravano sopraffare le similitudini.


Fra i filosofi vi erano Friedrich A. von Hayek, un economista di orientamento liberale classico nato in Austria; Richard M. Weaver, un agrario “sudista” che insegnava inglese non alla Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee – il simbolo della rinascita del Sud prima della Seconda guerra mondiale –, ma all’Università di Chicago; e Whittaker Chambers, una ex spia sovietica trasformatasi in fervente anticomunista.


Fra i divulgatori vi erano il commentatore radiofonico John T. Flynn, un irriducibile isolazionista del movimento “America First”; l’opinionista di Newsweek Raymond Moley, già consigliere supremo del presidente democratico Franklin D. Roosevelt; e William F. Buckley jr., che nel suo best-seller God and Man at Yale si definì ripetutamente un individualista.


Fra i politici figuravano i nomi del senatore Robert A. Taft, Repubblicano dell’Ohio, che si definì un conservatore liberale; il senatore Joseph R. Mc Carthy, Repubblicano del Wisconsin; e Barry M. Goldwater dell’Arizona, che nella sua prima corsa per il Senato si definì un Repubblicano jeffersoniano.Alla fine degli anni Quaranta e all’inizio del decennio successivo, i conservatori tradizionalisti come Weaver e i libeali classici alla Von Hayek erano convinti che i valori su cui si regge la civiltà fossero in pericolo, stante che il ruolo della persona e delle associazioni volontarie fra gli uomini era stato progressivamente minato dall’ampliarsi di strutture di potere arbitrario. La libertà di pensiero e di espressione era minacciata da minoranze assetate di potere e questa disastrosa evoluzione della vita sociale era sostenuta da una visione storica che negava ogni norma morale assoluta, che metteva in discussione la sovranità del diritto (rule of law) e che depotenziava la fiducia nella proprietà privata e nella competizione di mercato. Esistevano alcuni segnali incoraggianti, però. Dal 1944, la newsletter settimanale Human Events veniva pubblicando saggi acuti e spesso battaglieri, firmati da alcuni degli autori conservatori e anticomunisti allora più significativi. Il quindicinale The Freeman era stato lanciato nel 1950, ma purtroppo s’impantanò in dispute interne di natura politica. Nel 1952 sorse l’Intercollegiate Society of Individualists, una organizzazione giovanile, che, nonostante la contraddizione con il nome che si era data, cominciò a raggruppare soci. Mancava, però, una dominante comune in questo calderone che accomunava indistintamente conservatori, liberali classici e anticomunisti. I conservatori, inoltre, avevano un nemico in più: il liberalismo liberal moderno, che giganteggiava così indisturbato e tanto universalmente acclamato da apparire invincibile. Davide si era scontrato con un solo Golia; dall’altra parte del campo di battaglia, ai conservatori si parava innanzi un intero esercito di Golia.


