mercoledì 26 giugno 2013

Berlusconi come Maria Antonietta, di Giulio Meotti

Per il filosofo Scruton il processo al Cav. ricorda l’umiliazione inflitta alla regina di Francia, accusata di incesto: “Il risentimento non si accontenta di privare la vittima dei beni, lo spoglia anche dell’umanità”

“Che ipocriti: prima liberalizzano ogni condotta sessuale, prima riducono il sesso a una funzione corporale emancipata dalla moralità, prima rendono moralmente ineccepibile tutto ciò che gli adulti condividono in privato, poi condannano in tribunale un ex primo ministro per le sue cene”. Roger Scruton è uno che sfida sempre l’opinione pubblica ma difficilmente sostiene quella corrente (giorni fa sul New York Times ha tessuto l’elogio del pessimismo). Filosofo inglese al St. Andrews College, culla di cultura e nobiltà, editorialista per il Times e celebre erudito autore di trenta libri che ne hanno fatto il più noto filosofo conservatore britannico, Roger Scruton commenta la condanna a sette anni inflitta a Silvio Berlusconi.
“E’ come la massima di La Rochefoucauld, ‘l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù’. E’ il tipico atteggiamento dei progressisti: mettono sul’altare ogni deviazione sessuale ma si riservano il diritto di giudicare come debbano vivere le altre persone. Solo un socialista ha diritto all’orgasmo libero? La borghesia, a cui appartiene Silvio Berlusconi, quella invece è da reprimere, e la famiglia è la culla della repressione da rieducare. Man mano che i comportamenti sessuali sono stati liberati dai vincoli tradizionali, le donne hanno incominciato a sollevare accuse, nuove e sino adesso impensabili, contro gli uomini che cercano di sedurle. Nell’isteria della liberazione sessuale ogni maschio è diventato colpevole”.
Nella condanna a Berlusconi Scruton intravede “una forma di puritanesimo moralista verso ogni forma di piacere. Questo vizio culturale accomunava il padre della Rivoluzione francese, Maximilien de Robespierre, e il leninismo, totalitario anche nella vita privata delle persone. E’ come nel detto di Jean-Paul Sartre, mutuato da Rousseau,  sul ‘costringere l’altro a essere libero’. La Rivoluzione francese semplificò perfino l’abbigliamento. Tutti erano diventati ‘citoyen’, una parola che presto avrebbe acquisito il tono ironico di ‘compagno’ nell’impero sovietico, e allora si capì che la distruzione delle antiche maniere era il preludio al futuro taglio delle teste. Nel caso di Berlusconi penso anche che ci sia un risentimento verso il successo. Nietzsche aveva ragione a dire che il socialismo è risentimento. E cosa meglio dei soldi incarna il successo? Berlusconi attrae questo odio, perché è il tipico italiano old fashioned da biasimare e ‘riformare’”.

“L’accusa è automaticamente colpa”
Secondo Scruton, si tratta del vecchio risentimento che caratterizza il pensiero totalitario e antiliberale. “Il risentimento è la componente fondamentale delle nostre emozioni sociali. Il XX secolo è il secolo del risentimento. Gli anarchici russi colpirono le persone ricche, di successo, di potere. Il terrore di Stalin, che fu iniziato da Lenin, era diretto contro chi si ‘approfittava del sistema’, i kulaki. Il terrore nazista colpì gli ebrei per il loro successo materiale. E se volete sapere perché gli Stati Uniti siano diventati l’obiettivo del moderno terrorismo, basta vedere il loro ‘stile di vita’. Il successo coltiva il risentimento in coloro che invidiano e il risentimento produce l’odio. L’invidia consiste nel desiderio di possedere quel che l’altro ha e il risentimento è il desiderio di distruggerlo. E’ questo il puritano secondo H. L. Mencken, uno che ha ‘paura che qualcuno, da qualche parte, sia felice’”.
Per questo secondo Scruton contro Berlusconi si è messa in moto una delle caratteristiche del rancore nella sua forma patologica: “Non concedere diritto alla difesa, l’accusa è automaticamente colpa. Il totalitarismo è uno stato mentale che razionalizza il risentimento attorno a una causa comune. E gli intellettuali sono particolarmente inclini a questo risentimento generalizzato. Istituzioni come la legge, la proprietà, la religione creano gerarchie, autorità, privilegi, e per il risentimento queste sono causa di ineguaglianza. I giacobini colpirono l’aristocrazia in quanto ‘emigrés’. Eric Voegelin ha giustamente definito il marxismo come uno gnosticismo, un governo attraverso la conoscenza. I rivoluzionari, infatti, agiscono in nome del popolo, annunciano libertà, uguaglianza, fraternità, si credono illuminati, vogliono il potere in solidarietà con quelli che ne sono esclusi. E’ una energia negativa, una vendetta. Questo risentimento, che si avventa contro Berlusconi, non si acquieta quando la vittima è privata dei beni materiali; cerca di spogliarla anche della sua umanità, di dimostrare che non ha mai avuto il diritto di possedere la più piccola fetta delle risorse della Terra e che la sua morte non deve essere rimpianta più di quanto si debba rimpiangere quella di ogni altro tipo di parassita”.
Il filosofo inglese chiude con un paragone storico. “E’ come nell’umiliazione inflitta alla regina di Francia, Maria Antonietta, accusata di ogni possibile crimine, incluso l’incesto, in modo da presentarla come un essere che non appartiene alla normale congregazione umana”.

venerdì 21 giugno 2013

Nella guerra di Draghi in difesa della sua Bce spuntano due bei paper, di Michele Masneri

Armi non convenzionali


Elogi a Bernanke sugli stimoli (che però freneranno nel 2014) e al sostegno ai piccoli dall’Eurotower

