venerdì 23 maggio 2014

IL TESTAMENTO DI PAOLO VI


Nel corso della riunione della Congregazione Generale dei Cardinali, giovedì 10 agosto, è stato letto il testo delle ultime volontà di Paolo VI, testo che prima della pubblicazione è stato portato a conoscenza dei familiari. Il testamento consiste in uno scritto del 30 giugno 1965, integrato da due aggiunte, una del 1972 e un’altra del 1973. Sono in tutto quattordici pagine manoscritte. Il primo dei tre testi è scritto su tre fogli grandi, formato lettera, ciascuno di quattro facciate. Paolo VI ha numerato la prima pagina dei tre fogli di suo pugno ed ha apposto la sua firma anche a margine della quarta facciata del foglio I. In tutto sono undici facciate scritte. La prima aggiunta fu fatta a Castel Gandolfo e, oltre alla data, reca anche l’indicazione dell’ora: 16 settembre 1972, ore 7,30. Si tratta di due foglietti manoscritti. Il primo reca tra parentesi, in alto, accanto allo stemma pontificio l’indicazione «Note complementari al testamento 8. La seconda, intitolata « Aggiunta alle mie disposizioni testamentarie », consiste in poche righe scritte su un unico foglio il 14 luglio 1973.

Alcune note
 per il mio testamento

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.
1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce.
Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita.
Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza ho io ricevuto in questo mondo!
Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? Come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? Come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo.

Siano salutati e benedetti tutti quelli che io ho incontrati nel mio pellegrinaggio terreno; coloro che mi furono collaboratori, consiglieri ed amici - e tanti furono, e così buoni e generosi e cari!
benedetti coloro che accolsero il mio ministero, e che mi furono figli e fratelli in nostro Signore!

A voi, Lodovico e Francesco, fratelli di sangue e di spirito, e a voi tutti carissimi di casa mia, che nulla a me avete chiesto, né da me avuto di terreno favore, e che mi avete sempre dato esempio di virtù umane e cristiane, che mi avete capito, con tanta discrezione e cordialità, e che soprattutto mi avete aiutato a cercare nella vita presente la via verso quella futura, sia la mia pace e la mia benedizione.
Il pensiero si volge indietro e si allarga d’intorno; e ben so che non sarebbe felice questo commiato, se non avesse memoria del perdono da chiedere a quanti io avessi offeso, non servito, non abbastanza amato; e del perdono altresì che qualcuno desiderasse da me. Che la pace del Signore sia con noi.
E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica ed apostolica, ricevi col mio benedicente saluto il mio supremo atto d’amore.
A te, Roma, diocesi di San Pietro e del Vicario di Cristo, dilettissima a questo ultimo servo dei servi di Dio, la mia benedizione più paterna e più piena, affinché Tu Urbe dell’orbe, sia sempre memore della tua misteriosa vocazione, e con umana virtù e con fede cristiana sappia rispondere, per quanto sarà lunga la storia del mondo, alla tua spirituale e universale missione.
Ed a Voi tutti, venerati Fratelli nell’Episcopato, il mio cordiale e riverente saluto; sono con voi nell’unica fede, nella medesima carità, nel comune impegno apostolico, nel solidale servizio al Vangelo, per l’edificazione della Chiesa di Cristo e per la salvezza dell’intera umanità. Ai Sacerdoti tutti, ai Religiosi e alle Religiose, agli Alunni dei nostri Seminari, ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore.
E così, con particolare riverenza e riconoscenza ai Signori Cardinali ed a tutta la Curia romana: davanti a voi, che mi circondate più da vicino, professo solennemente la nostra Fede, dichiaro la nostra Speranza, celebro la Carità che non muore, accettando umilmente dalla divina volontà la morte che mi è destinata, invocando la grande misericordia del Signore, implorando la clemente intercessione di Maria santissima, degli Angeli e dei anti, e raccomandando l’anima mia al suffragio dei buoni.
2. Nomino la Santa Sede mio erede universale: mi obbligano a ciò dovere, gratitudine, amore. Salvo le disposizioni qui sotto indicate.
3. Sia esecutore testamentario il mio Segretario privato. Egli vorrà consigliarsi con la Segreteria di Stato e uniformarsi alle norme giuridiche vigenti e alle buone usanze ecclesiastiche.
4. Circa le cose di questo mondo: mi propongo di morire povero, e di semplificare così ogni questione al riguardo.
Per quanto riguarda cose mobili e immobili di mia personale proprietà, che ancora restassero di provenienza familiare, ne dispongano i miei Fratelli Lodovico e Francesco liberamente; li prego di qualche suffragio per l’anima mia e per quelle dei nostri Defunti. Vogliano erogare qualche elemosina a persone bisognose o ad opere buone. Tengano per sé, e diano a chi merita e desidera qualche ricordo dalle cose, o dagli oggetti religiosi, o dai libri di mia appartenenza. Distruggano note, quaderni, corrispondenza, scritti miei personali.
Delle altre cose che si possano dire mie proprie: disponga, come esecutore testamentario, il mio Segretario privato, tenendo qualche ricordo per sé, e dando alle persone più amiche qualche piccolo oggetto in memoria. Gradirei che fossero distrutti manoscritti e note di mia mano; e che della corrispondenza ricevuta, di carattere spirituale e riservato, fosse bruciato quanto non era destinato all’altrui conoscenza.
Nel caso che l’esecutore testamentario a ciò non possa provvedere, voglia assumerne incarico la Segreteria di Stato.
5. Raccomando vivamente di disporre per convenienti suffragi e per generose elemosine, per quanto è possibile.
Circa i funerali: siano pii e semplici (si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso).
La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me.
6. E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. Sullo stato della Chiesa; abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore. Sul Concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull’ecumenismo : si prosegua l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo.
Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà. Ancora benedico tutti. Roma specialmente, Milano e Brescia. Alla Terra santa, la Terra di Gesù, dove fui pellegrino di fede e di pace, uno speciale benedicente saluto.
E alla Chiesa, alla dilettissima Chiesa cattolica, all’umanità intera, la mia apostolica benedizione.
Poi: in manus Tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Ego: Paulus PP. VI.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il 30 giugno 1965, anno III del nostro Pontificato.

Note complementari
al mio testamento

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Magnificat anima mea Dominum. Maria!

