giovedì 30 maggio 2013

Così il partito della spesa pubblica si prepara a seppellire l’austerità, di Salvatore Merlo

Governare a sbafo


Ingolositi dalle concessioni europee, gli spendaccioni del Pd e del Pdl vorrebbero sopravvivere in deficit

Di fronte ai presidenti delle regioni, che lo circondano nel lungo tavolo ovale di Palazzo Chigi, Enrico Letta fa esercizio di prudenza, che è antica ginnastica democristiana, s’impara con l’esperienza, ma bisogna pure avere una certa inclinazione di carattere alla cortesia, che è a sua volta ginnastica contro le passioni: troncare sopire, sopire troncare, prendere tempo, giustificarsi pudicamente. “Siamo a buon punto, ma le risorse europee arriveranno sul bilancio del 2014. Non dipende da noi”. E dunque, mentre loro, che si chiamano Vasco Errani e Stefano Caldoro, Nicola Zingaretti e Luca Zaia, i presidenti dell’Emilia e della Campania, del Lazio e del Veneto, si contorcono nei lamenti, perché “è necessario sforare il patto di stabilità e ci vogliono investimenti pubblici”, il presidente del Consiglio che pure tanto aveva caricato di aspettative il vertice europeo del 27 e 28 giugno si fa cauto e, a incontro finito, quando quasi tutti hanno lasciato il Palazzo, sussurra due paroline di verità all’orecchio d’uno dei governatori più agitati: “Non posso andare al Consiglio europeo mentre sui giornali italiani sembra che vogliamo riprendere subito a spendere”. Bisogna dissimulare.
“L’italiano ha un tale culto della furbizia che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno”, diceva Prezzolini in un libro che non legge più nessuno.Letta non vuole arrivare debole di fronte ad Angela Merkel, la cancelliera dal piglio prussiano, seria seria e severa severa, alla quale il premier italiano dovrà spiegare perché abbia bloccato l’Imu ai suoi concittadini, perché intende bloccare anche l’aumento dell’Iva, perché ha finanziato la cassa integrazione in deroga ma non ancora riformato il mercato del lavoro, né rimodulato il sistema fiscale o innescato la ripresa economica secondo principi liberali e non assistenziali. “Il rigore non produce crescita bensì più recessione, ci sono 73 miliardi per i prossimi dieci anni da destinare a investimenti in infrastrutture europee. Per ogni miliardo di investimento si può dare vita a 12 mila posti di lavoro”, dice Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture.
E Stefano Fassina, viceministro dell’Economia di cultura solidamente laburista, uno dei leader del Pd: “L’attuale direzione di marcia ci sta portando al risultato opposto a quello che volevamo. Il debito va ridotto, certo, ma l’intervento sui pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione dimostra che per dare impulso all’economia bisogna fare più debito e più deficit”. Ed è proprio quello che Letta, adesso, vuole evitare che si dica e si riveli, perché i tedeschi ci osservano comprensibilmente preoccupati da questo folcloristico dibattito nazionale che si avvita allegro contro quelle politiche di austerità che, con la regia di Mario Monti, ci hanno appena portato fuori da una pericolosa procedura di infrazione europea per eccesso di deficit. Anche nel resto del mondo si dibatte, certo, e intorno all’austerità duellano alcune delle menti economiche più brillanti d’America e d’Europa. Paul Krugman deride le politiche di bilancio imposte dalla Germania e sulla New York Review of Books dice che i soloni del rigore hanno sbagliato tutto: gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno imposto il dogma che il debito pubblico non dovesse superare il 90 per cento per colpa di un difetto del software Excel che alterava i risultati, il Fondo monetario internazionale ha calcolato male l’impatto sull’economia degli aumenti delle tasse e del taglio della spesa in tempo di recessione, Alberto Alesina e Silvia Ardagna probabilmente hanno provocato danni convincendo le istituzioni europee che la storia dimostrasse che tagliare la spesa pubblica è la premessa della crescita. Però in nessun altro posto del mondo, Italia a parte, si ha l’impressione che la guerra all’austerità sia una piccola furbizia, una doppiezza senza tormento, un escamotage, la solita concessione ai desideri più immediati e pigri di un popolo in difficoltà cui non si indica mai un orizzonte e una prospettiva di crescita faticosi eppure remunerativi, ma piuttosto la strada più comoda, lasca, in definitiva miserabile. E i tedeschi che forse un po’ ci disprezzano, ma certamente purtroppo ci conoscono pure, se ne accorgono, come infatti teme Letta. Sanno che non c’è vincolo di bilancio e non c’è regola che in Italia, dove l’ossimoro si è elevato a scienza politica, non offrano l’occasione di essere aggirati e contemporaneamente pure rispettati, “L’Arcitaliano non ha paura / della legge di natura / e talvolta egli corregge / la natura della legge”, diceva Curzio Malaparte, nato Kurt Erich Suckert.
E così Lupi e Fassina, come i loro colleghi Flavio Zanonato ed Enrico Giovannini e Fabrizio Saccomanni, i ministri dello Sviluppo, del Lavoro e dell’Economia, si mantengono in equilibrio sul filo dell’ambiguità, di quell’allusione generosa alla crescita che però occulta, un po’ nega e un po’ afferma, la terribile e così dolce espressione “spesa pubblica”, quella che ha fatto la fortuna politica dei governanti italiani di ogni latitudine ed epoca. “Il patto di stabilità interno è totalmente un errore”, dice Lupi. E Fassina: “Va ricostruita la civiltà del lavoro”. Dunque il presepio politico si popola sempre più di interviste e annunci governativi incentrati sulla disponibilità di dodici miliardi aggiuntivi, su un nuovo tesoretto – altra parola magica d’Italia – che forse non esiste nemmeno. Annunci che tuttavia lanciano verso l’esterno la fondata e velenosissima sensazione che l’Italia voglia riprendere l’antica danza della dissipazione economica. Anche Silvio Berlusconi lo ripete ormai spesso ai suoi uomini, come Renato Brunetta: “Bisogna tornare a spendere, per crescere va sforato il rapporto deficit/pil”, come se si potesse farlo sul serio, come se Letta non si fosse già impegnato con gli altri leader di governo, come se il limite del 3 per cento non fosse invalicabile per l’Italia. Così lui, Brunetta, il capogruppo del Pdl, professore, onorevole ed economista nel partito di centrodestra che ha scoperto la sinistra socialisteggiante di Paul Krugman, spiega che “uscire dal rigore più cieco è un dovere” perché “abbiamo pagato a caro prezzo le politiche di Monti. La riforma delle pensioni ha prodotto il guaio tossico degli esodati; il mercato del lavoro è stato reso più rigido, per non parlare dell’Imu e del suo inasprimento”. Segnali allarmanti. E’ antica la tentazione spendacciona della politica, e i grancoalizionisti, nel clima consociativo e un po’ pazzotico di queste strane larghe intese, con Beppe Grillo che vorrebbe dare il reddito di cittadinanza a ogni italiano, “se potessi avere / mille lire al mese…”, incedono volentieri in una vulgata pro populo che offre fondi pubblici per decomprimere la crisi – “settantatré miliardi di grandi opere”, ha detto il ministro Zanonato – ma senza liberismo, guai, nemmeno nel centrodestra, laddove Margaret Thatcher viene pure seppellita con gli onori di madrina culturale: “Leader lungimirante capace di provvedimenti rivoluzionari” (Renato Brunetta, 8 aprile 2013).