Il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, difende il suo operato non solo a parole ma anche con le carte. Da settimane il capo della Bce non perde occasione per rivendicare con forza la legittimità e l’efficacia delle sue scelte. Ultimo in ordine di tempo, il discorso tenuto a Gerusalemme durante un convegno in onore di Stanley Fischer, governatore della Banca centrale israeliana e maestro dello stesso Draghi. “La politica monetaria resterà accomodante fin quando necessario”, ha detto Draghi tre giorni fa. “Monitoreremo tutte le informazioni in arrivo sugli sviluppi economici e monetari, e rimarremo pronti ad agire se necessario”. Ma adesso, mentre pende la decisione della Corte federale tedesca di Karlsruhe contro l’Outright monetary transactions (Omt), il piano di acquisto illimitato di titoli messo in campo dalla Bce per placare lo spread, arrivano due paper che da una parte avvalorano le scelte espansive compiute oltreoceano dalla Federal Reserve e, dall’altra, confermano la scelta di Draghi di affinare la “cassetta degli attrezzi” della Bce.
Sul primo fronte, uno studio mostra gli effetti positivi della politica super espansionista della Fed, proprio mentre due giorni fa la Fed, seppur a maggioranza, aveva deciso di continuare la rotta verso una politica antirigorista fino al 2014, limite che temporale che ieri ha spaventato gli investitori deprimendo le Borse mondiali (Milano ha perso il 3,9 per cento) e lo spread tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi è salito a 290 punti base. Il Fomc (Federal open market committee), il comitato che decide la regolazione dell’offerta di moneta, ha esaminato gli indicatori chiave dell’economia americana, considerati non soddisfacenti, con una attività economica che si espande a “un passo moderato”, e un’inflazione ancora sotto il livello prestabilito (1,4 per cento contro il 2 per cento prefissato) e dunque, seppur a maggioranza, ha deciso di proseguire nella sua politica di Quantitative easing, pur segnalando che se i target di crescita (e soprattutto la disoccupazione) saranno in linea con le attese. Ora uno studio Bce riconosce l’efficacia dell’azione della Fed nella fase più critica della crisi.
Un paper di Marcel Fratzscher, Marco Lo Duca e Roland Straub intitolato “On the international Spillovers of Us Quantitative Easing” analizza gli effetti sui mercati internazionali delle operazioni non convenzionali della Fed, e mostra come nella parte iniziale della crisi (2008-2009) soprattutto l’acquisto di titoli da parte di Washington ha portato benefici all’economia americana comportando il rientro di capitali e investimenti dai paesi emergenti sul mercato azionario e obbligazionario americano. Ciò ha prodotto, dice lo studio, “un apprezzamento del dollaro, un abbassamento dei rendimenti dei titoli di stato e ha supportato il mercato borsistico Usa”. “Dato l’obiettivo della Fed di portare liquidità ai mercati finanziari e a ripristinare segmenti di mercato danneggiati dal dopo crisi Lehman Brothers, le politiche Fed paiono essere state piuttosto efficaci” rileva la ricerca, che peraltro non risparmia una critica alla seconda fase del Quantitative easing (2010), quando gli effetti di tali politiche hanno invece spinto i capitali verso i paesi emergenti portando a un deprezzamento del biglietto verde.
Il secondo paper uscito in questi giorni da Eurotower, intitolato “The use of credit claims as collateral for Eurosystem credit operations”, a cura degli economisti Kentaro Tamura e Evangelos Tabakis, mostra invece come Draghi – che lo aveva anticipato il 19 marzo in un discorso a Francoforte –  abbia lavorato a un migliore uso dei debiti delle banche come garanzia collaterale verso la stessa Bce, un “complesso meccanismo” (Draghi dixit) che dovrebbe migliorare i flussi di credito nell’Eurozona, sostenere le Pmi e contribuire a far ripartire l’economia dell’Eurozona. Il governatore aveva sottolineato in quell’occasione che “è in atto un lavoro per migliorare le possibilità d’utilizzo di collaterale transnazionale per le operazioni di credito nell'Eurosistema, che ne aumenteranno l'efficienza”. Lo studio Bce sottolinea adesso che negli ultimi tempi sono state prese diverse misure per migliorare questo strumento; in particolare, alcune Banche centrali hanno avviato procedure automatiche per l'uso dei debiti delle banche come garanzia; si è introdotto un sistema per gli scambi di garanzie tra stati diversi; e nel 2012 si è implementata la portata della direttiva Ue 44/2009 sui collaterali, estendendo la protezione contro i possibili default di enti creditori, e diminuendo gli adempimenti burocratici; infine, lo studio apprezza l’iniziativa di soggetti privati come la standardizzazione della documentazione richiesta su alcuni tipi di crediti, che abbassa costi e tempi delle transazioni.

mercoledì 19 giugno 2013

Come e perché la pressione fiscale è arrivata al 53 per cento

Crisi economica, evasione Irap e Iva, mancato pagamento dei contributi. La relazione di Giampaolino alla Camera

La pressione fiscale “effettiva” in Italia, ottenuta depurando il Pil dell'ammontare stimato dei redditi evasi, ha raggiunto il 53 per cento, dieci punti oltre quella "apparente". Il dato è stato fornito dal presidente della Corte dei conti, Luigi Giampolino, in audizione presso le commissione Finanze e Bilancio della Camera.

"L'aggravarsi della crisi economica ha reso evidente e clamoroso un fenomeno già noto da tempo – ha detto Giampaolino -: il ricorso ad una sorta di finanziamento improprio delle attività economiche attraverso il mancato pagamento di tributi (per lo più Iva) e contributi". "L'evasione fiscale continua ad essere per il nostro Paese un problema molto grave – ha aggiunto il presidente della Corte dei conti -, tra le cause delle difficoltà del sistema produttivo, dell'elevato costo del lavoro, dello squilibrio dei conti pubblici, del malessere sociale esistente". Inoltre, secondo Giampaolino –la magistratura contabile ha già "avuto modo di rilevare" come la lotta all'evasione fiscale "sia stata caratterizzata da andamenti ondivaghi e contraddittori" che "denotano l'esistenza di divisioni su un tema che, per sua natura, dovrebbe costituire elemento di piena condivisione e concordanza".

L'evasione Iva e Irap, secondi i dati della Corte, costa all'erario 50 miliardi, di cui 46 sottratti attraverso la mancata dichiarazione dell'imposta sul valore aggiunto. Nel caso dell'Irap, invece, il gettito sottratto (stimato per le annualità 2007-2009 al 19,4 per cento) confermerebbe che, anche se in diminuzione, l'evasione fiscale “resta un fenomeno molto grave per il sistema tributario e per l'economia del nostro paese”.

Secondo le stime del Mef il fenomeno complessivo dell'economia sommersa raggiunge il 18 per cento del Pil, e colloca l'Italia al secondo posto nella graduatoria internazionale guidata dalla Grecia.

martedì 18 giugno 2013

Così Letta rischia di diventare la copia sbiadita del Monti riformatore, di Francesco Forte

La lettura degli 80 articoli del “decreto del Fare” dà l’impressione più di un “mille proroghe” o delle “lenzuolate” di Pier Luigi Bersani, che non di un provvedimento incisivo per la crescita.Non voglio svalutare i decreti di quel genere, che in regime ordinario possono servire. Ma siamo in emergenza. E bisogna evitare che il governo guidato da Enrico Letta diventi solo la sbiadita immagine di quello guidato da Mario Monti.
Questo decreto contiene varie cose buone, specie nel credito alle imprese, ma è anche corposo nel costo: comporta un onere di 4 miliardi di euro per quest’anno e di 8 una volta a regime. Ma non affronta nodi decisivi, come fece, con coraggio e con errori, Monti nella fase iniziale del suo mandato quando prese di petto due temi fondamentali di riforma: le pensioni e il mercato del lavoro. La riforma previdenziale di Elsa Fornero ha generato effetti strutturali positivi di lungo periodo sul debito pensionistico, che è la parte meno visibile del debito pubblico ma altrettanto importante (vale 4-5 punti di pil come gli interessi sul debito pubblico). Ora questo tema è risolto, sebbene gli interessi corporativi abbiano gonfiato il cosiddetto problema degli esodati, che è stato esagerato. L’altro tema preso di petto dal “primo Monti” fu la flessibilità del mercato del lavoro. E’ rimasto irrisolto, soprattutto nella parte riguardante i licenziamenti per cause disciplinari, che non possono essere tutelati dall’articolo 18 se non quando si tratta di precisi diritti civili e di precise libertà sindacali, da specificare.
Con i contratti aziendali anche la tematica dell’articolo 18 si può risolvere: Germania docet. Monti affrontò anche l’equilibrio del bilancio, esagerando sul lato delle imposte. La stella polare che Letta dovrebbe avere, adesso, per non finire nel grigiore, è quella di affrontare questi due temi e quello delle infrastrutture, sostituendo alla durezza non la diluizione ma l’incisività, come a suo tempo fece per esempio Craxi quando tagliò la scala mobile. Per rilanciare la crescita bisogna perciò alleggerire le imposte in genere con taglio delle spese, bisogna rendere flessibile il mercato del lavoro con la contrattazione decentrata tipo Marchionne, rilanciare gli investimenti pubblici di lungo termine, con alto contenuto tecnologico. Ad esempio, le tecnologie internet che danno forza agli Stati Uniti sono il sottoprodotto dei suoi investimenti a lungo termine spaziali e militari. La “mano invisibile” non basta al mercato, ma quella visibile dello stato deve fare ciò che il privato non è in grado di fare. Allora anche le borse di studio servono.
Negli 80 articoli del decreto del Fare non ci sono riduzioni di imposte con tagli di spese: comprese le spese fiscali, ossia gli esoneri particolari. Ci sono, invece, nuove spese per assunzioni di personale, il che sarà anche giusto ma non crea crescita. Un aumento dell’Iva al 22 per cento nell’aliquota ordinaria è assurdo se si vuole rilanciare il lavoro giovanile o la piccola impresa. E lo sfoltimento dei permessi edilizi (con nuove norme di “semplificazione”, scritte in modo tortuoso) non serve a nulla se non si rivede la tassazione immobiliare. Quanto alle opere pubbliche, quelle che il decreto rifinanzia se lo meritano. Ma lo si fa con i fondi che sono stati tolti a due grandi opere, dense di tecnologia: la Tav Torino-Lione e il Ponte sullo Stretto. Queste invece si potrebbero finanziare tutte accrescendo la partecipazione privata e vendendo beni pubblici, statali e locali. Cose che il decreto del Fare non fa.