Credo. Spero. Amo.
Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene.
Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.
Saluto il carissimo Fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente.
Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam diletta tabernacula tua, Domine!
Ogni mia cosa sia della Santa Sede.
Provveda il mio Segretario particolare, il caro Don Pasquale Macchi, a disporre per qualche suffragio e qualche beneficenza, e ad assegnare qualche ricordo fra libri e oggetti a me appartenuti a sé e a persone care.
Non desidero alcuna tomba speciale.
Qualche preghiera affinché Dio mi usi misericordia.
In Te, Domine, speravi. Amen, alleluia.
A tutti la mia benedizione, in nomine Domini.

PAULUS PP. VI

Castel Gandolfo, 16 settembre 1972ore 7,30.

Aggiunta
alle mie disposizioni testamentarie

Desidero che i miei funerali siano semplicissimi e non desidero né tomba speciale, né alcun monumento. Qualche suffragio (beneficenze e preghiere).

PAULUS PP. VI

14 luglio 1973

                           

lunedì 19 maggio 2014

Strano l'accanimento con il Capitale che irrora l'economia, di Francesco Forte

Molti dubbi sulla tesi di fondo espressa da Thomas Piketty in "Capital in the Twenty-First Century"

Il libro di Thomas Piketty, "Capital in the Twenty-First Century", soprattutto dopo la sua pubblicazione in lingua inglese, ha suscitato un dibattito interessante. La sua impostazione metodologica, consistente nel mettere insieme dati plurisecolari sulla diseguaglianza dei redditi, mi insospettisce. Ciò ancorché egli sembra essere stato aiutato in tale compito da un economista competente come Anthony Atkinson. Infatti quando per il mio libro "L'economia italiana dal Risorgimento ad oggi" del 2010 ho cercato di ricostruire serie omogenee dei dati macro economici della nostra economia nei 150 anni, mi sono reso conto di quante lacune ci siano nelle fonti statistiche di un singolo paese. E non capisco come si riesca a omogeneizzarli fra una ventina di paesi, come fa Piketty. In attesa di studiare tali banche dati, esprimo molti dubbi sulla tesi di fondo per cui la elevata concentrazione della ricchezza dipenderebbe dal fatto che "r", il tasso di remunerazione del capitale, ha la tendenza a eccedere "g", il tasso di crescita del pil, per colpa del modo "patrimoniale" in cui è organizzato il sistema economico capitalistico.

Inoltre mi pare un non sequitur la tesi per cui per alleviare le diseguaglianze occorre introdurre una tassazione patrimoniale per modificare la distribuzione. Infatti ci sono in linea di principio un capitalismo di monopolio e uno di concorrenza. E mi pare evidente che il primo tenda alla diseguaglianza più del secondo, sia oggettivamente perché protegge le posizioni costituite sía soggettivamente perché ostacola il ricambio. Per porre rimedio a questi difetti occorre favorire la formazione del risparmio di chi ha un basso reddito e dei ceti medi e ridurre la tassazione dei piccoli capitali e dei loro redditi, sia a livello familiare che nelle imprese, sicché il tributo patrimoniale avrebbe senso solo se addossato alle altissime fortune. Che peraltro hanno moltissimi modi per sfuggirvi legalmente. E del resto ciò non sarebbe di alcun aiuto a chi ha bisogno di risparmio e investimento per crescere e competere.

E poi perché la colpa è di "r > g"? Non sarà magari vero che "g > r" perché chi detiene "r" è maltrattato? In un'economia di mercato aperta, la crescita è maggiore che in una ingessata dalle regolamentazioni e da un eccesso di spese, tributi debiti. Perché non ci si occupa di accrescere "g" anziché piangere su "r"? E perché mai abbassando r con le imposte automaticamente "g" cresce? Ciò che si riduce con le imposte non è "r" netto di imposta, ma lordo. La domanda di capitale ai fini della crescita "g" dipende dalla quantità di capitale offerto. Questa si riduce se una parte va al fisco, salvo che questo lo usi per prestare denaro alle imprese o per far impresa direttamente.

L'economia cinese però come spiega Ronald Coase nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia grazie all'Istituto Bruno Leoni è cresciuta perché lo stato ha sempre più lasciati il apitale e le imprese al mercato. Infine non è vero che se "r", il reddito del capitale, cresce al 3 per cento annuo e la crescita del pil è dell'1 per cento annuo, dopo x anni tutto il reddito è dei capitalisti, per una legge matematica inerente alla diversa crescita delle due variabili. Essa vale solo se a "r" si applica la regola del cumulo dei tassi composti. Ma una parte del risparmio si traduce in consumo. Così quello delle assicurazioni previdenziali e dei fondi di investimento. E notoriamente le ricchezze delle grandi famiglie dopo tre generazioni si disperdono. I ricchi sono'come il fiume Po, che è molto più grande dei suoi affluenti. Ma le acque che lo compongono cambiano di continuo perché finiscono nel mare. Mentre il Po, a parte le alterne vicende, nei secoli rimane eguale. Se fosse più grande, potrebbe irrigare più terreno.


Il mondo sta meglio di 30 anni fa, di Kenneth Rogoff

A leggere il nuovo autorevole libro di Thomas Piketty Capital in the Twenty-First Century si conclude che il mondo non era così iniquo dai tempi di re e baroni ladri. Strano perché stando a un altro libro eccellente, The Great Escape di Angus Deaton (che ho recensito di recente), il mondo non sarebbe mai stato così equo. Allora chi ha ragione? La risposta cambia che si guardi ai singoli Paesi o al mondo nella sua totalità.

L'argomento portante del libro di Deaton è che negli ultimi decenni diversi miliardi di persone nel mondo in via di sviluppo, in Asia in particolare, sono uscite da condizioni di povertà estrema. La stessa macchina che ha fatto aumentare la disuguaglianza nei Paesi ricchi ha portato uguaglianza a miliardi di persone in tutto il mondo. A posteriori e attribuendo a un indiano lo stesso peso di un americano o di un francese, sul fronte della povertà gli ultimi trent'anni sono stati i più importanti nella Storia di tutta l'Umanità.

L'arguto libro di Piketty documenta la disuguaglianza all'interno dei Paesi concentrandosi soprattutto sul mondo ricco. L'humus culturale a cui attinge viene perlopiù da quella che si considera la classe media all'interno del proprio Paese, ma che in realtà è una classe medio-alta per non dire ricca secondo i parametri globali. Quanto documentato da Piketty nel corso degli ultimi quindici anni insieme al coautore Emmanuel Saez, ha sollevato svariati dibattiti tecnici e astrusi. Io, invece, trovo convincenti i loro risultati soprattutto considerando che altri autori, pur seguendo metodi completamente diversi, sono giunti a conclusioni simili.