L’Europa osserva, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy scrive una lettera per spiegare che la svolta è ancora lontana e che il lavorìo di queste ore non deve ingannare: se mai l’Italia otterrà qualche beneficio dal nuovo clima culturale post austerità, i risultati si vedranno soltanto nel 2014. E nel frattempo, avverte Van Rompuy, i vincoli restano. “La situazione è seria. Il governo non può galleggiare nel consociativismo”, dice Linda Lanzillotta, il vicepresidente del Senato, amica di Mario Monti, che difende l’austerità praticata dall’ex presidente tecnico del Consiglio, cioè “quei sacrifici e quelle politiche che ci hanno permesso proprio in questi giorni di rientrare dalla procedura d’infrazione per eccesso di deficit che l’Europa aveva avviato contro di noi. Non si può tornare indietro, a spendere, per crescere l’Italia deve tagliare la spesa e fare riforme di struttura, e magari anche pagare le tasse” che per gli italiani non sono spese di mantenimento della comunità ma sono viste come balzelli cui è lecito sfuggire; perché nelle tasse c’è quella confusa e mal realizzata idea che la salute, l’ordine pubblico, la scuola, il lavoro siano servizi che lo stato deve garantire e riqualificare.
Ed è sempre stato così, lo raccontava anche Camilla Cederna, negli anni Settanta. Sul treno che viaggia ansante verso Montecarlo, alla stazione di Ventimiglia passa il doganiere italiano: “Valuta niente?”, e come mendicanti offesi, i viaggiatori italiani scuotono il capo con tristezza mormorando dei “no” soffocati. Quando invece, di lì a poco, passa il doganiere francese che chiede: “C’è qualcuno che ha da cambiare mille franchi?”, gli stessi (che scenderanno tutti a Montecarlo) scattano premurosi aprendo dei portafogli gonfissimi. “Heureusement il y à les italiens”, dicono gli abitanti della Costa Azzurra accennando alle loro entrate. Anche allora c’era la crisi, anche allora ci fu l’austerity del 1973-’74, e anche allora si faticava a mettere d’accordo questa esibizione sfrenata di munificità con la crisi economica. Alcuni caratteri non cambiano, così pure i problemi, “per questo abbiamo bisogno di cogliere l’occasione delle larghe intese e avviare riforme di struttura”, dice Lanzillotta.
Eppure la parola “liberalizzazioni” non compare nemmeno una volta nel programma del governo di Letta, e il presidente del Consiglio non l’ha mai pronunciata in nessuno dei suoi discorsi pubblici, né dentro né fuori del Parlamento. Malgrado di liberalizzazioni, per la verità, si parli molto nel lungo documento elaborato ad aprile dai “saggi” voluti da Giorgio Napolitano, il gruppo di facilitatori che doveva preparare la politica italiana alla stagione delle riforme e delle larghe intese, il conclave di uomini ragionevoli da cui Letta ha poi attinto più di un ministro. Il documento dei saggi individuava un’enormità di “settori di particolare rilievo che consentono interventi realizzabili nel breve termine”. Citati in ordine sparso dal testo del documento: scorporo delle ferrovie, “dove al medesimo soggetto è riconducibile la rete e la gestione del servizio”; settore delle assicurazioni Rc auto che “appare caratterizzato da elementi che condizionano il pieno dispiegarsi delle dinamiche competitive”; il mercato elettrico che “è un mercato liberalizzato, ma nel settore della vendita al dettaglio esiste ancora un grado di concorrenza modesto”; approvvigionamento di gas perché “la rigidità dell’offerta ‘a monte’ mantiene i prezzi alti e ostacola la concorrenza nei mercati ‘a valle’”; settore farmaceutico dove “si riscontrano ancora rilevanti ostacoli all’ingresso dei farmaci generici con aggravio della spesa a carico del Servizio sanitario nazionale e di quella sopportata dai consumatori”; settore postale dove “andrebbe ridefinito l’ambito del servizio universale riservato a Poste italiane e andrebbero migliorate le condizioni alle quali gli altri operatori possono accedere alla rete dell’operatore dominante”; servizi pubblici locali “(rifiuti, acqua, trasporto urbano, illuminazione etc.) dove prevale la formula secondo la quale gli enti locali gestiscono il servizio tramite una società da essi direttamente controllata”. Indicazioni, queste dei “saggi” sulle liberalizzazioni, che nel documento vidimato dal Quirinale si concludono poi con una esortazione quasi scolastica: “La concorrenza aumenta il benessere dei consumatori, perché accresce le loro possibilità di scelta e porta una riduzione dei prezzi, e costituisce un potente catalizzatore per l’innovazione, che è uno strumento fondamentale per rafforzare la crescita e la competitività”. Altro che spesa pubblica.
Come dice Linda Lanzillotta: “Noi dovremmo imparare una cosa dai tedeschi, la ricchezza non cresce sugli alberi e non c’è premio senza sforzo”. Anche la Germania ha avuto l’euro e poi la grande coalizione, proprio come l’Italia, ma ne è venuta fuori più forte di prima. Dopo le dure riforme di Gerhard Schröder, il paese invecchiato e lento ha usato la grande coalizione (non di Pd e Pdl, ma di Spd e Cdu) per consolidare gli interventi impopolari eppure salvifici. Solo chi ha sofferto e sudato, chi ha fatto le riforme mentre gli altri spendevano inerti, chi ha riunificato un paese a brandelli, sa da quale tremendo pozzo di sacrifici derivino quella ricchezza e quella forza che oggi si riflettono nel mondo attraverso i nomi di Volkswagen e ThyssenKrupp, di Mercedes Benz e Siemens e Bosch e Carl Zeiss, tecnologia e acciaio, software e automobili, innovazione e complessa modernità, componentistica d’avanguardia. Persino la Grecia, dopo la cura da cavallo, dà qualche significativo segnale di ripresa.
Intanto, in Italia, dove l’austerità è evidentemente materia controversa, il ministro del Lavoro Giovannini ha avviato il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, primo provvedimento corposo del governo. Si tratta di circa un miliardo di euro. E Letta ha pure ripreso l’antico balletto delle consultazioni sindacali, con “le parti sociali”, ha incontrato i segretari della Cisl e della Cgil, perché gli ammortizzatori sono una priorità, i lavoratori disoccupati vengono sostenuti col denaro pubblico, assistenza per la sussistenza, com’è sempre stato soprattutto al sud governato dalla Democrazia cristiana, mollichine di pane fatte scivolare a terra, come raccontava Vicenzo Consolo con lo sguardo smarrito sulla massa derelitta che abitava il grande palazzo grigio dell’Inps di Palermo, in fondo a via Laurana, “un’umanità scarnificata che non si sa se ridotta tale dai sussidi o in procinto di salvarsi con essi”.
La salvezza di questa umanità si svolgeva a balze, a tappe, per i sei piani dell’edificio e per le stazioni dei vari sportelli, come in una Via Crucis o in una salita del purgatorio verso il paradiso. Il boccone del povero. E dunque la nazione meridionalizzata si accontenta delle briciole carambolate giù dal desco imbandito di populismo e non insegue l’orizzonte faticoso delle riforme che portano alla vera ricchezza, non rinuncia ai piccoli privilegi miserabili, vive come una minaccia l’idea di quei sacrifici che pure farebbero ripartire l’economia stanca della nazione sfinita. E perché mai dunque dovrebbe sorridere, amorevole e comprensiva, la signora Merkel?