martedì 11 giugno 2013

L’ok del pensatoio di Soros al “braccio di ferro” del Cav., di Marco Valerio Lo Prete

Parla Auerback


Il direttore di Inet: Letta adesso sfrutti l’offensiva (anti Berlino) sulla Bce

Un “braccio di ferro” con la leadership tedesca per cambiare certe storture di fondo della moneta unica, consentendo innanzitutto alla Banca centrale europea di perseguire una politica monetaria espansiva sulla scorta delle altre Banche centrali occidentali, altrimenti il tessuto produttivo italiano si inaridirà senza sosta: “O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”, ha detto l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nella sua intervista al Foglio di venerdì scorso. Questa proposta, di per sé “ragionevole”, può diventare “più credibile ed efficace” se il governo Letta “coglierà l’occasione” e la farà sua in qualche modo. A chiosare in questo modo la proposta berlusconiana del “braccio di ferro” non è un ammiratore incondizionato del Cav., anzi, ma Marshall Auerback, direttore dell’Institute for New Economic Thinking (Inet), think tank fondato dal finanziere liberal George Soros. L’economista canadese dice al Foglio di condividere l’analisi di partenza che Berlusconi fa della situazione economica, soprattutto l’enfasi sulle difficoltà del settore manifatturiero italiano. Ieri l’Istat ha rivisto al ribasso l’andamento della crescita nel primo trimestre 2013 (meno 2,4 per cento rispetto a un anno fa) e della produzione industriale. “Berlusconi ha molte pecche – dice Auerback – ma ha un ottimo istinto politico. Considerato poi il suo background industriale, è indubbio che sia abile a fiutare il sentimento popolare dominante. Continua ad avere successo, anche perché il movimento di Grillo si sta mostrando senza idee. Berlusconi potrà avere una condotta morale dubbia, ma per le ragioni di prima rimane un superman della politica italiana”. Tutto questo non garantisce di per sé la solidità della proposta di politica economica che il Cav. fa al governo: “Ma il punto centrale è proprio il fatto che la Banca centrale europea deve fornire sostegno illimitato ai debiti pubblici nazionali. Cioè eliminando quelle condizionalità che invece sono previste nel programma ‘Outright monetary transactions’ (Omt) che Draghi ha predisposto per acquistare i bond dei paesi in difficoltà”. Mettiamo che accada, cosa succederebbe il giorno dopo? “Se la Bce dicesse che potenzialmente è pronta a sostenere tutto il debito italiano, i tassi d’interesse sui bond scenderebbero ancora. Le banche si finanzierebbero a condizioni migliori e tornerebbero a elargire credito. Mentre gli stati, spendendo di meno per servire il debito, avrebbero risorse per stimolare la crescita. E l’inflazione non è comunque un rischio”.

Draghi alla tv tedesca con toni rigoristi
Il dibattito europeo però procede nella direzione opposta. Una parte della leadership tedesca ha dichiarato guerra alle aperture di Draghi, come dimostra il ricorso contro l’Omt che si discute oggi davanti alla Corte costituzionale tedesca. Ieri il banchiere centrale italiano, parlando alla tv tedesca Zdf, ha detto che anche gli stati devono poter fallire e che la strada da seguire è quella delle riforme stile-Berlino. “Se l’Omt salta o viene limitato dai giudici di Karlsruhe, e secondo i miei contatti è uno scenario plausibile, con esso sarà l’Eurozona tutta a saltare”, dice Auerback. Perciò l’economista vicino a Soros giudica positivamente la controffensiva di Berlusconi. Inclusa la minaccia di una potenziale uscita dell’Italia dall’euro se la Germania non muterà atteggiamento: “Nei principali comparti manifatturieri, il solo grande concorrente rimasto per Berlino siete voi – dice – La Francia infatti ha perso troppi colpi sul fronte della competitività. L’Italia ha un settore bancario grossomodo robusto e un avanzo primario nelle finanze pubbliche. Uscendo dalla moneta unica, la sua valuta sarebbe molto più debole dell’euro e la sua struttura produttiva abbastanza avanzata da creare problemi a quella tedesca. La minaccia, quindi, è molto credibile”. Le tesi di Berlusconi, per Auerback, sono rafforzate dal fatto di non essere arrivate in campagna elettorale, ma dall’interno di un governo di grande coalizione. Ancora più “credibili ed efficaci” lo sarebbero se sostenute da Enrico Letta: “Nei panni del vostro premier, non esiterei a recapitare il messaggio alla Merkel. A costo di fare il gioco ‘poliziotto buono-poliziotto cattivo’, lasciando intendere: ‘Capite quale sarebbe l’alternativa a questo governo?’”. Nulla assicura che la risposta sarà positiva: “I tedeschi hanno spinto senza sosta sulla loro linea sbagliata perché finora non c’è stata un’opposizione credibile. E comunque, storicamente, si sa che quando la Germania continua a spingere sempre e comunque, rischia spesso di andare troppo oltre”, conclude Auerback.

domenica 9 giugno 2013

Minacciare Berlino, poi uscire davvero. Per Bootle è “l’idea più ragionevole”, di Marco Valerio Lo Prete