Brent Neiman e Loukas Karabarbounis della University of Chicago per esempio, sostengono che la percentuale di forza lavoro del Pil sia andata calando in tutto il mondo dagli anni 70 in avanti. Eppure Piketty e Saez non offrono un vero e proprio modello né lo offre questo nuovo libro. E la mancanza di un modello combinata a un campo d'analisi ristretto alla classe medio-alta dei Paesi, conta e parecchio quando si tratta di dare ricette politiche. I proseliti di Piketty sarebbero altrettanto entusiasti della sua proposta di un'imposta patrimoniale globale progressiva se questa fosse mirata a correggere le enormi disparità fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri anziché fra chi sta bene stando ai parametri globali e chi è straricco? Secondo Piketty il capitalismo è iniquo. Ma non lo era anche il colonialismo? In entrambi i casi, l'idea di una patrimoniale globale è un vero ginepraio quanto ad applicazione e credibilità, oltre a essere politicamente impossibile.

Pur avendo ragione nell'affermare che negli ultimi decenni sono aumentati i rendimenti da capitale, Piketty sorvola sul dibattito che sta dilagando fra gli economisti a proposito delle possibili cause. Per esempio, se il fattore determinante è il forte afflusso di manodopera asiatica sui mercati globalizzati, il modello di crescita proposto dall'economista e premio Nobel Robert Solow prevede che l'accumulo di capitale finirà per regolarsi e i salari per aumentare. Il pensionamento di una forza lavoro che sta invecchiando finirà per far aumentare anche gli stipendi. Se, d'altro canto, la quota di reddito della forza lavoro è in calo per l'inesorabile aumento dell'automazione, le pressioni verso il basso perdureranno come ho già detto qualche anno fa a proposito dell'intelligenza artificiale.

Fortunatamente ci sono modi migliori per affrontare la disuguaglianza dei Paesi ricchi continuando a stimolare la crescita a lungo termine della domanda di prodotti provenienti dai Paesi in via di sviluppo. Per esempio, passare a una tassa sui consumi relativamente fissa (con una grande deducibilità per garantire la progressività) sarebbe un modo molto più semplice ed efficace di tassare l'accumulo di ricchezza, soprattutto se il Paese di residenza fiscale è collegato al luogo in cui il reddito è stato guadagnato.

Un'imposta progressiva sui consumi è relativamente efficace e non distorce le scelte di risparmio come stanno facendo le imposte sul reddito. Perché cercare di passare a un'improbabile imposta patrimoniale quando vi sono alternative per favorire la crescita e l'aumento di reddito e con un'esenzione molto elevata potrebbe essere resa progressiva? Oltre a una patrimoniale globale, Piketty caldeggia per gli Stati Uniti un'imposta marginale sul reddito dell'80 per cento. Pur essendo convinto che negli Usa sia necessaria una tassazione più progressiva, in particolare per la fascia più alta che corrisponde allo 0,1 per cento, non capisco come Piketty possa credere che un'imposta dell'80 per cento non provocherebbe distorsioni significative, soprattutto se quell'ipotesi contraddice il grande lavoro dei premi Nobel Thomas Sargent ed Edward Prescott.

Ci sono diverse politiche praticabili che possono essere adottate per ridurre la disuguaglianza, oltre a un'imposta progressiva sui consumi. Per gli Stati Uniti in particolare, Jeffrey Frankel della Harvard University ha proposto l'eliminazione dell'imposta sui salari per i lavoratori a basso reddito, un taglio delle detrazioni dei lavoratori ad alto reddito e tasse di successione più alte. Un'istruzione prescolastica globale stimolerebbe la crescita a lungo termine così come una maggiore attenzione alla formazione continua dell'adulto (mia precisazione) attraverso corsi online per esempio. La carbon tax contribuirebbe a ridurre il riscaldamento globale portando al tempo stesso a un aumento dei redditi elevati.

Dando per buona la premessa di Piketty secondo la quale la lotta alla disuguaglianza sarebbe ancora più prioritaria della crescita, è bene rammentare che molti cittadini dei Paesi in via di sviluppo dipendono dalla crescita dei Paesi ricchi per uscire dalla povertà. Il problema più grande del XXI secolo continua a essere la povertà estrema in Africa come altrove. L'élite straricca, ovvero l'0,1 per cento, dovrebbe pagare tasse molto più alte, ma non dimentichiamo che nella lotta alla disuguaglianza nel mondo il sistema capitalista ha segnato trent'anni straordinari.

Non si cresce di sole promesse, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

RENZI E LA DELUSIONE DEI FATTI

È bastato un piccolo numero negativo sull’andamento del Prodotto interno lordo nel primo trimestre dell’anno (meno 0,1%) per riportare indietro di due mesi le lancette dello spread. Dimostrazione di quanto sia ancora fragile la nostra economia.

I problemi in realtà vengono da lontano. Gli spread, le differenze di rendimento fra i titoli di Stato della periferia europea e quelli tedeschi sono scesi, negli ultimi cinque mesi, in buona parte per effetto dello spostamento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi emergenti verso l’Europa. Abbiamo cioè tratto beneficio dalle preoccupazioni sulla stabilità macroeconomica, in particolare di Cina, Brasile e Turchia. Ma l’esperienza insegna che gli investimenti verso quei Paesi sono spesso volatili, fatti di «stop and go », con flussi massicci, seguiti da uscite improvvise. La fuga degli investitori dai Paesi emergenti, che è stata impetuosa all’inizio dell’anno, si è ora arrestata. Anzi, vi sono segni di un ritorno di fiducia, almeno verso alcuni Paesi, come il Brasile. Non solo, ma si mormora che la fiducia concessa ai Paesi europei ad alto debito fosse eccessiva. Il ministro dell’Economia Padoan ha quindi ragione quando si dice preoccupato che la finestra di spread contenuti si possa chiudere. I segnali non mancano. Giovedì scorso eravamo a quota 178, trenta punti in più della settimana prima.

Per evitare una nuova caduta nella fiducia dei mercati è quindi essenziale che dal giorno dopo le elezioni europee il governo acceleri sulle riforme promesse per cercare di aiutare l’Italia a uscire da una recessione che sembra non finire mai e che in sette anni ci ha fatto perdere il 10 per cento del reddito e un milione e centomila posti di lavoro.