sabato 25 maggio 2013

Basta lagna, e avanti con quel po’ di “giungla mercatista” che vi serve, di Marco Valerio Lo Prete


Datti una mossa, Italia

Roma deve risolvere i suoi problemi da sola, e guardare ben oltre Berlino. Parla Dadush, Carnegie Endowment

La Germania durante questa lunga crisi dell’economia non avrà brillato per leadership e inventiva, l’architettura istituzionale dell’euro sarà pure deficitaria e gestita da capi di governo che sembrano dei “sonnambuli”, come li dipinge la copertina dell’Economist di oggi, ma l’Italia non deve cercare scuse al di là dei suoi confini. Deve aggredire i propri problemi da sola, ripensando le sue “istituzioni” e alcune sue abitudini “culturali”. In sintesi, secondo Uri Dadush, direttore del programma di Economia internazionale al Carnegie Endowment for International Peace di Washington, si tratta di ammettere che è meglio “un po’ di giungla” oggi, cioè drastiche riforme pro libero mercato qui e ora, invece che una stagnazione garantita per i prossimi anni.
Attento conoscitore delle vicende europee, Dadush ci parla nel suo ufficio al quarto piano della palazzina del Carnegie a Washington, alternando senza problemi risposte in italiano e in inglese (conosce anche francese ed ebraico): “Non credo alla vulgata secondo la quale tutti i punti di forza europei sarebbero d’un tratto andati persi – esordisce –. Certo, l’Italia ha fatto meno passi avanti sul fronte della competitività, che è alla base di questa crisi europea, rispetto a Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo”. Tasso di cambio effettivo e costo unitario del lavoro, per esempio, sono migliorati di poco o nulla nel nostro paese. “In compenso Roma ha fatto più di altri sul fronte dell’aggiustamento fiscale. In Europa c’è stata a lungo un’enfasi eccessiva sul rigore dei conti; complice la pressione dei mercati internazionali, la questione fiscale è diventata più urgente, anche se in realtà sarebbe stato più importante recuperare competitività”.
Dadush, già direttore per il commercio internazionale e poi per la politica economica alla Banca mondiale, ricorda che in quell’organizzazione internazionale si distingue tra riforme di “prima” e “seconda generazione”: “Le prime si fanno con un tratto di penna, come l’aumento delle tasse o la liberalizzazione del commercio con l’estero. Le seconde comportano la liberalizzazione del mercato interno e sono più difficili da portare a termine perché colpiscono interessi specifici e concentrati che si oppongono duramente”. L’economista fa l’esempio dei notai in Italia, o della riforma del mercato del lavoro. Poi suggerisce che i nostri leader dovrebbero, per superare questo tipo di veti, offrire uno “scambio” all’opinione pubblica: “Più flessibilità dell’economia nel breve termine, pure a costo di subire un significativo impatto sociale delle riforme, in cambio di risultati nel medio e lungo periodo”.
Tale scambio non sarà facile “in paesi come l’Italia o la Francia, dove ci sono resistenze anche culturali – dice Dadush – Per voi oggi sarebbe impossibile rispondere alla crisi con la velocità con cui lo hanno fatto gli Stati Uniti. Quella americana è ancora l’economia più flessibile che conosca al mondo”. E non è un caso che negli Stati Uniti lo sviluppo sia tornato a farsi vedere prima. In America le regole del mercato del lavoro sono “di fatto inesistenti. Se il mio capo domani mi vuole licenziare – dice Dadush indicando la porta – mi può mandare via senza dare spiegazioni. E ciò non è dovuto soltanto al ruolo limitato dei sindacati”.
E’ invece questione di istituzioni e norme che facilitano il processo di “distruzione creatrice” del capitalismo: “Il mercato immobiliare americano sta subendo un rapido processo di aggiustamento, dopo essere affondato e aver generato la crisi del 2007-2008, grazie a regole chiare e semplici. Qui, se un cittadino non riesce a pagare il mutuo sulla sua casa, magari perché d’un tratto l’immobile vale meno del debito contratto con la banca, l’istituto di credito può rivalersi soltanto sull’immobile e non può aggredire tutto il patrimonio dell’individuo. Così da una parte le banche ritornano facilmente in possesso della casa, che comunque vale meno di prima, senza le lungaggini tipiche dell’Europa, dall’altra parte le persone possono tentare di ricominciare un’altra vita”.
Subentra dunque un fattore culturale: “Gli individui, semplicemente, si muovono più rapidamente, sono pronti a farlo. Questa è una giungla, un posto che può essere freddo e inospitale ma nel quale il più ‘adatto’ può sopravvivere. Non è un modello perfetto, ma l’Italia ha bisogno di farsi contagiare un po’ da tutto ciò”.
Nel dibattito pubblico italiano e – seppure per motivi spesso diversi – anglosassone si rafforzano però le voci critiche verso l’Unione europea e il suo paese leader, la Germania. “Dividerei la responsabilità della situazione attuale al 50 per cento tra cause di origine domestica e debolezze della governance europea – replica Dadush – Se non contasse la situazione interna ai singoli paesi, non si spiegherebbe perché l’Italia non cresce da prima della crisi, la Germania sta resistendo così bene e la Spagna sia affondata in breve tempo. Detto ciò, l’architettura istituzionale dell’euro conta eccome. L’Europa non attraversava una crisi dei debiti sovrani da quasi un secolo, dunque pesano l’assenza di un governo politico ed economico centrale, la mancanza di trasferimenti fiscali automatici ai paesi in difficoltà, le debolezze della Banca centrale europea e l’inesistenza di un’Unione bancaria”.
Dadush, in uno studio del 2012 intitolato “Club Med vs. Sun Belt”, ha osservato che Florida, Arizona e Nevada (gli stati americani della “Cintura del sole”) sono passati attraverso l’esplosione di un’enorme bolla immobiliare proprio come Grecia, Irlanda e Portogallo, soltanto che i primi ne sono usciti rapidamente, facendosi forti dei meccanismi federalisti di quella unione monetaria che sono gli Stati Uniti. “Alla Germania nel complesso darei un sei e mezzo per la gestione della crisi. Ha fatto passi verso l’integrazione che oggi sottovalutiamo: si pensi all’istituzione dei Fondi salva stati, al via libera all’operato della Bce. Certo, Berlino poteva e doveva essere più aggressiva, anche lasciando aumentare l’inflazione interna, ma il paese più forte ha sempre meno incentivi a muoversi come gli chiedono di fare i più deboli”, conclude Dadush. E così si torna alla ineludibile sfida riformatrice da combattere nei nostri confini.