La riscossa nasce dal Sud


Poca meraviglia, dunque, che originariamente Weaver volesse intitolare il proprio libro dedicato alla ricostruzione degli errori dell’epoca moderna The Fearful Descent, “Lo spaventoso declino”. Il suo editore optò invece diversamente e, all’inizio del 1948, comparve Ideas Have Consequences. Weaver vi sosteneva che il nominalismo, il razionalismo e il materialismo avevano inesorabilmente portato a quella che egli considerava la «dissoluzione» morale dell’Occidente. L’uomo si era allontanato dai princìpi primi e dalla vera sapienza, per abbracciare entusiasticamente l’egualitarismo sfrenato e il culto della massa. Il libro di Weaver era senza dubbio una lamentazione, eppure in positivo prospettava anche tre possibilità di riforma che avrebbero aiutato il genere umano a salvarsi dal flagello del modernismo: la difesa della proprietà privata; la purificazione e il rispetto della lingua; e la pietà verso la natura, quella degli uomini l’uno verso l’altro e specialmente quella verso il passato. Ideas Have Consequences non passò inosservato. Liberali come Paul Tillich e Reinhold Niebuhr lo apprezzarono profondamente. Il filosofo conservatore Eliseo Vivas definì Weaver «un moralista ispirato» e lo scienziato della politica Willmoore Kendall nominò il suo autore «capitano della squadra antiprogressista». Ma un recensore irritato bollò Weaver, che era un protestante del Sud, con l’etichetta di «propagandista del ritorno al papato medioevale» e un altro ne denunciò l’opera come anello di una «catena reazionaria» prodotta dalla University of Chicago Press, di cui faceva parte anche Von Hayek. Un granello di verità, però, il giudizio di quest’ultimo critico lo conteneva. Malgrado tutte le differenze, sia il liberale classico Von Hayek sia il conservatore tradizionalista Weaver avevano individuato l’origine del declino dell’Occidente in alcune «perniciose» idee progressiste: il primo puntava l’indice contro la pianificazione economica, il secondo contro il relativismo morale. Von Hayek propose come alternativa la via della libertà personale, incastonata nel quadro di un governo minuziosamente limitato nelle proprie competenze. Weaver ribadiva invece che una società  retta deve fondarsi su verità certe ed eterne. I due autori e le loro opere rappresentavano la fusione, all’interno del conservatorismo statunitense, della corrente libertarian e di quella conservatrice, fusione che attorno agli anni Cinquanta cominciò a realizzarsi, ancorché in maniera disordinata, sotto la doppia minaccia dell’assistenzialismo in patria e del comunismo all’estero. A quel punto, diversi altri eventi si combinarono nel modellare ulteriormente il movimento conservatore: la condanna dell’ex spia sovietica Alger Hiss, la pubblicazione del libro God and Man at Yale di Buckley e la comparsa del magistrale volume di memorie di Chambers, Witness.Il caso di spionaggio Hiss-Chambers degli anni 1948-1950 fu un evento determinante per il conservatorismo statunitense, con i liberal lanciati nella difesa appassionata di Hiss – un rampollo di Harvard che essi consideravano uno dei loro – da una parte, e i conservatori schierati con Chambers, opinionista di Time, e con il suo campione al Congresso, Richard M. Nixon, dall’altra. Nel 1948, Chambers testimoniò controvoglia di fronte all’House Commitee on Un-American Activities, affermando che negli anni Trenta aveva conosciuto un giovane funzionario del Dipartimento di Stato di nome Alger Hiss, allorché, studente, divenne un agente dello spionaggio comunista. Hiss negò con forza l’accusa e denunciò Chambers per calunnie, costringendolo a produrre dei documenti governativi segreti che teneva nascosti in una zucca nella sua fattoria del Maryland. I documenti confermarono immancabilmente che durante gli anni del New Deal i due uomini avevano fatto entrambi parte dell’apparato spionistico sovietico. Dopo due controversi processi di risonanza nazionale, Hiss fu condannato per falsa testimonianza e venne tradotto in carcere per quattro anni. La Destra si sentì vendicata, la Sinistra violentata, realizzando che con Hiss era finita sotto processo l’intera generazione del New Deal. «È stato il caso Hiss – ha scritto lo storico George H. Nash – a forgiare la componente anticomunista del movimento conservatore che stava nascendo in quegli anni».


Gli Stati Uniti e la «morte di Dio»