Non bisogna soltanto far capire a Berlino che Roma è pronta a uscire dall’euro se l’architettura della moneta unica non cambierà. Bisogna poi farlo davvero.Perseguire questa linea “è l’idea più ragionevole”, dice al Foglio Roger Bootle, fondatore e direttore di Capital Economics, commentando l’intervista di ieri al Foglio dell’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Soltanto così si può contrastare il processo di “deindustrializzazione” in corso, visto che i dislivelli di competitività tra paesi dell’Eurozona sono ormai viziati anche da effetti monetari e di costo indipendenti dalle riforme che pure vanno portate a termine. Bootle è a capo di una società di ricerca economica britannica con sede tripartita tra Londra, Singapore e Toronto, dirige 40 economisti e rifornisce con i suoi report 1.500 tra banche d’investimento e operatori in tutto il mondo. Soprattutto, Bootle nel 2012 si è aggiudicato il premio più importante per le materie economiche dopo il Nobel, cioè il Wolfson Prize. L’anno scorso il premio ha avuto particolare risonanza sui media internazionali ed è stato apprezzato dal Financial Times perché finalmente sdoganava quello che fino a quel momento era stato un tabù nel dibattito pubblico: avrebbe vinto infatti chi avesse studiato la via migliore, per un paese qualsiasi, per uscire dall’euro. Bootle si è meritato le 250 mila sterline per il primo classificato e ora commenta così l’idea di Berlusconi: “E’ un’opzione reale, è fattibile, non è impossibile”. Anche per un paese grande come l’Italia, con un pil di 1.600 miliardi di euro e un debito pubblico ancora maggiore? “Per me è l’opzione più realistica”. Il piano di Bootle – al netto di dettagli pur importantissimi – prevede che un paese abbandoni la moneta unica tenendo i suoi piani “segreti” fino all’ultimo, poi introduca controlli di capitale, inizi a stampare moneta subito dopo l’uscita formale, faccia default sui suoi debiti, ricapitalizzi le banche e, anche attraverso la naturale svalutazione monetaria, punti tutto sull’export e sulla cooperazione con i paesi rimasti nell’euro. Non è una passeggiata, sia chiaro, ma per l’economista inglese gli effetti complessivi sarebbero migliori del “decennio di stagnazione” cui è condannato oggi il nostro paese.
Bootle, in passato consigliere economico dei governi conservatori, osserva che non tutto il processo di “distruzione” innescato dal ciclo economico è lì per nuocere. “E’ normale che i settori più inefficienti siano penalizzati, poi però è normale pure che si abbiano altre occasioni di reimpiegare capitale e forza lavoro”. E’ questa seconda fase che oggi, almeno in parte, viene a mancare per le rigidità dell’euro. C’entrano anche le mancate riforme strutturali, certo, e il fatto che allo stesso tempo sia venuta a mancare l’arma della svalutazione della lira per riguadagnare competitività. “Oggi quindi il tasso di cambio reale rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, in Italia ma anche in Francia e Spagna, è cresciuto troppo. Ci sono tre opzioni per recuperare: facendo aumentare la produttività, si può arrivare a guadagnare un quarto di punto l’anno ma quanto ci si impiega per recuperare un gap del 30 per cento? Poi si possono tagliare i salari, come in Grecia e Irlanda, ma l’economia si deprime e il debito aumenta. Non è il massimo. Infine si può svalutare la moneta e riguadagnare subito competitività. Nel caso dell’Italia si dovrebbe uscire dall’euro”. Berlusconi però non si definisce un sostenitore della fine della moneta unica, piuttosto propone di trattare con Berlino tenendo questa ipotesi estrema sul tavolo. “Effettivamente almeno due cose si potrebbero cambiare nell’attuale governance economica. Primo, chiedendo che la Bce attivi una politica di Quantitative easing in stile Fed. Secondo, rilassando la politica fiscale nei paesi del nord virtuoso e sostenendo così la periferia”. Il fondatore di Capital Economics però avverte: “La Germania non si muoverà. I tedeschi hanno un blocco mentale rispetto all’uso della politica monetaria. Pensano che davvero gli indicatori di ‘competitività’ abbiano sempre un significato ‘reale’, cioè ci dicano se l’operaio italiano sa o non sa fare bene una certa cosa. Mentre nella realtà pesano fattori di costo e monetari che con l’abilità dei lavoratori c’entrano poco. Provino a fare Mercedes in Italia, per esempio, con l’accesso al credito che c’è da voi”. Per Bootle però Berlino considererà soltanto l’elemento di “ricatto” in quello che pure fosse un tentativo di “brinkmanship”, come l’ha definito ieri Michele Salvati sul Corriere della Sera, cioè una politica che consiste nel “manovrare una situazione rischiosa, ai limiti della sicurezza”: “Berlino andrà a vedere l’ipotetico bluff e non si muoverà. Se l’Italia a quel punto non desse seguito ai suoi intendimenti di abbandonare l’euro, perderebbe tutta la credibilità. Se invece si decidesse a farlo, dovrà avere un piano dettagliato, altrimenti anche l’aggiustamento improvviso avrà effetti dolorosi”.

Passa per l'euro un'agenda non minimalista per il governo Letta, di Giuliano Ferrara

Berlusconi, colloquio su processi e governo. O Letta raddrizza le storture dell’euro o perde tutto

Che cosa avrà veramente in animo di fare Berlusconi, ora che ha vinto il dopo elezioni? Un modo per saperlo è domandarlo a lui. Mi ha invitato a pranzo, e questa è la conversazione che abbiamo avuto. La parte mia conta poco. La sua è molto interessante. Ne riferisco tra virgolette i contenuti che mi sembrano più forti, e cerco di dare conto del contesto.
Berlusconi ha dei sospetti, tutti appesi al prossimo 19 giugno. La Corte costituzionale deve decidere la sorte di un processo in cui il pm ha chiesto cinque anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici, cioè la ghigliottina per prassi fiscali e aziendali che solo a viva forza possono essere penalmente ascritte a lui. Berlusconi considera quel processo un tentato omicidio politico, ma si esprime con cautela, evita questa dizione come la peste, anche con un amico personale e un critico feroce dell’attività dei pm più accaniti come io sono. E’ cauto anche sulla Corte costituzionale, che dovrebbe giustificare con una praticamente impossibile capacità argomentativa la negazione del diritto al “legittimo impedimento” a un presidente del Consiglio il quale, “quel giorno” del 2010, doveva presiedere un Consiglio dei ministri. Ma il sospetto di un atto che si vorrebbe definitivo e finale galleggia nell’aria, nel suo sguardo freddo e diffidente, nel linguaggio del corpo e nel timbro della voce. “E’ veramente così difficile avere ragione di procedure manifestamente ingiuste?”, si domanda.
Concesso un sorriso di commiserazione all’unica sentenza per violazione di segreto investigativo, che riguarda lo scoop del Giornale sull’avidità di banche della sinistra, anche per l’altro dibattimento arrivato alla fase finale del primo grado, il processo istruito dal pm Ilda Boccassini sulla sua vita privata, il fastidio, e in parte anche lo sdegno per come è stato trattato da inquisitori che usano un potere molto discrezionale in modo arbitrario e persecutorio, sono temperati dalla situazione politica e generale in cui il Berlusconi di oggi si sente pienamente inserito.
“Ho sostenuto Monti nella fase critica, ho accettato che per un periodo limitato una soluzione tecnocratica riaprisse spazi che sembravano chiusi per la nostra economia e per la nostra immagine in Europa, ho avvertito che c’era un limite alla cooperazione istituzionale, varcato quel limite con l’ingresso in una brutta recessione sono ridisceso in campo e ho fatto la mia parte: il risultato si conosce, e non parlo solo della difficile rimonta elettorale. Quel che più è importante, credo di avere dato un contributo decisivo a una sana stabilizzazione, al rientro pieno del paese entro criteri di democrazia politica, dunque alla saldezza delle istituzioni, confermata dalla assennata scelta di rieleggere un presidente di garanzia come Giorgio Napolitano e di fare il governo possibile con una persona rispettabile come Enrico Letta”.
Berlusconi è convinto che il responso elettorale dimostra come gli elementi più fatui e calunniosi della campagna sulla sua vita privata sono stati considerati un’onta per il diritto e per la privacy da molti milioni di italiani. E crede fermamente che una condanna smisurata e non credibile, come quella che è stata richiesta, non avrebbe effetti distorsivi decisivi sulla vita pubblica italiana, per quanto lo riguarda e per quanto riguarda il suo rapporto di fiducia e di rappresentanza con una larga parte di questo paese. “Queste storie di sesso e assaggiatori sono già considerate non più che una cattiva fiction pettegola e insincera da gran parte dei miei concittadini”. Per lui, quindi, non è lì il problema, anche se una condanna “per inviti a cena a casa propria” sarebbe nel suo giudizio la realizzazione perfetta dell’ingiustizia assoluta, un caso di scuola al quale guarderebbero con raccapriccio, al netto delle inimicizie politiche, l’Italia e il mondo.
“Il metro di misura per calibrare con senso della realtà e senso dello stato e della comunità un giudizio sull’avvenire di questo paese non è quello dei miei processi, fatto salvo il rischio di un premio all’accanimento che risulterebbe una turbativa di notevole impatto. Il metro è l’economia”, dice Berlusconi. “Parlo praticamente ogni giorno con imprenditori, sindacalisti, artigiani, commercianti e altri soggetti sociali di un paese oggi in grave crisi. Certe cose vanno fatte e subito: alleviare le tasse sul lavoro, risolvere il guaio grosso dell’Imu, fare attenzione anche all’Iva, non tanto per l’inflazione, che non è un rischio attuale, quanto per la depressione dei consumi. Bisogna trovare risorse, destinarle a impieghi produttivi, mettere le imprese in condizione di riprendersi e non solo nel settore votato all’esportazione, tagliando il molto grasso che c’è ancora da tagliare nella spesa pubblica. In due, tre anni, va spazzata via la struttura punitiva di una tassa come l’Irap, e le assunzioni devono poter avvenire a costi fiscali incoraggianti, nettamente al ribasso se non azzerati, a partire da subito. Prima è meglio è. Così, per l’edilizia, bisogna radicalmente riformare i regimi autorizzativi e mettere tutti in grado di dare una mano, creando lavoro e profitto d’impresa, in un contesto di formidabile liberalizzazione. Ma non basta, non basta, non basta ancora”.
Confindustria, non sempre in coerenza con le sue strategie degli ultimi anni, denuncia come esiziale la crisi del manifatturiero, e in quel settore siamo i secondi in Europa. Abbiamo perso la chimica, l’automobile, ora sembra essere la volta dell’acciaio.
“Ecco. Qui si misura la vitalità di un governo o la sua complicità più o meno consapevole con le forze negative e paralizzanti che premono contro una soluzione effettiva della crisi da recessione. Bisogna che il governo sappia con autorevolezza ingaggiare un braccio di ferro, senza strepiti ma con grande risoluzione, allo scopo di convincere i paesi trainanti dell’Europa, e in particolare la Germania di Angela Merkel, che siamo di fronte a una alternativa secca: o si rimette in moto in forma decisamente espansiva il motore dell’economia, compreso quello finanziario legato alla moneta unica, uscendo dalla paralizzante enfatizzazione della crisi da debito pubblico, oppure le ragioni strategiche della solidarietà nella costruzione europea, dall’unione bancaria a tutto il resto, si esauriscono e si illanguidiscono fino alla rottura dell’equilibrio attuale”.
Che vuol dire in termini più semplici? “Vuol dire che paesi del peso e della consistenza del nostro non possono accettare una situazione in cui fare impresa non è più conveniente, in cui bisogna delocalizzare o ristrutturare fino alla distruzione di ricchezza e lavoro in quantità inimmaginabili per l’immenso squilibrio creatosi nel mondo dei mercati aperti, a partire dai costi di produzione e dalla incredibile situazione del credito e della circolazione della moneta e degli impieghi. Un’Italia che perde ancora peso e ricchezza oltre quello che ha già perso, pronta ad essere messa all’incanto con metodi egemonici da chi è in posizione di forza, non è per noi uomini del nord, per noi imprenditori e politici di un paese che in parte è ancora da risanare e da unificare, una prospettiva accettabile. Questo è il contenuto vero di quello che chiamo il braccio di ferro. O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”.
Sembra una prospettiva molto ardua, in una condizione critica generale per l’occidente industriale e il suo cuore europeo. Poi uno magari pensa all’America, al Giappone, alla Gran Bretagna, e si dice: ma qui le strategie della ripresa sono in marcia, anche con qualche cospicuo risultato. “Sì, ma lì si stampa moneta in quantità inimmaginabili, e la sfida alla recessione si fa con le armi della libera e sovrana determinazione del livello di liquidità in circolazione. La differenza è tutta qui. Se la paura dell’inflazione e un criterio rigorista astratto diventano una prigione o cappio monetario, allora bisogna cambiare. E il governo italiano a questa questione deve fare attenzione, perché è lì che si vede o non si vede uno spiraglio serio per tutelare e irrorare una vera democrazia della rappresentanza popolare e della prosperità. O la nostra voce alta e forte si farà sentire oppure il governo perderà la legittimazione popolare che l’unità nazionale, in sostegno di una larga coalizione, gli garantisce. Altro che i processi. Queste scemenze lasciamo che le dicano i maniaci dell’antiberlusconismo”. 
La conversazione finisce qui. Avviata tra commenti sospettosi, termina con un duro criterio di realismo politico che riguarda non le persone e le beghe di lobby e di partito, ma un paese che deve battersi per sopravvivere e rilanciarsi sul serio dopo decenni di bassa produttività, di bassa competitività, e dopo una fase dell’euro che si è rivelata tortuosa. “Ecco”, aggiunge Berlusconi, “tortuosa è la parola purtroppo giusta. Di una tortuosità tale per cui ora un governo si giustifica se è in grado di raddrizzarla. Punto e basta”.
Giuliano Ferrara