martedì 21 maggio 2013

Krugman è solo il boy di Obama


Alesina (bocconiano di Harvard) risponde al Nobel liberal

“Non esistono i ‘Bocconi boys’, è soltanto una boutade di Paul Krugman per inventarsi un nuovo bersaglio e una nuova polemica. Ma non si capisce la polemica se non ci si decide a spiegare chi è, oggi, Krugman”. Alberto Alesina, economista laureato alla Bocconi ma docente a Harvard, parla con il Foglio in tono pacato, ma tagliente. E dunque, Krugman? Premio Nobel nel 2008, capofila degli antirigoristi che oggi si prendono parecchie rivincite specie in Europa… “Errore. La questione va divisa in tre. Paul Krugman è diventato popolare in Europa per le sue battaglie anti Merkel, più mediatiche che scientifiche. Ma il suo vero teatro di guerra è negli Stati Uniti, dove una parte della comunità accademica, e anche politica, lo considera un estremista. Nel senso delle idee, ovvio”. Addirittura professore? “Sì, perché bisogna capire che oggi l’intero dibattito americano è dominato dalla diatriba tra democratici e repubblicani intorno ai tagli di spesa, ai quali Barack Obama contrappone l’aumento delle tasse. Uno scontro duro che spacca il Congresso, il paese, i mass media. Ecco, Krugman è un estremista obamiano, un liberal nella sua accezione più cruda, ha sposato in pieno la causa attuale della Casa Bianca, intende applicarla a tutto il mondo e trovare ovunque le prove, le impronte digitali, di un grande complotto che verrebbe ordito contro le meraviglie della politica del fiscal spending”. La polemica è il sale del dibattito accademico, però. “Ecco, questo è il terzo aspetto. Non è più uno scontro di idee, ma di ideologie e preconcetti. O sei con Paul Krugman, o sei contro di lui, e di conseguenza sei anche contro il benessere sociale, l’equità e tutto il resto”.
Krugman però – recensendo l’ultimo saggio del politologo Mark Blyth, “Austerity” – cita un fatto specifico: un suo paper del 2009-2010, scritto assieme a Silvia Ardagna, entrambi ex bocconiani, fornì il fondamento alle politiche restrittive imposte dall’allora governatore della Bce, Jean-Paul Trichet. Vi accusa di avere teorizzato l’austerità espansiva, che poi si è rivelata austerità e basta. “Allora andiamo a rileggerci quelle carte. Il nostro studio, basato sull’analisi delle economie dell’area Ocse dal 1970 al 2007, era intitolato ‘Taxes versus spending’. Chiaro no? Criticavamo il ricorso alla spesa pubblica a pioggia, dicendo che bisognava tagliare quella e ridurre le tasse. Chi riduce le tasse è un rigorista?”. E’ un fatto però che l’allora presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, abbia citato proprio Alesina e Ardagna per sostenere l’austerity: “Trichet faceva il presidente della Bce, nei limiti che conosciamo del suo mandato. Ipotizzare un complotto Harvard-Bocconi-Francoforte-Berlino è ridicolo. Del resto anche la famosa lettera della Bce al governo italiano non chiedeva aumenti di tasse, ma tagli di spesa pubblica. Come quella lettera sia stata messa in pratica non ci riguarda, anche se abbiamo un’opinione che smentisce di nuovo Krugman”. Nel senso? “Il 17 maggio scorso, con Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, abbiamo chiesto a questo governo italiano di non limitarsi a rispettare il deficit del tre per cento uscendo dalla procedura di disavanzo, ma di osare di più, negoziando per ottenere la proroga concessa a Francia e Spagna. Così da avere più fondi e tempo per impostare una strategia economica che non fosse al solito dettata dall’urgenza. Questa sarebbe la nostra sudditanza verso il rigore? Noi vogliamo meno tasse e meno spesa pubblica: proprio il contrario di Krugman. Ma lui, ripeto, guarda agli Stati Uniti, l’Europa è un pretesto”. Insomma, dice lei, una faccenda americana travestita dalle grane europee? “E’ così. In America la politica si fa sull’economia, lo scontro è tutto fra tasse e tagli di budget, Krugman si è messo ventre a terra con Obama. In questo il suo estremismo va oltre il keynesismo, adotta l’intolleranza come metodo, sfiora il pop come esposizione mediatica. Sa, chiedere di aumentare la spesa pubblica finanziandola con le tasse, negli Stati Uniti non è mai molto popolare. Allora, magari, bisogna inventarsi altro. Magari un complotto”. Prima c’era stato il caso Kenneth Rogoff-Carmen Reinhart: “Molto diverso. Il loro è un modello econometrico che peraltro solo in minima parte ha rivelato un errore. Ma si può dire che un debito del 130, 150, 200 per cento del pil è cosa buona e giusta?”. Però anche il Fondo monetario internazionale, con il rapporto del suo capo economista Olivier Blanchard, ha fatto parziale autocritica sul rigore. “No, il Fmi ha verificato che un eccesso di consolidamento di bilancio produce effetti moltiplicatori sul pil molto maggiori di quanto stimato. Ma il consolidamento come lo si ottiene? Noi abbiamo posto l’alternativa più tagli-meno fisco. Io sono d’accordo con Blanchard sulle ricadute negative delle troppe tasse: Paul Krugman vuol venire qui a spiegare perché secondo lui si devono invece aumentare?”.

giovedì 16 maggio 2013

Altro che Imu, gli investitori guardano a debito e demografia, di Francesco Galietti


Per i mercati (e per Berlino) deficit, Imu e debiti della Pa sono marginali. Il problema è l’imbolsito welfare state italiano