God and Man at Yale fu uno dei libri più discussi del 1951. Dedicando – «in quest’ordine» – il volume a Dio, al Paese e all’Università Yale di New Haven in Connecticut, Buckley accusò l’ateneo di aver abbandonato sia il cristianesimo, sia la libera intrapresa, ovvero ciò che egli – mutuando l’espressione da Albert Jay Nock, acerrimo nemico dello Stato – chiamava «individualismo». Buckley sostenne che il corpo docente di Yale – e feceva i nomi –, il quale promuoveva l’ateismo e il socialismo, avrebbe dovuto essere licenziato. Buckley paragonava il darwinismo, il socialismo fabiano e il pragmatismo al marxismo e al nazionalsocialismo. In alternativa, proponeva John Locke, Adam Smith, Thomas Jefferson e Gesù, sostenendo che l’obiettivo primo dell’educazione fosse quello di rendere familiare agli studenti un corpo di verità vive di cui il cristianesimo e la libera intrapresa, ovvero l’individualismo, sono i fondamenti. Ma, osservava Buckley, «a Yale l’individualismo sta morendo e muore senza combattere». Quando Chambers lo pubblicò nel 1952, Witness, un’autobiografia lunga 800 pagine, divenne immediatamente un best-seller e per ottime ragioni. Conteneva una drammatica storia di spie, di spionaggio e di tradimenti, corredata da un apocalittico grido di allarme circa la battaglia epica che si stava combattendo fra l’Occidente e i suoi nemici totalitari. Agli occhi dei conservatori il libro risultò particolare ficcante, giacché asseriva – proprio come gli stessi conservatori stavano facendo da anni – che gli Stati Uniti si trovavano nel mezzo di una crisi profonda che trascendeva l’ora presente; che si trattava di una crisi di fede, approvando la creazione di una nuova entità federale di dimensione elefantiache, ossia il l ipartimento della Salute, dell’Educazione e del Welfare.


Un grido che viene dal cuore


Russell Kirk aveva solo 35 anni quando, nella primavera del 1953, comparve quella sua opera d’importanza capitale che è The Conservative Mind. A tutta prima, i liberal presero a scherzarci sopra, affermando che il titolo era un ossimoro, ma furono costretti a rivedere questo giudizio quando lessero il «cri de coeur eloquente, provocatorio e veemente» che Kirk lanciava a favore del conservatorismo. Nell’opera, l’autore stila una ricognizione lunga 500 pagine dei maggiori pensatori conservatori vissuti nel secolo e mezzo precedenti, rivolgendo caustiche accuse contro tutte le panacee progressiste, dall’idea della perfezione umana all’egualitarismo economico. The Conservative Mind non inizia con un gemito, ma con uno schianto: «“Il partito degli stupidi”: questa è la definizione che John Stuart Mill dà dei conservatori. Come altre massime che i liberali dell’Ottocento hanno creduto dovessero trionfare per sempre, in questo nostro tempo in cui le filosofie progressiste e radicali stanno disintegrandosi quel giudizio deve essere riveduto». Ancora oggi, questo passaggio quasi mozza il fiato e certamente lo mozzò 50 anni fa, in un tempo in cui i conservatori ammettevano pubblicamente di essere la parte perdente. Ma non così Kirk, questo ardimentoso e giovane studioso statunitense, che nelle parole del suo editore, Henry Regnery, «aveva scoperto una grande verità e desiderava comunicarla agli altri». Ma cosa aveva scoperto Kirk? Aveva scoperto che il conservatorismo nordamericano moderno riposa con sicurezza sul dire e sul fare di una galleria di eroi conservatori che parte dal secolo XVIII e che inizia con il fondatore della «vera scuola conservatrice», Edmund Burke. Burke, sottolinea lo storico delle idee, non costituisce però un esempio isolato: è il primo di un grandioso sodalizio di uomini politici, di poeti e di filosofi conservatori, tra i quali figurano Benjamin Disraeli e il cardinale John Henry Newman in Gran Bretagna, e, in America Settentrionale, la rimarchevole famiglia degli Adams, N a t h a n i e l Hawthorne e Orestes A. Brownson. E non si trattava di pensatori e di scribacchini di secondo piano, ma di uomini raffinati e di principio che nei Paesi di appartenenza e nei secoli in cui vissero avevano fatto la differenza, sostenendo pubblicamente e mostrandosi fedeli ai princìpi primi. Ma quali sono questi princìpi primi? Sin dal 1953, l’intrepido dottor Kirk asserì che l’essenza del conservatorismo è racchiusa in sei canoni.