Merkel già gioca a braccio di ferro, di Marco Valerio Lo Prete

La proposta choc del Cav. e quelle storture monetarie e fiscali dell’euro che nascono in Germania

Un “braccio di ferro a Berlino” è ciò che occorre, secondo l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per rilanciare il governo di grande coalizione guidato da Enrico Letta. Una trattativa estremamente ardita per rafforzare la potenza di fuoco della Banca centrale europea: “O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”. Euro break up, insomma. Non è affatto casuale che questo “braccio di ferro”, come l’ha chiamato il Cav. nella sua intervista di ieri al Foglio, si debba giocare a Berlino. Non soltanto perché la Germania è la prima potenza economica dell’Unione europea, ma perché per giocare a braccio di ferro bisogna essere in due, e Berlino – nonostante il wishful thinking di chi legge le esternazioni del Cav. soltanto in chiave domestica – in questo gioco si sta cimentando da tempo, come dimostrano alcune evoluzioni della politica monetaria e fiscale dell’Eurozona.
Per decifrare le forti pressioni politiche in arrivo dal governo di Angela Merkel, si parta dalla politica monetaria. Due giorni fa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato e ha fatto deprimere i mercati. Le Borse si riprenderanno, ovvio, ma intanto molti osservatori iniziano a contare i giorni prima che svanisca l’effetto “scudo” della politica monetaria espansiva. Lo spread a quel punto tornerà a salire, con annessi aggravi di spesa per le finanze pubbliche e con ulteriori strette sul credito privato. Ai mercati non è piaciuta la temporanea ammissione di impotenza di Draghi: niente tagli al tasso di riferimento, niente misure straordinarie per le Pmi (rimangono “allo studio”), niente tassi negativi sui depositi bancari. Occorre un’Unione bancaria dotata di un efficace meccanismo di risoluzione delle banche in crisi, ha auspicato Draghi, ma anche su questo nessun passo avanti. Innanzitutto perché il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha chiarito che un’Unione bancaria troppo “unita”, in cui supervisione finanziaria e meccanismo di risoluzione siano gestiti dalla Bce, non va giù ai tedeschi e ai loro banchieri, se non nel lungo periodo. Non solo: mentre Berlino ripete il mantra della necessaria “non interferenza” degli stati membri nella politica monetaria, in Germania è partita un’offensiva contro la scelta finora più coraggiosa ed efficace di Draghi, quella dell’Omt – cioè l’Outright monetary transactions, l’ipotesi di acquisto illimitato di titoli di stato di paesi in crisi – che ha placato lo spread e le aggressioni ai debiti sovrani a partire dalla scorsa estate. La prossima settimana a Karlsruhe si inizia infatti a discutere un ricorso anti Omt depositato da un parlamentare tedesco davanti alla Corte costituzionale federale tedesca. La Banca centrale tedesca, la Bundesbank, azionista di maggioranza relativa della Bce, non si è fatta sfuggire l’occasione e curiosamente ha preso le parti del ricorrente. Così la settimana prossima il presidente Jens Weidmann, ex consigliere di Merkel, sarà in tribunale a censurare pubblicamente Draghi, mentre quest’ultimo dovrà difendersi con tanto di avvocati (vedi articoli sotto). Siamo alla riproposizione dello stallo durato mesi e che caratterizzò il 2012, quando i vertici europei si chiudevano regolarmente con conclusioni ben poco definitive, essendoci allora il timore che i giudici di Karlsruhe facessero saltare il Meccanismo europeo di stabilizzazione, l’Esm. Sul Sole 24 Ore di ieri, Donato Masciandaro, bocconiano pacato e massimo esperto di Banche centrali, ha parlato apertamente di “ostilità tedesche” verso le scelte di Draghi e ha spiegato che dietro “il conservatorismo della Bce” ci possono essere non ragioni economiche ma “ragioni tattiche, legate alla politica interna tedesca”. “E’ un dubbio lecito che andrebbe fugato”, ha concluso Masciandaro, perché “l’incertezza genera incertezza, rischiando di minare la credibilità della Bce come autorità di tutela della moneta europea, indipendente da ogni politica affetta da miopia. Anche se di matrice tedesca”. Da martedì dunque, a Karlsruhe, l’establishment teutonico riprende un nuovo round decisivo a “braccio di ferro”. Chi non vi partecipa, come dimostrano i rendimenti sui bond statali che tornano a salire e il credito bancario che si continua a inaridire nei paesi periferici, ha soltanto da perdere. Certo, anche l’economia tedesca rallenta (ieri la Bundesbank ha detto che il pil crescerà dello 0,3 per cento quest’anno e non dello 0,4, l’anno prossimo dell’1,5 e non più dell’1,9), ma la situazione è anni luce da quella italiana o spagnola, a partire dai prestiti bancari che continuano ad affluire verso imprese che tra l’altro si possono finanziare convenientemente anche sul mercato obbligazionario.
Così la Germania, che pure ha fatto le riforme strutturali per tempo (era l’inizio degli anni 2000, quando Berlino sforò il tetto del rapporto deficit/pil senza ricevere sanzione alcuna), da tempo si può permettere di osannare la prospettiva a lungo termine dell’Unione politica europea, salvo renderla irrealizzabile qui e ora (no all’Unione bancaria, no agli Eurobond, no a più fondi all’Ue, eccetera). Eppure, come ha spiegato al Foglio l’ex vice di Ben Bernanke, Donald Kohn, e come ha detto ieri il premio Nobel Paul Krugman, una Bce che non ha alle spalle una struttura di protezione fiscale unica non può fare molto di più di quanto faccia oggi.
Intanto, anche sulle modalità con cui gestire il coordinamento delle politiche fiscali nazionali, Berlino continua con il suo “braccio di ferro”. Si prenda il caso esemplare della Grecia. Questa settimana il Fondo monetario internazionale ha pubblicato un rapporto su Atene, facendo mea culpa sugli errori commessi nel 2010. Il problema non è soltanto l’eccesso di austerity e i suoi effetti recessivi presi un po’ sottogamba, come vuole la vulgata. Piuttosto, sostiene Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago non etichettabile come neokeynesiano spendaccione, “la vera colpa ammessa dall’Fmi è di non aver tentato, fin dall’inizio, una ristrutturazione del debito”. Cioè un default controllato che riducesse il fardello del debito pubblico di Atene e consentisse di concentrarsi su rigore temperato e riforme strutturali. Allora un coinvolgimento dei privati, tra cui molte banche tedesche e francesi, avrebbe creato più danni che altro, era la tesi dell’Ue a trazione tedesca, accusa il Fmi. Dunque non solo in Grecia, dice Zingales, ma anche in Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, “la Troika ha scelto di imporre tutto il peso dell’aggiustamento sui paesi debitori, senza considerare che l’errore non è solo di chi prende a prestito, ma anche di colui che questi prestiti concede”. Il Fmi ha fatto mea culpa, ma a Berlino quando ci penseranno? Per ora, Cav. o non Cav., la leadership tedesca continua con il braccio di ferro.