I mercati osservano il governo Letta.Apprezzano la sintonia con l’eurocrazia di Bruxelles e il filo diretto con la Banca centrale europea, ma seguono l’iter legislativo dei primi provvedimenti governativi, vero banco di prova del nuovo esecutivo. A tenere alta l’attenzione è soprattutto il nodo dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione su cui il precedente governo non è riuscito a far quadrare il cerchio. La partita è complessa, vengono al pettine le peculiarità dell’architettura politico-economica italiana: spicca la dialettica centro-periferia, con larga parte del debito generato localmente, e le stesse regole ideate per arginare la spesa fuori controllo della periferia, come il Patto di stabilità, rappresentano strozzature per chi deve restituire ossigeno ai suoi creditori.
In seconda battuta, fa bella mostra di sé per il suo peso la spesa socio-sanitaria,inevitabile tratto distintivo di un welfare state forse non bismarckiano ma certo in linea con le esigenze di una popolazione numerosa e senescente e perciò bisognosa di cure e assistenza. Gli investitori istituzionali tendono a mettere a fuoco quest’ultimo aspetto più del primo: ritengono che la partita sul finanziamento del welfare state sia molto più ampia di un semplice accordo sblocca-debito a Bruxelles e a Francoforte. Sul debito della Pa, insomma, i grandi investitori internazionali usano lenti diverse da quelle italiane. In Italia si attribuisce grande rilievo agli umori politici tedeschi e dunque si adotta un calendario a 6-9 mesi le cui tappe sono le elezioni tedesche (fine settembre) e la pronuncia della Corte costituzionale tedesca (giugno), chiamata dalla Bundesbank a esprimersi sulla legittimità dell’Omt di Mario Draghi.
I mercati invece guardano al lungo periodo, si concentrano sul progressivo smantellamento del welfare state. La considerazione da cui muovono è che stiamo rapidamente avvicinandoci al punto in cui le coorti produttive si troveranno gravate di colpo dei costi dei baby boomer, più numerosi e meglio pagati. In occidente, specie in Europa, questo fenomeno demografico comporterebbe un formidabile boom nei conti pubblici e un contestuale rigonfiamento nei debiti sovrani. Alcuni paesi sono stati più lungimiranti nel riconoscere l’inevitabilità del progressivo ritiro dello stato preparando le condizioni ottimali per l’intervento privato. Per predisporre l’opinione pubblica a questa “mutazione genetica”, il maggiore intervento privato è stato presentato come una forma di neofilantropia su vasta scala (social impact finance). Su questo fronte si muovono iniziative come la Big Society britannica o i programmi della Rockefeller Foundation. Il messaggio di questi pensatoi è che i privati dovranno svolgere sempre di più funzioni pubblicistiche e subentrare allo stato nello sviluppo di infrastrutture.
Non viene esplicitato, ma la mancanza di questa surroga incrinerebbe pericolosamente l’ordine e “slavinerebbe” in fenomeni di malessere sociale: i Paperoni intervengono non (solo) per generosità, ma per difendere l’ordine in cui si sono arricchiti. Le dimensioni del debito italiano e l’esiguità dell’indebitamento privato dicono quanto l’Italia sia legata al proprio welfare. E’ prevedibile che la politica sia restìa a rinunciarvi: ci sono difficoltà enormi e interessi crescenti nel mondo delle cooperative bianche e rosse. La resistenza si spiega anche con una ragione esistenziale: la sanità è una delle principali “contropartite” che lo stato offre ai cittadini che si vedono imporre tasse elevatissime. Se viene meno questo “patto”, su che basi lo stato potrà fondare la propria autorità?

martedì 14 maggio 2013

Resistenza a Berlino, di Giovanni Boggero


L’austerity in Germania non è messa in dubbio, ora si dice che il problema è l’impegno dei governi

A quattro mesi dalle elezioni federali tedesche, il governo cristiano-liberale di Angela Merkel figura ancora – nei principali giornali internazionali e nelle riflessioni di numerosi economisti di tutto il mondo, soprattutto anglosassoni – come il principale ostacolo all’ammorbidimento delle politiche di austerità negli stati membri entrati in recessione. Ieri Carlo Cottarelli, direttore del dipartimento Affari fiscali del Fondo monetario internazionale, ha detto che “l’Italia ha già completato il grosso dell’aggiustamento di bilancio, insieme alla Germania”. Tuttavia nel paese guida dell’Eurozona le crepe nel fronte politico-intellettuale che sostiene il risanamento incondizionato dei conti pubblici sono molto meno visibili. A Berlino e dintorni, infatti, non si mette tanto in dubbio il rigore fiscale in sé, quanto tutt’al più il livello di impegno che i paesi in difficoltà hanno messo nel portare a termine il pareggio di bilancio e le necessarie riforme. Così l’esecutivo teutonico, sotto pressione da parte di tutte le principali organizzazioni internazionali che chiedono di diluire un po’ nel tempo le politiche dell’austerity, sta ora cercando di utilizzare gli strumenti diplomatici e retorici atti a non compromettere del tutto il percorso di risanamento negli stati membri più indisciplinati e, allo stesso tempo, idonei a evitare un contraccolpo elettorale in patria a favore di chi cavalca i sentimenti euroscettici.
Da un lato, Merkel ha quindi dato il suo benestare alla recente decisione della Commissione europea di concedere più tempo a Francia e Spagna per riordinare i propri conti pubblici; dall’altro, vuole far capire ai propri partner europei di essere disponibile a politiche mirate non più esclusivamente al risanamento delle finanze pubbliche. Tale doppio messaggio è filtrato anche a margine del vertice dei ministri delle Finanze del G7, tenutosi a Londra il 10 e 11 maggio scorsi. In tale occasione, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble (Cdu), ha sostenuto che l’Europa avrebbe ormai ampi margini di manovra per valutare le politiche economiche degli stati membri. In altre parole, la Commissione europea non sarebbe vincolata ad alcun rigido parametro nel valutare le performance economiche dei singoli stati membri in una situazione di recessione. Schäuble ha poi smentito di aver mai suggerito misure di sola austerity ai paesi in crisi.
La distinzione è sottile, forse impercettibile. Ma in Germania anche autorevoli istituti tedeschi di ricerca economica un tempo alfieri del rigore stanno ora assumendo una posizione più temperata, favorevole alla nuova linea della “flessibilità mascherata da ortodossia”. In un editoriale pubblicato sul quotidiano economico Handelsblatt la scorsa settimana, l’economista Jürgen Matthes, dell’Institut der deutschen Wirtschaft di Colonia, ha sostenuto che le riforme approvate nei Piigs sembrano in realtà destinate a dare i loro frutti. Ragion per cui gli “sconti” accordati ad alcuni di loro in termini di risanamento sarebbero in parte giustificati. Similmente, in una lettera indirizzata al Financial Times per difendere le virtù del modello tedesco dagli attacchi di Martin Wolf, ieri i capo economisti di Unicredit, Erik Nielsen e Andreas Rees, hanno messo in luce i progressi fatti in alcuni stati membri, tanto che gli squilibri commerciali tra centro e periferia si sarebbero notevolmente ridotti.
Altri osservatori, come Jörg Krämer, capo economista di Commerzbank, sono invece convinti che gli stati membri in crisi abbiano attuato un’austerità sbagliata, sensibile soltanto al raggiungimento di un determinato saldo di bilancio e non al miglioramento della competitività del sistema produttivo. Viceversa, vi sarebbe un’austerity virtuosa, fatta di riforme strutturali e ancora largamente inesplorata dagli stati della periferia. Tale leitmotiv è alla base anche di un dossier riservato della Cancelleria, di cui ha dato notizia il sito online del settimanale Spiegel. In esso, i tecnici della Merkel avrebbero messo in luce alcuni successi nelle riforme approvate dagli stati membri, ma avrebbero anche sottolineato i fallimenti di una politica di austerità orientata solo a fare cassa e non alla proverbiale cultura della stabilità (Stabilitätskultur). In Francia, ad esempio, sarebbe stato dato troppo spazio all’aumento della pressione fiscale, mentre in Italia troppo poco sarebbe stato fatto sul fronte della liberalizzazione del mercato del lavoro. Quanto a Roma, spicca invece il giudizio positivo sulla liberalizzazione degli orari del commercio. Insomma, lungi dal rinunciare a prescrivere al resto d’Europa la ricetta adeguata per uscire dalla crisi, la Germania sta tentando di soddisfare le richieste di chi, come ancora in questi giorni gli Stati Uniti, invoca una politica per la crescita nell’Eurozona.

lunedì 13 maggio 2013

La vergogna della scienza che vuole l'aborto libero, di Giuliano Ferrara

È sacrosanto marciare contro la legge 194. Però serve di più: è un infanticidio e chi lo istiga deve essere denunciato