È un intento divino a governare sia la società sia la coscienza degli uomini: «le questioni politiche –  scrive Kirk – sono questioni religiose e morali».
La vita tradizionale è poliedrica e misteriosa, laddove la maggior parte dei sistemi radicali è invece caratterizzato dall’omologazione più rigida.
La società civile necessita di una suddivisione in ordini e in ceti: «l’unica vera eguaglianza è l’eguaglianza morale».
La proprietà e la libertà sono inseparabilmente connesse.
L’uomo deve controllare la propria volontà e i propri appetiti, sapendo che a dominarlo è più l’emozione che non la ragione.
«Mutamento e riforma non sono la medesima cosa»: le trasformazioni sociali debbono essere lente.
Prima ancora che i liberal riprendessero fiato, The New York Times recensì favorevolmente The Conservative Mind così come pure fece la rivista Time, nella cui redazione uno dei senior editor definì quella kirkiana l’opera più importante del secolo XX. In vero, delle prime 50 recensioni ottenute dal volume, 47 erano, sorprendentemente, positive. Prima di allora, nessuno scrittore conservatore moderno aveva ricevuto tante entusiastiche attenzioni. Il filosofo politico Robert A. Nisbet scrisse a Kirk dicendogli che con un solo libro aveva fatto l’impossibile: aveva mandato in frantumi «la cappa intellettuale che si oppone alla tradizione conservatrice statunitense». Ma Kirk aveva fatto molto di più. Aveva reso il conservatorismo rispettabile sul piano intellettuale. Mai più sarebbe stato detto che i conservatori costituiscono il “partito degli stupidi”. Né che il conservatorismo si preoccupa solo del passato, restando indifferente al futuro. Nell’ultimo capitolo del libro, The Promise of Conservatism (titolo che differenzia il suo autore dal pessimismo profondo che invece anima l’ex comunista Chambers e la sua accettazione stoica della sconfitta), Kirk sosteneva che gl’interessi principali del vero conservatorismo e della democrazia libertarian vecchio stile stavano per divenire gli stessi.


La politica della prudenza


Ventun’anni dopo The Conservative Mind, il dottor Kirk pubblicò The Roots of American Order (trad. it. Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del nuovo mondo). Diciannove anni dopo quel volume e un anno prima della sua scomparsa, Kirk ha dato alle stampe The Politics of Prudence – tradotto in italiano con il titolo La prudenza come criterio politico, a cura di Anthony G. Costantini, Pio Colonnello e Pasquale Giustiniani (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002) –, una raccolta di testi di conferenze tenute presso The Heritage Foundation di Washington, la maggior parte delle quali indirizzate specificamente ai giovani conservatori. In quel volume, Kirk difende la politica dettata dalla prudenza in opposizione a quella di matrice ideologica, sperando di persuadere le giovani generazioni «a schierarsi apertamente contro il fanatismo politico e a ogni costruzione utopistica». Egli rifiuta la definizione d’ideologia che si trova nei dizionari – «scienza delle idee» –, sostenendo invece che si tratta di una «religione capovolta» che promette una salvezza collettiva da raggiungere sulla Terra attraverso rivoluzioni violente. Kirk rigetta l’ideologia anche perché rende impossibile i compromessi politici. La sua ristretta visione della realtà – diceva – produce la guerra civile e la distruzione delle buone istituzioni sociali. Al contrario, la politica prudente si basa sul dato certo che la natura e le  istituzioni umane sono imperfette e quindi che, in politica, la “virtù” aggressiva finisce solo per spargere sangue. Per l’uomo politico prudente, le strutture politiche ed economiche non vengono erette un giorno per essere demolite quello seguente, ma si sviluppano nei secoli «come se fossero organiche».Mi è capitato di sedere fra il pubblico di molte di quelle conferenze e posso testimoniare come i giovani e le giovani presenti – che solitamente erano la maggioranza dell’uditorio – pendessero da ognuna delle parole che egli pronunciava. Durante una di esse, il dottor Kirk offrì un decalogo che, a suo avviso, conteneva quelle che dovevano essere le priorità dei conservatori statunitensi in quella precisa stagione storica. Le differenze fra il credo degli anni ottanta e i sei canoni di The Conservative Mind degli anni Cinquanta sono molto istruttive. Questi i dieci princìpi conservatori proposti allora.