Finora il rapporto fra promesse e realizzazioni non è stato soddisfacente. L’Italia ha molte imprese assai produttive che esportano con successo, altre che sopravvivono boccheggiando. Abbiamo bisogno di un mercato del lavoro flessibile che permetta di riallocare la mano d’opera da un tipo di impresa all’altro. Ciò significa sostituire la cassa integrazione, che oggi lega il lavoratore all’impresa mantenendo in vita anche quelle inefficienti, con un sussidio universale che protegga i lavoratori, non i posti di lavoro, e consenta al mercato di aggiustarsi. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, arrivata in Senato a inizio aprile, apre alla possibilità di un contratto unico con tutele crescenti - e questa è una svolta importante -, ma non elimina la cassa integrazione e non spiega come verrà finanziato il sussidio universale per i disoccupati, un intervento che Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info stimano costerebbe oggi fra i 10 e 15 miliardi netti l’anno. Inoltre, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, varata la scorsa settimana, aiuterà nel breve periodo, ma potrebbe rendere più difficile il passaggio al contratto unico.

Vi è ancora troppa incertezza su che cosa il governo intenda fare dal lato della spesa per permettere una riduzione significativa del cuneo fiscale. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli sta lavorando bene: è disposto il governo ad ascoltarlo? E, soprattutto, sono disposti il governo e la sua burocrazia non solo ad approvare una lista di tagli, ma poi a farli davvero, senza compensare con la mano destra quello che taglia la sinistra? Se l’obiettivo è ridurre le imposte sul lavoro di 20-25 miliardi nei prossimi 5 anni, certo non basta tagliare qualche auto blu e le Province (la cui abolizione è benvenuta, ma nell’immediato produrrà scarsi risparmi). Non vi è nemmeno chiarezza su che cosa il governo intenda chiedere all’Europa. Più flessibilità sul deficit per permettere una riduzione aggressiva delle imposte sul lavoro? E con quali assicurazioni su tagli di spesa graduali, ma incisivi? Senza questi ultimi l’Europa ci dirà giustamente di no. Matteo Renzi ha parlato con grande entusiasmo di riforme della Pubblica amministrazione per far risparmiare tempo e denaro a cittadini e imprese. Parole sante, ma i fatti si fanno attendere. Quali provvedimenti per ridurre i costi di «fare impresa»?

E a proposito di imprese e concorrenza, anche in questo caso qualche atto simbolico, ma finora scarsi risultati. Intendiamoci, anche i simboli sono importanti. Renzi è stato coerente nel suo impegno ad abbandonare la concertazione in modo che la politica economica non sia più condizionata da sindacati e Confindustria. Pur essendo il segretario del Pd, non ha partecipato al congresso della Cgil. Poi, però, venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha varato una privatizzazione delle Poste che pare essere fatta a pennello per i sindacati, e infatti riscuote l’applauso di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, l’organizzazione più importante fra i lavoratori delle Poste. Una privatizzazione che sembra un regalo ai dipendenti dell’azienda, a scapito della concorrenza nel settore bancario e assicurativo. Quindi a scapito dei cittadini.

Matteo Renzi sta perdendo di vista gli obiettivi più importanti. Nelle prime settimane, decine di slides e raffiche di promesse servivano per dare al governo il necessario slancio iniziale. Ma ora quella strategia rischia di dare l’impressione che il governo non sappia identificare le priorità. Occorre concentrarsi, scegliendo pochi provvedimenti chiave e portandoli in porto con una determinazione che invece si sta affievolendo.

venerdì 9 maggio 2014

Ecco la leadership inglese, di Antonio Masala

Logorare i sindacati e ripristinare i valori. Il metodo Thatcher inseguito da Renzi

Se davvero il thatcherismo è stato una rivoluzione, il primo interrogativo a cui rispondere è quale fosse la situazione precedente, e come sia stato possibile spazzarla via. La storia della Gran Bretagna nel Novecento è stata a lungo caratterizzata da un progressivo aumento dei compiti dello stato, concretizzatosi in misure volte a garantire il benessere sociale e in massicci interventi in economia. A partire dal 1945 inizia quello che è stato definito il welfare consensus, un periodo di ampio consenso per l’intervento statale nell’economia, caratterizzato in particolare dal tentativo di garantire il pieno impiego alla popolazione maschile e il diritto all’abitazione. L’idea politica alla base del consensus era la necessità di “adattarsi” ai bisogni e ai desideri della democrazia, e gli esponenti del Partito conservatore che la sostenevano ne indicavano l’origine profonda nell’essere il loro un partito pragmatico e non ideologico.

Il consensus iniziò a incrinarsi solo verso la fine degli anni Sessanta, quando l’insostenibilità dei costi e la staticità dell’economia emersero in tutta la loro drammaticità, tanto da far apparire la Gran Bretagna il grande malato d’Europa. Gli anni Settanta furono caratterizzati dal graduale venire meno del consensus, ma anche dall’incapacità dei governi di affrontare lo scontro con le Trade Unions, che inevitabilmente bloccavano ogni tentativo di riforma del sistema. Dimostrazione ne è la vicenda del governo conservatore presieduto da Edward Heath, il quale vinse le elezioni del 1970 proponendo un programma di ispirazione liberale; proprio a causa della opposizione delle Trade Unions Heath si ritrovò a dover fare una brusca marcia indietro, la cosiddetta U-Turn, un episodio emblematico di come il governo non fosse più in grado di operare scelte e riforme. La “rivoluzione” della Thatcher va analizzata nel quadro storico-politico ora accennato. Un quadro che vede la fine del consensus e che passa per la rottura di tutti quegli equilibri che negli anni avevano cristallizzato l’economia e la società britannica, e avevano privato il governo del suo potere decisionale. Gli elementi che consentirono la realizzazione di un tale mutamento sono il frutto di un complesso intrecciarsi di analisi teoriche e di circostanze storiche che trovano nella personalità della Thatcher, e nelle caratteristiche della sua leadership, un prezioso momento di raccordo. La concezione del vecchio paternalismo Tory, compatibile con il welfare e l’economia keynesiana, fu sfidata dalla Thatcher impugnando le idee liberali. Determinante fu la sua capacità di attrarre il consenso dei backbenchers, i parlamentari di secondo pianoche riconobbero in lei una rappresentante del “ceto medio” che si contrapponeva a un establishment,  “aristocratico” e lontano. Questo infatti la percepiva come una outsider, sia per essere donna sia per essere figlia di un droghiere, ossia per non appartenere a una classe sociale elevata, o almeno non averne acquisito i modi, come gran parte della dirigenza conservatrice. Il fatto che la Thatcher fosse stata eletta con l’appoggio determinante dei backbenchers fece parlare alcuni commentatori di una “peasants revolt”, una rivolta contro la vecchia classe dirigente.