venerdì 7 giugno 2013

Imparare la lezione americana, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Crescita, occupazione, deficit pubblico: quante differenze con l'Europa

Gli Stati Uniti stanno crescendo al ritmo di circa il 2 per cento l'anno e in un triennio il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,5 per cento. Il deficit pubblico al netto degli interessi è sceso di 7 punti in percentuale del Prodotto interno lordo (Pil): dall'11,5 per cento circa al culmine della crisi nel 2009, al 4,5 per cento previsto per quest'anno. In tre anni, fra il 2011 e il 2013, hanno ridotto le spese di circa 2 punti di Pil e aumentato le imposte di un punto e mezzo. Anche in Europa i deficit sono scesi, ma la crescita non riparte. In Italia stiamo attraversando la recessione più grave dal dopoguerra. Che cosa spiega queste differenze?

Alcune di queste sono difficili da eliminare nel breve periodo: la maggiore flessibilità dei mercati americani, in particolare quello del lavoro, la mancanza in Europa di una politica fiscale comune, le divergenze fra i Paesi dell'euro che impediscono una maggiore integrazione dell'eurozona e legano le mani alla Bce. Ma una cosa importante la potevamo fare, imparando dagli Stati Uniti: attaccare alla radice e senza indugi il problema delle banche. Le prime misure del governo americano, all'inizio della crisi, quando era ancora presidente George W. Bush, furono rivolte alle banche, le quali furono obbligate a rafforzare il loro patrimonio anche con l'aiuto pubblico. Fatto questo, gli interventi volti a ridurre il deficit (si può poi discutere se siano stati più o meno sufficienti e di buona qualità) sono stati molto meno costosi che in Europa proprio perché non si sono sommati a una contrazione del credito.

Nell'eurozona abbiamo seguito la sequenza sbagliata. Occorreva prima rafforzare le banche affinché la loro debolezza non desse luogo a una contrazione dei prestiti, e dopo, solo dopo, ridurre i deficit tagliando le spese. Invece abbiamo fatto esattamente il contrario. Non abbiamo ricapitalizzato le banche e anziché tagliare le spese abbiamo aumentato le imposte. Alcuni Paesi, fra cui l'Italia, hanno rifiutato i fondi messi a disposizione, sia pure tardivamente, dall'Europa per ricapitalizzare le banche. Non li abbiamo voluti per due motivi. Per lo stupido orgoglio di non accettare che qualcun altro metta il becco nelle nostre banche: «Le nostre autorità sono più che sufficienti» (lo si è visto alla Banca Popolare di Milano!). E perché le Fondazioni bancarie, ovvero i padroni delle banche, non hanno i fondi per ricapitalizzarle, e non vogliono diluire la loro proprietà.

Due giorni fa Standard & Poor's ha pubblicato uno studio che evidenzia (se ancora ve ne fosse bisogno) la gravità della contrazione del credito in Italia, soprattutto per le imprese piccole e medie. Si è creato un circolo vizioso. Private del credito le aziende falliscono; più imprese falliscono, più crescono le sofferenze bancarie, cioè i crediti inesigibili; più aumentano le sofferenze, più diminuisce il capitale delle banche e con esso i prestiti alle imprese e più crescono i fallimenti.

Stiamo ripetendo l'errore che fece il Giappone vent'anni fa quando, dopo un crac immobiliare, lasciò le banche a languire per un ventennio. Il risultato è purtroppo ben noto: vent'anni di crescita zero e un debito pubblico che ha raggiunto il 200 per cento del Pil. Per favore: impariamo dagli Usa, non dal Giappone.


giovedì 6 giugno 2013

Cari europei, ecco perché Draghi non può imitare la Fed, di Marco Valerio Lo Prete

Il freno tutto politico (e non statutario) alla “flessibilità” monetaria spiegato da Kohn, ex vice di Bernanke