Un nuovo decalogo



  • Il conservatore crede nell’esistenza di un ordine morale duraturo.
  • Il conservatore si conforma agli usi, alle convenzioni sociali e alla continuità storica. Nel cuore del conservatore c’è l’idea burkeana della necessità di cambiamenti prudenti, ma i cambiamenti che si rendono di volta in volta necessari debbono essere graduali e ponderati.
  • Il conservatore crede in ciò che può essere definito il principio di consuetudine (principle of prescription). Ovvero nelle realtà fondate e sanzionate da un uso del cui inizio si è addirittura perduta la memoria.
  • È il principio della prudenza a guidare i conservatori.
  • È il principio della poliedricità del reale che desta l’attenzione dei conservatori.
  • È il principio dell’imperfezione umana che tiene a freno i conservatori.
  • I conservatori sono persuasi che la libertà e la proprietà siano strettamente connesse.
  • I conservatori promuovono le associazioni volontarie fra gli uomini e combattono ogni collettivismo.
  • Il conservatore avverte il bisogno che al potere e alle passioni umane vengano imposte restrizioni prudenti.
  • Il conservatore non ingenuo sa che, in una società sana, conservazione e cambiamento debbono coesistere ed essere conciliati.
  • La vite e i tralci



Uno dei pensatori conservatori preferiti da Kirk era Brownson, che 150 anni fa disse ai propri studenti del Dartmouth College, di Hanover, nel New Hampshire: «Non cercate ciò che desidera la vostra giovane età, ma ciò di cui essa ha bisogno; non ciò che premia, ma ciò in assenza del quale la vostra giovane età non può essere salvata; e poi andate e fate; e abbiate la vostra ricompensa nella consapevolezza di aver fatto il vostro dovere». Questo è esattamente ciò che Kirk ha fatto per tutta l’esistenza. Nella pagine finali di The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict – la sua autobiografia pubblicata postuma nel 1995 –, Kirk ha scritto che nella vita ha cercato di raggiungere tre mete:


1.       conservare il patrimonio di ordine, di giustizia e di libertà giunto sino a lui, un ordine morale accettabile e la cultura ereditata dalla storia.


2.       Condurre un’esistenza di discreta indipendenza, vivendo del proprio, in modo da potere dire la verità e fare udire la propria voce.


3.       Sposarsi per amore e crescere dei figli che un giorno possano comprendere che il servizio a Dio è la perfetta libertà.


Per grazia di Dio e dei talenti di cui era dotato, Kirk ha raggiunto tutti e tre questi scopi, fornendo a noi tutti una raison d’être. Qual è stata l’importanza avuta da Russell Kirk per l’intero movimento conservatore statunitense? Oggi non è possibile separare l’uno dall’altro più di quanto si possa dividere la vite dai tralci. Riassumendo l’intero movimento conservatore statunitense, il giornalista George F. Will, Premio Pulitzer 1977, ha avuto occasione di sottolineare che prima di Ronald W. Reagan vi fu Barry M. Goldwater; e che prima di Barry M.Goldwater vi fu National Review; e che prima di National Review vi fu Buckley, suo fondatore nel 1955. Will non si è spinto oltre. Ma prima di Buckley vi fu Russell Kirk, un uomo capace di comprendere che le idee – come una volta ha detto Reagan – «davvero governano il mondo». Il valore delle numerose opere che il dottor Kirk ci ha lasciato durerà nel tempo perché si tratta di opere dense d’idee e di virtù, idee e virtù che il mondo deve per forza possedere se ha una qualche intenzione di durare.

http://www.russellkirk.eu/it/pubblicazioni/48-mezzo-secolo-di-conservatorismo-usa-.html

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