La Thatcher seppe sempre mantenere questo rapporto privilegiato con i backbenchers, ma con il tempo dimostrò una grande abilità anche nel gestire quella parte del partito (e anche un buon numero di civil servants, talvolta più importanti dei politici nel fissare le linee guida del governo) che le era ostile. Ebbe poi molto chiara la consapevolezza diffusa del declino britannico, e fu estremamente abile nel saperla sfruttare in termini elettorali. Nei suoi discorsi seppe legare il declino alla mentalità collettivista che si era affermata in Gran Bretagna indicendo una crociata contro le Trade Unions e il Partito laburista, ma anche attaccando la vecchia tradizione paternalistica del Partito conservatore a favore di un ritorno al libero mercato e allo spirito imprenditoriale.

In questo senso la Thatcher era il frutto maturo della “battaglia delle idee”, senza la quale forse ci sarebbe stata Margaret Thatcher come leader politico, ma non il thatcherismo. Guardando alla storia delle idee politiche negli anni Sessanta si assiste ad uno dei periodi più floridi di rinascita e di rivisitazione della teoria liberale, con le opere di autori quali, per citare solo i nomi più noti, Friedrich A. von Hayek, Milton Friedman, James M. Buchanan. Quei lavori si sarebbero dimostrati gravidi di conseguenze e la loro forza non era solo in ricette economiche che promettevano un maggiore sviluppo, ma anche nella difesa ideale della “società libera”, o meglio in una nuova descrizione e visione di cosa essa fosse. Allo stereotipo della società borghese basata sullo sfruttamento materiale e sull’annichilimento morale del proletariato si contrapponeva una visione del capitalismo quale motore di cambiamento, quale sistema aperto, in grado di garantire mobilità sociale e di dare a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza, un’opportunità. In termini ideali il capitalismo si ripropone come una forza “progressiva” dello sviluppo umano, in alternativa aperta al socialismo e al paternalismo.

Quelle idee, e questa “nuova” visione del liberalismo, furono filtrate nella cultura anglosassone da importanti columnist e vennero costantemente dibattute nei think tank, ponendo le basi per un rinnovamento “intellettuale” del Partito conservatore e per una vera rivoluzione culturale nel paese.
La Thatcher era consapevole di come il clima politico e intellettuale stesse cambiando, ma era anche consapevole delle difficoltà; determinante era il ricordo della U-Turn del governo Heath, il quale aveva fallito perché aveva proposto un programma liberale senza avere dietro un’adeguata base ideale ma anche perché non aveva a disposizione la giusta strategia per confrontarsi con le lobby dominanti.
Maturò l’idea che qualunque tentativo di cambiare il paese doveva fare i conti con il potere delle Trade Unions, maturò la consapevolezza che se le si fosse sfidate troppo apertamente probabilmente si sarebbero perse le elezioni, ma se si fosse accettato ancora una volta il “dialogo” questo sarebbe stato letale per i progetti di riforma. Il sistema appariva infatti “irriformabile” sulla base del dialogo, e di qui l’elaborazione di una strategia che prese il nome di stepping stones (le pietre che si usano per guadare i fiumi), che aveva l’obiettivo di cambiare il “climate of opinion” nel paese e arrivare ad assicurare un sostegno diffuso alle politiche di riforma. Si trattava di una strategia di graduale e crescente logoramento del potere sindacale, con il quale si evitava, o meglio si rimandava, lo scontro aperto senza però rinunciare ad attaccare la Trade Unions e a identificarle come responsabile, insieme al Partito laburista, del declino della Gran Bretagna.

Le difficili circostanze economiche diedero forza all’idea che, per quanto potesse non piacere, al cambiamento non vi era nessuna possibile alternativa. La cosiddetta “Tina” (acronimo dello slogan “there is no alternative”) si mostrò il grande espediente retorico che consentì la vittoria, nel partito prima e nel paese poi, della proposta politica di una minoranza, proposta che venne accettata come una “medicina” amara ma irrifiutabile. Per comprendere come questa medicina fosse composta, e come essa abbia potuto effettivamente funzionare, bisogna esaminare l’ultimo e caratteristico ingrediente della “ricetta”, che ci ricorda quanto gli individui contino nei processi storici, ossia Margaret Thatcher stessa.

La prima caratteristica del thatcherismo è infatti legata alla forte personalità della Thatcher, un politico fideisticamente convinto della necessità di un cambiamento per la Gran Bretagna, che si rifiutava di trattare con chi, rispetto a quella necessità, proponeva compromessi. La sua retorica e il suo modo di fare politica e di prendere decisioni si basarono su una distinzione quasi manichea tra bene e male, in cui il male era naturalmente rappresentato dalla mentalità e dalla “deriva socialista” che aveva per tanti anni contrassegnato la storia britannica. A caratterizzare la retorica thatcheriana fu non tanto, o non solo, un’apologia del libero mercato, ma soprattutto una sorta di demonizzazione dei “nemici” che, a suo dire, avevano rovinato la nazione britannica. La visione manichea della politica faceva assumere alla sua figura un aspetto quasi messianico (e che naturalmente agli occhi dei suoi nemici era invece decisamente “diabolico”), da profeta della redenzione nazionale. Se è vero che la caratteristica di ogni rivoluzione è saper raccontare una storia rispetto al passato, la Thatcher lo fece prima di tutto raccontando una storia negativa, identificando nelle Trade Unions e nella mentalità socialista i responsabili del declino della nazione britannica. Solo dopo, accanto a questo mito negativo del “socialismo inglese” si sviluppò il mito positivo di un pugno di audaci, la Thatcher e i suoi ministri, che da soli osarono sfidare l’establishment e un assetto di poteri ben radicato, per realizzare una “rivoluzione”.