Oggi a Francoforte tocca di nuovo a Mario Draghi e al consiglio direttivo della Banca centrale europea. Le attese verso l’istituto, come al solito, sono enormi. Non solo per le misure allo studio per far riaffluire il credito alle imprese del continente. Ieri infatti il settimanale tedesco Zeit attribuiva alla Banca centrale anche un piano per “esaminare dall’autunno prossimo i bilanci dei più importanti istituti finanziari”, anticipando di fatto l’Unione bancaria. “E’ naturale che la gente guardi all’unica istituzione davvero federale dell’Europa unita, attendendosi che possa fare molto – dice al Foglio Donald Kohn, dal 2006 al 2010 numero due del governatore della Federal reserve, Ben Bernanke – Ma la Bce si muove pur sempre nei limiti imposti dalla cornice istituzionale comunitaria e da una democrazia che è ancora su base nazionale”. Kohn, che ci parla nel suo ufficio della Brookings Institution a Washington e che era al fianco di Bernanke all’apice della crisi finanziaria, oggi fa “il pendolare” con Londra, dove è membro della Financial Policy Committee della Bank of England. Utilizza toni diplomatici a chi gli chieda di valutare quale Banca centrale del mondo occidentale sia stata più rapida nel rispondere alla crisi e poi contrastarla, ma alla fine ammette che la Fed ha mostrato una “pronunciata flessibilità” sin da subito. Da quando, ricorda Kohn, Bernanke inviò una e-mail a lui e ai suoi colleghi, nel pieno della tempesta Lehman Brothers, chiedendogli di condividere le loro “wild ideas”, cioè le idee folli, per assicurare che il mercato finanziario continuasse a funzionare nonostante i colpi subiti. Il problema, però, non è tanto quello della qualità delle singole persone, visto che l’esperto della Brookings parla benissimo dell’italiano Draghi. “Tuttavia oggi Bce e Fed sono in posizioni molto differenti. L’economia americana sta crescendo. L’Eurozona è in recessione e all’orizzonte non si vede un’inversione di rotta”. Forse la diversa reazione dipende dal mandato più ampio della Fed che non deve perseguire solo la “stabilità dei prezzi”, come la Bce, ma pure la “piena occupazione”: “Anche questo aspetto non è decisivo – dice Kohn – Francoforte è stata un po’ più cauta all’inizio perché i prezzi non diminuivano, al punto che nel 2011 è tornata ad alzare temporaneamente il costo del denaro, ma oggi non è più così. L’inflazione nell’Eurozona è sotto il target del 2 per cento, non c’è contrasto tra i due obiettivi, occupazione e stabilità dei prezzi”.
Come dire che la Bce potrebbe in teoria seguire esattamente la strada della Fed. Ma il condizionale è d’obbligo. “Perché la Bce ha a che fare con 17 politiche fiscali diverse e 17 stati sovrani. Negli Stati Uniti non avremo una buona politica fiscale, ma almeno ne abbiamo una sola!”, esclama Kohn. Il banchiere fa l’esempio delle misure allo studio a Francoforte per fornire credito alle piccole e medie imprese, “visto che le attuali misure, per quanto coraggiose, non si trasmettono all’economia reale, soprattutto nella periferia dell’Eurozona”: “Negli Stati Uniti, innanzitutto, non abbiamo previsto un programma specifico per questo fine. Ma già nell’autunno 2008 abbiamo trovato il modo per raggiungere le imprese”. Kohn ricorda i provvedimenti principali della Banca centrale americana per offrire fondi a soggetti non bancari e ridurre il rischio in mercati specifici come quelli della commercial paper, delle asset backed securities e delle obbligazioni societarie; per non parlare del lancio, già nel novembre 2008, del programma Talf (Term Asset-Backed Securities Loan Facility) per incentivare il rilascio di titoli garantiti (Abs) da prestiti a studenti, prestiti per l’acquisto di auto o tramite carta di credito. Soprattutto, attraverso il sostegno ai mutui, “la Fed si è concentrata sul settore immobiliare dalla cui bolla era nata la crisi”. Nel marzo scorso, secondo gli ultimi dati, il prezzo delle case in America è aumentato del 10,9 per cento su base annua. Un incremento così rapido non si vedeva dal 2006.

Il metodo comunitario? “Stile Whac-A-Mole” 
Per tornare all’Europa e alla trasmissione degli effetti della politica monetaria espansiva all’economia reale, qui siamo indietro rispetto agli Stati Uniti. In Italia per esempio, secondo un rapporto di Standard & Poor’s pubblicato ieri, “il finanziamento alle imprese da parte delle banche si è contratto di 44 miliardi nel 2012”. Nel frattempo la quota di debito in obbligazioni corporate è cresciuta di 20 miliardi, ma complessivamente “il finanziamento netto delle imprese è sceso di circa 24 miliardi, in contrasto con la maggior parte dei paesi europei. Solo la Spagna ha fatto peggio”. Kohn riprende il suo ragionamento dalla questione per lui fondamentale, quella di una politica monetaria unica affiancata a una politica fiscale frastagliata: “Acquistando i titoli del debito sovrano, per esempio, la Bce assumerebbe su di sé il rischio sovrano di un paese, convertendolo di fatto in rischio comune. Fino a che punto si può spingere Draghi, per di più in assenza di una legittimazione democratica? Idem per le misure sulle Pmi: c’è sempre il problema di non far finanziare indirettamente le imprese italiane e spagnole al contribuente tedesco. Per la Bce, dunque, la situazione non è soltanto complicata da un punto di vista economico, ma anche da un punto di vista politico”. Per l’ex numero due di Bernanke non ci sono dubbi: senza passi verso “l’unione politica”, questa ridotta “flessibilità” di Francoforte non verrà mai meno. In Europa però sono forti le voci di quanti bollano ogni possibile intervento più espansivo della Bce come un sostegno indebito agli stati, un incentivo a rendere più rilassata anche la politica fiscale. Se Draghi compra i titoli dell’Italia o fornisce credito alle sue imprese, è il ragionamento, automaticamente incentiva Roma a frenare austerity e riforme: “Anche negli Stati Uniti il Congresso ha messo sotto esame la Fed”, ha accusato l’istituzione di “incentivare l’azzardo morale”, cioè di esentare il governo dalle eventuali conseguenze economiche negative di un rischio e quindi di premiare comportamenti rischiosi. Secondo Kohn, però, “la politica monetaria deve essere concepita per raggiungere i suoi specifici obiettivi, non per dare lezioni ai politici”. Il suo ex collega alla Bank of England, Adam Posen, dice infatti che la Bundesbank e i sostenitori di una politica monetaria più ortodossa sono mossi da una forma di “moralismo monetario”: “Sulle loro motivazioni – sorride Kohn – preferiscono non azzardare ipotesi”. Il dibattito dunque continua, ma in Europa per ora rimaniamo a un modello di integrazione stile “Whac-A-Mole”, come lo definisce Kohn: nel classico gioco statunitense, ogni persona ha un martello in mano e deve schiacciare vari animali di gomma che spuntano uno dopo l’altro da alcuni buchi che ha davanti. Vince chi si muove più freneticamente, ricacciando nel buco il singolo pupazzo che salta fuori all’improvviso, senza una strategia. “Come con i vari vertici dei capi di governo dell’Ue sull’Unione bancaria, per intenderci”, conclude Kohn.