Voglio denunciare per istigazione a delinquere (articolo 414 codice penale) due ricercatori italiani che lavorano a Melbourne. Odio i reati di opinione, a meno che siano reati di tipo omicidario. Detesto le persecuzioni giudiziarie di chi dica quel che pensa, a meno che il pensiero espettorato a mezzo bocca o a mezzo stampa non sia il riflesso del pensiero dominante, nichilista, nella forma più cinica e moralmente sordida. Il reato istigato è l'infanticidio (articolo 578 codice penale, nel testo modificato dalla legge 5 agosto 1981, numero 442). Sulla morte dei bambini non nati o appena nati, morte procurata per ideologia, si può marciare, chiedere moratorie, digiunare, presentare liste alle elezioni politiche, invocare referendum, proporre nuove norme di diritto in Italia e nel mondo, fare tante altre commendevoli cose e prendersi le sassate del tempo, ma non si può tacere. E, forse, bisogna procedere in giudizio. Specie ora che la linea rossa del rispetto della vita altrui, già violata ampiamente dalla sordità morale in materia di aborto, è riclassificata nel pensiero eugenetico più radicale e moderno, quello che ancora non si porta tra la gente perbene, ma tra poco sarà una moda prêt-à-porter. Nel nome della differenza di genere, della libertà procreativa, del diritto a un bimbo sano e bello e della equiparazione logica dell'aborto prima della nascita con l'infanticidio dopo la nascita.
Alberto Giubilini e Francesca Minerva, in un recente articolo scientifico del Journal of medical ethics, sostengono, in quello che definiscono un «articolo accademico», la seguente tesi: abbiamo stabilito che per ragioni varie, dalle cattive condizioni economiche e psicologiche della gestante e della sua famiglia alla eventuale disabilità potenziale o effettiva del feto, è moralmente giustificabile annientare un non ancora nato; il corollario della tesi è che anche i neonati condividono la statuto di non persona, in senso razionale e volitivo, e quindi, sulla base delle stesse identiche ragioni, ciò che è possibile per i non nati, l'aborto, è possibile e moralmente giustificato anche per neonati, abortion after birth.
Questi ricercatori non sono isolati nel loro pensiero omicidario detto «utilitaristico», fanno parte di una Università e di un centro diretto da un filosofo o eticista che si chiama Peter Singer, uno che è generalmente stimato come una voce importante nel nostro panorama culturale, uno che chissà come, chissà quando, magari potrebbe vedersi rifilato un Nobel. Il principio da cui partono questi medici che tolgono la vita o istigano a togliere la vita, il che è moralmente lo stesso e giuridicamente è un sostegno a comportamenti annichilatori aggravato dalla competenza della fonte e dal suo rilievo sociale (lo scienziato), è lo stesso da cui mi è capitato di partire nella mia lotta contro l'aborto seriale, di massa, eugenetico e selettivo. Polemizzando con il senatore Luigi Manconi, dissi una volta che nel caso dell'aborto di massa oggi legittimato si tratta in realtà di infanticidio, perché lo statuto di persona umana del feto, dal momento del concepimento e poi nella crescita intrauterina, è dimostrato dalla ricerca empirica sui cromosomi e poi, in modo spettacolare e insostenibile, dalla capacità di fotografarlo in pancia addirittura con mezzi tridimensionali. Fui oggetto di una dura reprimenda per il paragone.
Ora questa equiparazione, che per me ovviamente valeva in quanto dissuasiva dell'aborto, è usata a mani basse, con le tutele della ricerca scientifica, ma nel senso opposto. Se c'è equiparazione, niente vieta che, in relazione non soltanto a eventuali disabilità, ma anche alle altre ragioni sociali e psicologiche «soppressive» di una discendenza generata nell'amore o comunque nell'atto sessuale, si proceda liberamente all'eliminazione della vita. Non quella nascente, quella nata o neonatale.
Brava gente orante e sincera ha sfilato per le vie di Roma contro la manipolazione indifferente della vita umana. Ciascuno ha le sue idee, le sue sensibilità, ci sono gli individui, le famiglie, le donne cariche di speranza e di libertà, i maschi che capiscono il carattere maschio e arrogante del fenomeno della indifferenza all'aborto, c'è la chiesa cattolica, ci sono i movimenti pro life. La mia è una sensibilità del tutto laica, del tutto razionale, moralmente giustificata dal rigetto della casistica più infame dai tempi in cui Pascal la denunciava nel Seicento come obbrobrio della cristianità ovvero dell'umanità nelle sue lettere dette le Provinciali.
Bisogna tornare non tanto a indignarsi, a scandalizzarsi, a ribellarsi, ma ad agire in modo coerente e congruo contro l'istupidimento criminale del pensiero e della prassi umana moderne e post-moderne. Bisogna ribadire che nessuna donna deve essere penalmente perseguita per un aborto, e nessun medico, ma al di là dell'obiezione di coscienza e del foro interiore, esiste in termini espliciti e pubblici, in punto di diritto, un dovere di intervento, chiamatelo umanitario se volete, che porta inevitabilmente a battersi con ogni mezzo lecito contro la peste del XXI secolo: l'offesa concettuale e pratica alla vita degli altri, ai deboli, ai poveri dei poveri, ai senza potere.
Ha senso considerarsi esseri razionali e animali politici e non capire che, comunque giustificato, l'infanticidio, variante postmodernista dell'aborto di massa, è un delitto contro la nostra comune natura umana?
http://www.ilfoglio.it/soloqui/18166