L’intenzione della Thatcher non era solo rilanciare l’economia britannica, le ricette economiche erano anche, o soprattutto, un modo per difendere o “ripristinare” valori perduti. Il cuore della argomentazione thatcheriana non era l’aspetto economico, e la convinzione della Thatcher era che l’economia andasse male perché qualcosa era andato male dal punto di vista “filosofico e spirituale”. I valori morali si presentavano come  prerequisito per la rinascita anche economica della Gran Bretagna e i problemi economici potevano essere risolti solo in termini di ripristino di valori morali, quelli che lei chiamava valori vittoriani, e che dichiarava di aver assimilato nella sua infanzia grazie all’esempio della “Victorian grandmother” e alla figura del padre. Il problema a cui la Thatcher si trovò di fronte era dunque questo: come fare a reintrodurre quei valori vittoriani che erano stati spazzati via da decenni di quello che lei definiva socialismo? Come invertire quel processo storico? Certo i valori non potevano essere inculcati coattivamente dal governo, ma ciò che il governo poteva fare era contrapporsi all’artefice del decadimento di quelle virtù, la mentalità socialista, e lo poteva fare cambiando completamente il quadro in cui gli individui si trovavano ad agire, per indurli nuovamente a considerarsi artefici del proprio destino e comportarsi di conseguenza. Questo significava non essere più il nanny state, ma essere lo stato liberale che si limita a fissare il quadro di regole in cui gli individui sono liberi di agire e cercare di realizzare il proprio benessere. A caratterizzare la visione della Thatcher è poi “l’argomento morale” a favore del “competitive capitalism” e delle sue istituzioni. Il suo obiettivo era più ambizioso e duraturo della semplice rinascita economica, che anzi diventava il grimaldello per ristabilire le virtù perdute. Alla luce di questo obiettivo va letta l’azione economica dei suoi governi e in particolare le privatizzazioni fatte durante il suo secondo mandato. Esse rappresentarono quello che fu definito il “popular capitalism”, ossia un capitalismo diffuso, con il quale, rendendo gli individui proprietari li si poteva portare a essere indipendenti e artefici del proprio benessere e del benessere nazionale.

Privatizzazioni e popular capitalism rappresentano il cuore pulsante del programma thatcheriano, sono la via per opporsi agli effetti del socialismo e per responsabilizzare gli individui rispetto al problema dei valori. In questo senso può essere interpretata non solo la privatizzazione delle imprese statali, ma soprattutto la loro vendita ai piccoli azionisti (passarono da 3 a 11 milioni), che traendo dei vantaggi economici diventavano così sostenitori del mercato. Un passaggio speculare fu la massiccia privatizzazione delle case di proprietà dello stato, vendute a bassi a prezzi a chi vi abitava: il fine, ancora una volta, non era (solo) economico, ma era vedere dispiegati i benefici effetti della proprietà privata, rafforzando tramite la proprietà di una casa la responsabilità e il senso della famiglia.  E infine la stessa lotta alle Trade Unions aveva un risvolto “morale”. Il fatto che l’iscrizione al sindacato fosse divenuta obbligatoria per tutti coloro che cercavano un lavoro veniva considerata dalla Thatcher una violazione dei diritti individuali, la lotta al sindacato era anche una battaglia per restaurare la libertà individuale e il carattere volontario dell’adesione a qualunque organizzazione.

Lo studio del thatcherismo pone anche una serie di questioni interessanti per la teoria politica liberale, in particolare riguardo la possibilità che il libero mercato possa, o debba, essere “costruito” o “ricostruito” dalla politica, e riguardo il ruolo che può svolgere una leadership carismatica, ossia una categoria politica per definizione poco liberale, in un progetto di difesa della libertà individuale. L’intenzione della Thatcher era governare servendo il “bene comune” in contrapposizione agli interessi particolari dei gruppi di pressione, una capacità che lo stato sembrava aver perso. La ricetta era quella di un liberale conservatore: invertire il processo riducendo i compiti dello stato, la sua “sfera d’invadenza”, e così da un lato rilanciare l’economia, e dall’altro recuperare l’autorevolezza perduta.
Tuttavia il modo in cui venne realizzato il cambiamento della democrazia britannica lascia aperti degli interrogativi su cui soffermarsi. La Thatcher si fidava solo di se stessa, temendo non solo gli avversari, ma spesso anche gli alleati. La tendenza a voler intervenire continuamente in prima persona era in gran parte una conseguenza del suo carattere. Questa tendenza ebbe poi una conseguenza molto rilevante: cercare sempre un rapporto privilegiato con il popolo, della cui volontà e dei cui reali bisogni si sentiva autentica interprete. La Thatcher era convinta che le riforme da lei realizzate restituissero al popolo il potere, la sovranità di cui era stato spogliato dalla classe politica negli anni del consensus. La via per restituire al popolo il potere e la libertà passava per le privatizzazioni, che dovevano portare a una “nazione di proprietari” responsabili e artefici del proprio destino, e per la lotta alle corporazioni, in primo luogo le Trade Unions e i Local Governments (molto spesso gestiti dai laburisti), che avevano visto crescere il loro potere sugli individui (“prendendosene cura”) e avevano imposto un aumento e un cambiamento dei compiti dello stato.

Tutti questi possono apparire tipici problemi delle democrazie contemporanee, e la soluzione può sembrare quella classica del liberalismo. Tuttavia, non si deve dimenticare che uno dei risultati fu un processo di “nazionalizzazione” di tutte quelle istituzioni (servizio sanitario, scuole, università, carceri, parte importante dell’amministrazione della giustizia e della polizia) che in passato venivano in buona parte controllate da autorità locali, e spesso direttamente elette dai cittadini. La Thatcher tentò, per lo più con successo, di riorganizzarle e farle passare sotto il controllo dello stato, e per realizzare un tale obiettivo si procedette anche alla politicizzazione dei civil servants, i quali, divenendo strumento del governo in contrapposizione alle autorità locali e agli enti autonomi, perdevano la loro neutralità. Ecco allora un primo paradosso: se l’obiettivo era risolvere la “crisi della rappresentanza” – il problema dell’incapacità del governo di decidere nell’interesse dell’intera nazione, perché troppo condizionato dai gruppi di pressione –, questo avvenne solo in un primo momento tramite la lotta ai sindacati e alle corporazioni. Infatti, a partire dal secondo mandato lo strumento diventa una leadership che si propone anche di spazzare via i vari corpi intermedi, più o meno “degenerati”, per restituire allo stato, o meglio al governo, la sua autorità, rendendolo l’unico interprete della volontà popolare. Se il risultato a cui si aspirava, e che in parte fu realizzato, non fosse stato una riduzione dei compiti dello stato, e una regolamentazione delle spese ormai fuori controllo, tutto questo potrebbe apparire quasi come un caso di democrazia giacobina, in cui il leader diventa l’unico interprete della volontà popolare e spazza via i corpi intermedi.

L’azione politica della Thatcher va incontro a un ulteriore paradosso. Il suo governo fu infatti estremamente attivo nel cambiare lo stato di cose esistente, al punto da apparire invadente e quasi rivoluzionario. Il percorso verso il cambiamento dell’economia e dei rapporti tra i diversi attori sociali assunse quasi la forma di una “pianificazione al contrario”: bisognava “costringere” il mercato a funzionare, e poiché le “incrostazioni” che ne impedivano il funzionamento erano molte, l’intervento doveva essere forte, e doveva essere fatto dalla politica. Si interveniva per rinvigorire il mercato e lo spirito imprenditoriale, ma lo si faceva con un continuo, ingombrante e pianificato intervento statale. Una posizione che poco s’addice alla visione conservatrice, secondo la quale si devono evitare i grandi cambiamenti improvvisi, ma anche a quella liberale, che vorrebbe il ruolo dello stato il meno invasivo possibile.

Se tale contraddizione può apparire rilevante dal punto di vista delle teoria politica essa non lo era per la Thatcher. La sua idea era che si dovesse “tornare indietro”, ossia agire per ripristinare le antiche libertà britanniche (e in questo senso si dichiarava conservatrice), e lo strumento non poteva che essere una forte azione di governo. Se si deve tornare indietro dopo anni di politiche sbagliate, le azioni che deve fare il governo sono molte e articolate, ma a contare è l’obiettivo finale; non conta quanto il governo interviene, ma in che direzione. Pur tenendo distinte la visione del teorico da quella del politico un problema inevitabilmente emerge: è ipotizzabile che la realizzazione di idee liberali, o anche conservatrici, avvenga con un governo che usa metodi che non appaiono né liberali né conservatori? E’ possibile “restaurare” la libertà, e affermare valori liberali (o conservatori nel senso in cui li vedeva la Thatcher), con un intervento governativo in qualche modo “dispotico”? Questi interrogativi ci spingono però anche a riflettere su quello che potremmo definire il problema del liberalismo oggi: non più solo come limitazione della crescita dello stato e della politica, ma anche come tornare indietro rispetto a uno stato che è diventato troppo ampio e invasivo. Rispetto a questo problema il liberalismo non ha a disposizione una teoria che sia in grado di dirci come fare, che strada intraprendere per invertire quel cammino.

E forse proprio qui si colloca l’interesse riguardo all’esperienza thatcheriana, che è stata l’uso dello strumento di una leadership carismatica e anche (almeno nel metodo) “giacobina” per cercare di “tornare indietro”, pianificando a favore del libero mercato e intervenendo nel tentativo di creare valori condivisi a sostegno del mercato. Un’esperienza che, forse paradossalmente, ripropone il “primato della politica”, e la necessità di usare la politica per ridurre la politica. Un tentativo che può apparire paradossale se si guarda alle categorie classiche del liberalismo, ma che ad esempio non desta sorpresa se si tengono presenti gli studi di Michel Foucault sulla biopolitica, che meriterebbero di essere approfonditi proprio in chiave liberale.

*Antonio Masala è assistant professor in Teoria politica all’Institute for Advanced Studies di Lucca. Pubblichiamo stralci dell’intervento “Sfide e paradossi del Thatcherismo” che Masala esporrà oggi in occasione del convegno “L’eredità di Margaret Thatcher”. La conferenza che si terrà a Lucca è organizzata dall’Institute for Advanced Studies, dalla Fondazione Magna Carta e dall’Istituto Bruno Leoni. Vi prenderanno parte, tra gli altri, Franco Debenedetti, Giovanni Orsina, Fabio Pammolli e Maurizio Sacconi.

The Right’s Piketty Problem, by J. B. DeLong

In the online journal The Baffler, Kathleen Geier recently attempted a roundup of conservative criticism of Thomas Piketty’s new book Capital in the Twenty-First Century. The astonishing thing to me is how weak the right’s appraisal of Piketty’s arguments has turned out to be.
Piketty’s argument is detailed and complicated. But five points seem particularly salient:
1. A society’s wealth relative to its annual income will grow (or shrink) to a level equal to its net savings rate divided by its growth rate.
2. Time and chance inevitably lead to the concentration of wealth in the hands of a relatively small group: call them “the rich.”
3. The economy’s growth rate falls as the low-hanging fruit of industrialization is picked; meanwhile, the net savings rate rises, owing to a rollback of progressive taxation, the end of the chaotic destruction of the first half of the twentieth century, and the absence of compelling sociological reasons for the rich to spend their incomes or their wealth rather than save it.
4. A society in which the rich have a very high degree of economic, political, and sociocultural influence is an unpleasant society in many ways.
5. A society in which the wealth-to-annual-income ratio is a very large multiple of the growth rate is one in which control over wealth falls to heirs – what Geier elsewhere has called an “heiristocracy”; such a society is even more unpleasant in many ways than one dominated by a meritocratic and entrepreneurial rich elite.
Now, even in thumbnail form, this is a complicated argument. As a result, one would expect that it would attract a large volume of substantive criticism. And, indeed, Matt Rognlie has attacked (4), arguing that the return on wealth varies inversely with the wealth-to-annual-income ratio so strongly that, paradoxically, the more wealth the rich have, the lower their share of total income. Thus, their economic, political, and sociocultural influence is weaker as well.
Tyler Cowen of George Mason University, echoing Friedrich von Hayek, has argued against (4) and (5). The “idle rich,” according to Cowen, are a valuable cultural resource precisely because they form a leisured aristocracy. It is only because they are not bound to the karmic wheel of earning, getting, and spending on necessities and conveniences that they can take the long and/or heterodox view of things and create, say, great art.
Still others have waved their hands and hoped for a new industrial revolution that will create more low-hanging fruit and be accompanied by another wave of creative destruction. Should that happen, more upward mobility will be possible, thus negating (2) and (3).
But the extraordinary thing about the conservative criticism of Piketty’s book is how little of it has developed any of these arguments, and how much of it has been devoted to a furious denunciation of its author’s analytical abilities, motivation, and even nationality.
Clive Crook, for example, argues that “the limits of the data [Piketty] presents and the grandiosity of the conclusions he draws...borders on schizophrenia,” rendering conclusions that are “either unsupported or contradicted by [his] own data and analysis.” And it is “Piketty’s terror at rising inequality,” Crook speculates, that has led him astray.
Meanwhile, James Pethokoukis thinks that Piketty’s work can be reduced to a tweet: “Karl Marx wasn’t wrong, just early. Pretty much. Sorry, capitalism. #inequalityforevah.”
And then there is Allan Meltzer’s puerile accusation of excessive Frenchness. Piketty, you see, worked alongside his fellow Frenchman Emmanuel Saez “at MIT, where...the [International Monetary Fund’s] Olivier Blanchard, was a professor....He is also French. France has, for many years, implemented destructive policies of income redistribution.”
Combining these strands of conservative criticism, the real problem with Piketty’s book becomes clear: its author is a mentally unstable foreign communist. This revives an old line of attack on the US right, one that destroyed thousands of lives and careers during the McCarthy era. But the depiction of ideas as being somehow “un-American” has always been an epithet, not an argument.
Now, in center-left American communities like Berkeley, California, where I live and work, Piketty’s book has been received with praise bordering on reverence. We are impressed with the amount of work that he and his colleagues have put into collecting, assembling, and cleaning the data; the intelligence and skill with which he has constructed and presented his arguments; and how much blood Arthur Goldhammer sweated over the translation.
To be sure, everyone disagrees with 10-20% of Piketty’s argument, and everyone is unsure about perhaps another 10-20%. But, in both cases, everyone has a different 10-20%. In other words, there is majority agreement that each piece of the book is roughly correct, which means that there is near-consensus that the overall argument of the book is, broadly, right.
Unless Piketty’s right-wing critics step up their game and actually make some valid points, that will be the default judgment on his book. No amount of Red-baiting or French-bashing will change that.