sabato 11 maggio 2013

Ma il sindacato vuole l’innovazione?, di Alberto Galasso


L’innovazione è il principale motore per la crescita economica. Ma creare un sistema di imprese che investano e scommettano sulla ricerca non è cosa semplice e richiede il contributo di tutte le parti sociali. Anche il sindacato dovrebbe perciò riflettere sugli effetti delle richieste che avanza.
LA LEZIONE DI MARGARET THATCHER
Margaret Thatcher passerà alla storia per aver combattuto e vinto una lunga battaglia contro isindacati del Regno Unito. Uno dei principali motivi di scontro tra la Iron Lady e le Trade Unions fu la forte opposizione dei sindacati all’adozione di nuove tecnologie che aumentano la produttività delle imprese a scapito di posti di lavoro. Per esempio, negli anni Ottanta il sindacato inglese si oppose con forza al passaggio dalla fotocomposizione al computer nella produzione di giornali. Allo stesso modo, il sindacato ostacolò un aumento nell’automazione nelle miniere. È interessante vedere come oggi, in Italia, siano i sindacati ad accusare i manager di non adottare nuove tecnologie. Nel suo recente intervento alla conferenza di programma Cgil, la segretaria generale Susanna Camusso ha sottolineato che in Italia c’è la necessità di “un sistema di imprese che tornino a investire e scommettere sull’innovazione”. Pure il segretario generale Fiom Maurizio Landini ha più volte posto l’accento sulla scarsa propensione di Fiat a puntare sull’innovazione e sulla ricerca.
L’innovazione è effettivamente il principale motore per la crescita economica di imprese, industrie ed economie nazionali. Le nuove tecnologie, aumentando la produttività delle imprese, rendono possibili aumenti salariali e riduzioni delle giornate lavorative. L’introduzione di nuovi prodotti aiuta le imprese a guadagnare quote di mercato e ad assumere manodopera. Ovvia è dunque la richiesta da parte dei sindacati a innovare di più, a investire in ricerca, a sviluppare nuove tecnologie e a lanciare nuovi prodotti. Comprensibili inoltre le accuse al top management di non investire in ricerca e di non scommettere adeguatamente sull’innovazione. Ma se un’impresa non investe in innovazione è esclusivamente colpa dei manager? Va esclusa la possibilità che una forte presenza sindacale abbia effetti negativi sulle strategie innovative di un’azienda?
ESEMPI AMERICANI
Sono al corrente di tre studi che hanno esaminato la relazione tra sindacato e innovazione negli Stati Uniti. Tali studi hanno dato risultati simili: più forte è la presenza sindacale in un’impresa, minore è la performance innovativa della stessa. (1) Nel più recente, si guarda alle conseguenze dell’introduzione della rappresentanza sindacale sugli investimenti nella ricerca e sulla propensione a ottenere brevetti. Lo studio è concentrato sul periodo che va dal 1977 al 2010. Gli autori comparano imprese in cui la costituzione di un sindacato è approvata solo per pochi voti con aziende simili in cui la votazione ha dato esito negativo solo per pochi voti. Questa metodologia, e altri test statistici condotti nello studio, suggeriscono che non è un calo della performance innovativa a generare una crescita nella rappresentanza sindacale, bensì è la rappresentanza sindacale a causare meno innovazione. Secondo le stime dello studio, quando i lavoratori di un’impresa costituiscono un sindacato si verifica una riduzione nel numero di brevetti ottenuti dall’impresa dell’ordine di 20-40 per cento all’anno. Allo stesso modo, la desindacalizzazione di un’impresa genera un incremento del 15-25 per cento nel numero di brevetti. Inoltre, la presenza sindacale non è associata a una riduzione negli investimenti in ricerca e sviluppo, ma è accompagnata da una forte riduzione nella produttività degli investimenti stessi. Si osservano meno brevetti per dollaro investito in ricerca, e i brevetti ottenuti sono di minor qualità e hanno un impatto tecnologico più modesto.
Questi studi offrono solo qualche congettura sui precisi meccanismi per cui la presenza sindacale abbia un effetto così negativo sulla performance innovativa. Da un lato, ci può essere una naturale tendenza da parte dei sindacati a ostacolare lo sviluppo e l’adozione di tecnologie che richiedono unariqualificazione professionale o che possono generare una perdita di posti di lavoro. Dall’altro, è possibile che una forte presenza sindacale crei eccessiva omogeneità nelle remunerazioni aziendali e non permetta di offrire strutture salariali che incentivino creatività e innovazione.
Tutti questi studi sono basati su dati americani, è ancora da valutare se l’effetto sia simile sulle aziende europee o italiane. (2) Ciò nonostante, penso che i risultati debbano far riflettere. È chiaro che l’innovazione è fondamentale per la crescita economica e per il benessere dei lavoratori. La letteratura economica ha pure dimostrato che la scelta e la remunerazione del top management hanno un ruolo fondamentale per la performance di un azienda e il suo successo innovativo. (3)Tuttavia, creare un sistema di imprese che investano e scommettano sull’innovazione non è cosa semplice, e richiede il contributo di tutte le parti sociali. Un’importante lezione che Margaret Thatcher ci ha insegnato è che non solo il governo e i top manager, ma anche il sindacato deve riflettere sull’effetto delle proprie richieste sulla propensione a investire in ricerca da parte di aziende, università e altre entità innovative.
(1) Hirsch, B. and A. Link, 1987, “Labor union effects on innovative activity”, Journal of Labor Research 8, 323-332; Acs, Z and D. Andreutsch, 1988, “Innovation in large and small firms: an empirical analysis”, American Economic Review 78, 678-690; Bradely, D., I. Kim and X. Tian, 2013, “Providing protection of encouraging holdup? The effects of labor unions on innovation”, working paper, Indiana University.
(2) Van Reenen, J. and N. Menezes-Filho, 2003, “Unions and innovation: a survey of the theory and empirical evidence”. In: Addison, John T and Schnabel, Claus, (eds.) The international handbook of trade unions, Edward Elgar, Cheltenham, 293-335.
(3) Bertrand, M. and A. Schoar, 2003, “Managing with style: the effect of mangers on firm policies”, The Quarterly Journal of Economics 118, 1169-1208.

Sinceri democratici e infanticidi, di Giulio Meotti


I bei curricula di Giubilini e Minerva, teorici dell’aborto post natale

Un anno fa l’accreditata rivista Journal of Medical Ethics ha pubblicato l’articolo di due ricercatori italiani di bioetica presso le accademie australiane, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, dal titolo “L’aborto post natale: perché il bambino deve vivere?”. Avvenire parlò di un “crepuscolo disumano della civiltà occidentale”, ma anche un filosofo della scienza come Giulio Giorello disse che “è evidente quali cupi scenari evochi una simile visione del mondo”. La tesi del documento, il più discusso di bioetica nell’ultimo anno, è semplice: alle stesse condizioni per cui si uccide il feto nel grembo della madre dovrebbe essere permessa la soppressione dei bambini appena nati. Dopo aver ricordato che l’aborto è lecito e legale per ragioni che non riguardano la salute del feto e dopo aver “dimostrato” che i feti e i neonati hanno lo stesso status morale di “non persona”, Giubilini e Minerva concludono che la soppressione di un neonato è ammissibile in tutti i casi in cui lo è l’aborto.
Il Journal of Medical Ethics ha appena dedicato alla tesi dei due italiani una monografia con una trentina di interventi, fra questi ce n’è uno nuovo dei due ricercatori nel quale loro ribadiscono la liceità dell’uccisione dei bambini appena nati in ogni circostanza. La loro giustificazione dell’assassinio dei neonati è aggravata dal fatto che Giubilini e Minerva sono esponenti del mainstream bioetico italiano (il primo pubblica con la casa editrice Le Lettere).
In passato Giubilini e Minerva sono stati invitati all’Università Vita-Salute del San Raffaele per una conferenza sullo “status morale del feto”, evento presenziato da Roberto Mordacci, docente presso l’ateneo fondato da don Luigi Verzé. I due ricercatori vantano dottorati in due tra le nostre migliori università: Bologna e Milano. Giubilini ha scritto per l’Unità, il giornale del Partito democratico dove ha firmato editoriali contro l’obiezione di coscienza dei medici nel caso dell’aborto. Giubilini pubblica anche su Critica liberale, il mensile azionista diretto dal giornalista del Corriere della Sera Enzo Marzo e animato da Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, e di cui hanno fatto parte anche Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Paolo Sylos Labini.
Giubilini ha tenuto conferenze all’ospedale Molinette di Torino sul tema “Quanto costa la vita?” e alla Sapienza di Roma su “Nascita e terapie neonatali”. Lo sdoganamento accademico dei teorici dell’infanticidio è totale. Minerva e Giubilini, che hanno partecipato alla promozione del libro di Beppino Englaro, “La vita senza limiti”, sono legati a due fra i maggiori centri della bioetica laica: Politeia e la Consulta di bioetica (della seconda Giubilini è anche segretario).
Per le associazioni Politeia e Consulta di bioetica (diretta da Maurizio Mori e di cui Alberto Giubilini è segretario), il caso Englaro è stato la palestra per l’introduzione dell’eutanasia in Italia. Entrambe hanno sostenuto le ragioni di Beppino Englaro, sono state la sua “famiglia” politica e ideale fin da quando il padre di Eluana decise di dare battaglia per far morire di sete la figlia (tra i soci fondatori della Consulta c’è Carlo Alberto Defanti, il neurologo di Eluana). La Consulta è stata decisiva nella stesura della “Carta di Firenze”, quella con cui un gruppo di neonatologi ha sostenuto che i nati prematuri di 22-23 settimane non vanno rianimati. Va da sé che Giubilini e Minerva siano ospiti dell’associazione Coscioni. Nel 2008 il gruppo di Giubilini e Mori porta a parlare all’ospedale Meyer di Firenze, simbolo delle cure all’infanzia, il pediatra Eduard Verhagen, ideatore di quel Protocollo di Groningen che prevede l’eutanasia per i bambini disabili. La conferenza è intitolata così: “Il neonato è persona?”. Con il punto interrogativo. Gianfranco Vazzoler, componente della Consulta, disse che “feti, neonati fortemente prematuri e ritardati mentali gravi, oltre a chi si trova in uno stato vegetativo permanente, non sono persone”. E’ la rivendicazione di un’ideologia disumana che scaturisce da una lontana facoltà australiana, ma che ha origine in Italia, nella “bioetica laica” cosiddetta e nei curricula dei nostri sinceri democratici.