http://www.project-syndicate.org/commentary/j--bradford-delong-is-surprised-by-the-poverty-of-conservative-criticism-of-capital-in-the-twenty-first-century

Le «docenze d'oro» degli alti burocrati, di Mariolina Sesto

Mentre sui manager pubblici cala o sta per calare la mannaia del tetto agli stipendi e del divieto di cumulo, c'è una fitta selva di burocrati statali che arrotonda lo stipendio con docenze iperpagate nelle scuole di formazione per i dirigenti pubblici. Ex capi di gabinetto di superministeri che adesso insegnano i regimi speciali Iva piuttosto che la responsabilità nel pubblico impiego. E guadagnano fino a oltre 300mila euro annui, che cumulano ai loro già lauti stipendi.
Scuole che tante volte si è tentato di accorpare ma senza risultati. A tutt'oggi sono ancora cinque: la Scuola superiore di economia e finanze, la Scuola superiore della pubblica amministrazione, quella dell'amministrazione locale, quella dell'Interno e l'istituto diplomatico Mario Toscano. Strutture simili che moltiplicano per cinque spese di funzionamento, stipendi per i docenti e per i dirigenti e magari anche affitti d'oro per le sedi.
Quest'anno, ad esempio, la sola Scuola nazionale dell'amministrazione (Sna) presso la Presidenza del Consiglio costerà quasi 21 milioni di euro. E distribuirà ai suoi docenti 3 milioni di euro tondi (leggermente in aumento rispetto all'anno scorso). Diciotto i docenti a tempo pieno il cui compenso annuo varia dai 217mila euro di Alberto Heimler ai 25mila euro di Fabrizio Cafaggi. Scorrendo l'elenco dei professori si scopre che il consigliere parlamentare Marcello Degni, nonché assessore al bilancio del comune di Rieti che ha da poco rassegnato le dimissioni per trasferirsi a Venezia, risulta il fortunato possessore di uno stipendio da 70mila euro l'anno. Sul suo profilo twitter Degni si definisce «economista, di sinistra, disilluso dei partiti italiani», sogna di andare a Londra e di fare «reading groups sul Capitale e studiare filosofia». Intanto però la docenza romana alla scuola di Palazzo Chigi gli frutta uno stipendio vero. C'è poi il dirigente Istat Efisio Gonario Espa, consigliere economico a Palazzo Chigi sotto Prodi, che a fronte di lezioni sull'analisi di impatto della regolamentazione mette insieme oltre 80mila euro all'anno.
E poi, accanto ai 140mila euro di Fabio Cintioli, ai 95mila di Maria Rosaria Ferrarese, ai quasi 179mila di Francesca Gagliarducci e ai 100mila tondi di Luigi Paganetto e di Renzo Turatto, ecco spuntare i soli 32mila euro di Michel Martone, vice di Elsa Fornero al ministero del Lavoro sotto Mario Monti. Sempre online si scopre inoltre che i dirigenti di stanza al Sna superano spesso i 230mila euro annui lordi. Insomma, stipendi di tutto rispetto. Con l'unica prospettiva ottimistica di un taglio di budget che dovrebbe portare a partire dal 2015 a un dimezzamento del bilancio.
Ma non è tutto qui. Una dettagliatissima inchiesta del «Fatto quotidiano» ha gettato luce sulla scuola che afferisce per competenza al ministero del Tesoro. La Ssef distribuisce ben 2,7 milioni dei 16 di budget 2013 a soli 13 docenti. In vetta alla classifica dei professori meglio retribuiti c'è – guarda caso - l'ex capo di gabinetto del ministero delle Finanze sotto Giulio Tremonti, Mario Monti e Vittorio Grilli, Vincenzo Fortunato. La Scuola gli stacca ogni anno un assegno da 301mila euro, vicino a quel tetto di 311mila euro che è la retribuzione del primo presidente della Cassazione. Fortunato, in qualità di presidente dell'Invimit, società al 100% del Tesoro ma fuori del perimetro della Pa, non rientra neppure nel novero di coloro i quali devono rispettare il divieto di cumulo.
E dunque ha il via libera all'accumulo di un doppio, lauto stipendio. Di pari importo il salario di Marco Pinto, consigliere di Stato anche lui di casa negli uffici della burocrazia ministeriale, con un cursus honorum conclusosi proprio come vice di Fortunato al Tesoro. E non va certo peggio a Francesco Tomasone, magistrato della Corte dei conti ed ex capo dell'ufficio legislativo del ministero del Lavoro: come capo del dipartimento delle scienze aziendali guadagna ogni anno 295mila euro. Poco meno incassa l'avvocato dello Stato e docente Luiss Maurizio Mensi: 272mila euro. Sempre al top lo stipendio di Maurizio Giuseppe Nerio Carugno, capo di gabinetto di Alfonso Pecoraro Scanio e poi consigliere giuridico di Silvio Berlusconi: carriera bipartisan e ora cedolino da 246mila euro annui lordi. E certo non poteva mancare il chiacchieratissimo e pluri-indagato ex consigliere di Tremonti, Marco Milanese, il cui stipendio ammontava a 194mila euro l'anno ma che il 17 dicembre scorso se l'è visto decurtare a 97.166 euro. Insegna al dipartimento di Scienze tributarie. Di certo non un esempio di economia e di oculato uso delle finanze per una scuola nata nel 1957, uno anno dopo la morte di uno statista e studioso di scienza delle finanze e di diritto finanziario del calibro di Ezio Vanoni e, inizialmente, a lui intitolata.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-26/le-docenze-d-oro-alti-burocrati-063659.shtml?uuid=ABRdpk5