giovedì 2 maggio 2013

L'Ocse: "Senza riduzione del debito e riforme strutturali non c'è crescita"


Il rapporto sull'Italia


I dati sulla crescita più pessimisti rispetto alla previsioni contenute nel Def di aprile. Saccomanni: "Avanti con le riforme strutturali". Giovannini: "Strategie e iniziative per contrastare disoccupazione giovanile"

Le priorità per l'Italia sono un'ampia riduzione del debito e il consolidamento delle riforme strutturali. Queste sono le due ricette chiave che escono dall'indagine presentata oggi dall’Ocse sul nostro paese. "Per l'Italia, si legge nel rapporto, "la priorità è la riduzione ampia e prolungata del debito pubblico", mentre "i risultati ottenuti grazie alle riforme strutturali devono essere consolidati e sono necessarie ulteriori misure volte a promuovere la crescita e migliorare la produttività, per rimettere l'Italia sulla strada di una crescita sana".

Crescita – Secondo quanto previsto dal rapporto Ocse sull’Italia, l'economia del nostro paese "potrebbe frenare" nei prossimi mesi e "non dovrebbe iniziare a crescere prima del 2014" con una contrazione del Pil dell'1,5 per cento nel 2013 e una crescita dello 0,5 per cento nel 2014, dati più pessimisti rispetto al -1,3 per cento di quest'anno e al +1,3 per cento del 2014, stimati dal governo nel quadro macroeconomico contenuto nel Def, presentato ad aprile. "Gli effetti positivi della serie di ampie riforme dal lato dell'offerta adottate a partire dalla fine del 2011 – si legge nel documento -, richiederanno tempo per materializzarsi, a causa del clima di scarsa fiducia, del ritmo lento della ripresa negli altri paesi e della necessità di proseguire sulla strada del consolidamento fiscale. Inoltre è previsto un aumento della disoccupazione dell’11,4 per cento quest’anno e dell’11,8 per cento nel prossimo mentre il costo del lavoro non dovrebbe subire particolari contrazioni assestandosi sul +0,2 e +0,1 nel 2013 e 2014.

Disoccupazione - Più preoccupanti i dati relativi alla disoccupazione giovanile che secondo l’Ocse è in Italia "molto elevata". L’istituto invita il governo a "migliorare la transizione della scuole al mondo del lavoro per migliorare la formazione di capitale umano e ridurre il tasso di disoccupazione giovanile". Inoltre, da quanto si legge nel documento, si raccomanda di "1)promuovere un mercato del lavoro più inclusivo, per migliorare l'occupabilità tramite un maggiore sostegno alla ricerca del lavoro e alla formazione, estendendo allo stesso tempo la rete di protezione sociale, invece di cercare di migliorare i posti di lavoro esistenti; 2)promuovere l’allargamento dell’accordo attuale tra le parti sociali in modo da garantire un migliore allineamento dei salari; 3) una previsione di riduzione dell’indennità risarcitoria minima in caso di licenziamento illegittimo e determinarla in funzione degli anni di servizio”.

Debito pubblico - La stima del debito pubblico italiano, secondo il rapporto Ocse, sarà attorno al 134 per cento del Pil a fine 2014 (il dato esclude l'impatto dal gettito proveniente dalle eventuali privatizzazioni, ma tiene conto delle garanzie dell'Italia al Fondo europeo di stabilità Finanziaria, dell'ammontare del prestiti bilaterali alla Grecia e della partecipazione al capitale del Meccanismo Europeo di Stabilità, nonchè della riduzione dei debiti arretrati). Inoltre, si legge nel rapporto, il debito "potrebbe aumentare ulteriormente qualora non si prosegua con ulteriori interventi di consolidamento e/o in assenza di entrate provenienti da operazioni di privatizzazione nel 2014”.
Il Ministro del economia, Fabrizio Saccomanni, commentando i dati del rapporto sull’Italia dell’Ocse, ha detto che “ce la mettiamo tutta” per uscire dalla crisi nel 2013 e che "siamo orientati a un rilancio della crescita sostenibile e proseguiamo con fermezza sulla strada delle riforme strutturali già iniziate", riforme che, per Saccomanni, "hanno anche un effetto di sostegno alla crescita”.

In questi mesi, ha proseguito il neo Ministro dell’economia, "abbiamo lavorato molto" per "gestire una situazione grave di emergenza finanziaria dalla quale vorremmo definitivamente uscire il più presto possibile". "Il governo intende proseguire in una strategia orientata alla crescita - ha osservato Saccomanni - coniugando le politiche europee di stabilità precise per la ripresa delle attività e dell'occupazione. La creazione di posti di lavoro è essenziale per risolvere il problema dell'indebitamento".

Anche secondo il Ministro del lavoro, Enrico Giovannini, l’Italia ha delle “emergenze che conosciamo bene, che sono Cig e esodati su cui i numeri sono stati incerti e ho già avviato un approfondimento forte". Per Giovannini "fare e disfare non aiuta, bisogna rivedere quanto necessario, ma con attenzione". Il ministro, durante le presentazione del rapporto Ocse, ha poi detto che intenderà incontrare i rappresentanti delle parti sociali per affrontare il problema dei giovani: “L’investimento sulla generazione è un fatto culturale che passa attraverso tutti i soggetti - ha detto il neo ministro del Lavoro -  Dobbiamo riuscire a mettere in campo strategie e iniziative efficacia se pensiamo che sia la politica a risolvere questo problema ci siamo dimenticati che alla fine la crescita la fanno le imprese e i lavoratori”.