Austerity and Demoralization, by Robert J. Shiller

The high unemployment that we have today in Europe, the United States, and elsewhere is a tragedy, not just because of the aggregate output loss that it entails, but also because of the personal and emotional cost to the unemployed of not being a part of working society.
This illustration is by Margaret Scott and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Austerity, according to some of its promoters, is supposed to improve morale. British Prime Minister David Cameron, an austerity advocate, says he believes that his program reduces “welfare dependency,” restores “rigor,” and encourages the “the doers, the creators, the life-affirmers.” Likewise, US Congressman Paul Ryan says that his program is part of a plan to promote “creativity and entrepreneurial spirit.”
Some kinds of austerity programs may indeed boost morale. Monks find their life’s meaning in a most austere environment, and military boot camps are thought to build character. But the kind of fiscal austerity that is being practiced now has the immediate effect of rendering people jobless and filling their lives with nothing but a sense of rejection and exclusion.
One could imagine that a spell of unemployment might be a time of reflection, reestablishment of personal connections, and getting back to fundamental values. Some economists even thought long ago that we would be enjoying much more leisure by this point. John Maynard Keynes, in his 1930 essay “Economic Possibilities for Our Grandchildren,” speculated that, within a hundred years, that is, by 2030, higher incomes would reduce the average workday to a mere three hours, for a total workweek of only 15 hours.
While there are still 17 years to go, it appears that Keynes was way off the mark. So was Robert Theobald, who, in his 1963 book Free Men and Free Markets questioned the public’s repugnance toward high unemployment. He asserted that “we can have meaningful leisure rather than destructive unemployment,” and that we do not need “a whirling-dervish economy dependent on compulsive consumption.”
But finding something satisfying to do with our time seems inevitably to entail doing some sort of work: “meaningful leisure” wears thin after a while. People seem to want to work more than three hours a day, even if it is assembly-line work. And the opportunity to work should be a basic freedom.
Unemployment is a product of capitalism: people who are no longer needed are simply made redundant. On the traditional family farm, there was no unemployment. Austerity exposes the modern economy’s lack of interpersonal connectedness and the morale costs that this implies.
Work-sharing might keep more people marginally attached to their jobs in an economic slump, thereby preserving their self-esteem. Instead of laying off 25% of its workforce in a recession, a company could temporarily reduce workers’ hours from, say, eight per day to six. Everyone would remain employed, and all would come a little closer to Keynes’s ideal. Some countries, notably Germany, have encouraged this approach.
But work-sharing raises technical problems if increased suddenly to deal with an economic crisis like the one we are now experiencing. These problems preclude the sudden movement toward the ideal of greater leisure that thinkers like Keynes and Theobald proclaimed.ne problem is that workers have fixed costs, such as transportation to work or a health plan, that do not decline when hours (and thus pay) are cut. Their debts and obligations are similarly fixed. They could have bought a smaller house had they known that their hours would be reduced, but now it is difficult to downsize the one that they did buy.
Another problem is that it may be difficult to reduce everyone’s job by the same amount, because some jobs scale up and down with production, while others do not.
In his book Why Wages Don’t Fall During a Recession, Truman Bewley of Yale University reported on an extensive set of interviews with business managers involved with wage-setting and layoffs. He found that they believed that a serious morale problem would result from reducing everyone’s hours and pay during a recession. Then allemployees would begin to feel as if they did not have a real job.
In his interviews with managers, he was told that it is best (at least from a manager’s point of view) if the pain of reduced employment is concentrated on a few people, whose grumbling is not heard by the remaining employees. Employers worry about workplace morale, not about the morale of the employees they lay off. Their damaged morale certainly affects others as a sort of externality, which matters very much; but it does not matter to the firm that has laid them off.
We could perhaps all be happy working fewer hours if the decline reflected gradual social progress. But we are not happy with unemployment that results from a sudden fiscal crisis.
That is why sudden austerity cannot be a morale builder. For morale, we need a social compact that finds a purpose for everyone, a way to show oneself to be part of society by being a worker of some sort.
And for that we need fiscal stimulus – ideally, the debt-friendly stimulus that raises taxes and expenditures equally. The increased tax burden for all who are employed is analogous to the reduced hours in work-sharing.
But, if tax increases are not politically expedient, policymakers should proceed with old-fashioned deficit spending. The important thing is to achieve any fiscal stimulus that boosts job creation and puts the unemployed back to work.

http://www.project-syndicate.org/commentary/why-austerity-is-bad-for-morale-by-robert-j--shiller

East Asia’s Lessons for Africa, by Joseph E. Stiglitz

On June 1-3, Japan is hosting the fifth meeting of TICAD, the Tokyo International Cooperation on African Development. The meeting is a reminder that, while the rest of the world obsesses over Europe’s economic travails, America’s political paralysis, and the growth slowdown in China and other emerging markets, there remains a region – Sub-Saharan Africa – where poverty is almost the rule, not the exception.
This illustration is by Dean Rohrer and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
From 1990 to 2010, the number of people living in poverty ($1.25 per day) across Sub-Saharan Africa rose from less than 300 million to nearly 425 million, while the number living on less than $2 a day grew from about 390 million to almost 600 million. Still, the proportion of those living in poverty declined from 57% to 49% in this period. [See graph below.]
Developed countries have repeatedly broken their promises of aid or trade. Yet Japan, still suffering from two decades of economic malaise, has somehow managed to remain actively engaged – not because of its strategic interests, but in order to meet a genuine moral imperative, namely that those who are better off should help those in need.
Africa today presents a mixed picture. There are some notable successes – from 2007 to 2011, five of the world’s ten fastest-growing countries with a population of more than 10 million were in Africa. And their progress has not been based solely on natural resources.
Among the best-performing countries have been Ethiopia, where GDP grew by roughly 10% annually in the five years ending in 2011, and Rwanda, Tanzania, and Uganda, where annual output has grown by more than 6% for a decade or more. But, while some sources indicate that there are now more middle-class families in Africa (defined as having annual incomes in excess of $20,000) than in India, the continent also contains countries with the world’s highest levels of inequality.
Agriculture, on which so many of the poor depend, has not been doing well. Yields per hectare have been stagnating. Only 4% of arable and permanent cropland is irrigated, compared to 39% in South Asia and 29% in East Asia. Fertilizer use in Africa amounts to just 13 kilograms per hectare, compared to 90 kilograms in South Asia and 190 kilograms in East Asia.
Most disappointing, even countries that have put their macroeconomic house in order and have made progress in governance have found it difficult to attract investment outside of the natural-resource sector.
Japan’s engagement is particularly important not only in terms of money and moral support, but also because Africa may learn something from East Asia’s development experience. This may be particularly relevant today, with China’s rising wages and appreciating exchange rate underscoring rapid change in global comparative and competitive advantage.
Some manufacturing will move out of China, and Africa has a chance of capturing some fraction of it. This is especially significant, given that, over the last 30 years, Sub-Saharan Africa has suffered from de-industrialization. Indeed, by the late 2000’s – owing partly to the structural-adjustment policies pushed by the international financial institutions – manufacturing as a share of GDP in developing African economies was lower than it was in 1980.
But a manufacturing boom will not happen by itself. African governments must undertake industrial policies to help restructure their economies.
Such policies have been controversial. Some argue that government is not good at picking winners. Some argue that it makes no difference whether a country produces potato chips or computer chips.
Both perspectives are misguided. The purpose of such policies is to address well-known limitations in markets – for example, the important learning externalities, as skills relevant to one industry benefit nearby industries.
The goal of industrial policies is to identify these spillovers, and governments have done a very credible job in this respect. In the United States, the government promoted agriculture in the nineteenth century; supported the first telegraph line (between Baltimore and Washington, demonstrated in 1844) and the first transcontinental line, thereby launching the telecommunications revolution; and then nurtured the Internet revolution. Inevitably, government – through its infrastructure, laws and regulations (including taxation), and education system – shapes the economy. For example, American tax and bankruptcy laws, combined with deregulation policies, effectively encouraged the creation of a hypertrophied financial sector.
With resources so scarce, developing countries cannot afford the luxury of such waste. They have to think carefully about the future direction of their economies – about their dynamic comparative advantages.
The world’s most successful developing countries – those in East Asia – did just this, and among the lessons to be shared are those concerning how they conducted industrial policies at a time when their governments lacked the sophistication and depth of talent that they have today.  Weaknesses in governance may affect the instruments of industrial policy, but not its use.
Japan has other lessons to teach as well. Key elements of its development strategy – including its stress on education, equality, and land reform – are even more important today in Africa. The world has changed markedly since East Asia began its remarkable developmental transition more than a half-century ago; and differences in history, institutions, and circumstances mean that policies must be adapted to local conditions.
But what is clear is that Japan and other East Asian countries followed a markedly different course from that recommended by the neo-liberal “Washington Consensus.” Their policies worked; all too often, those of the Washington Consensus failed miserably. African countries will benefit from reflecting on these successes and failures, and on what they mean for their own development strategies.


































http://www.project-syndicate.org/commentary/east-asia-s-lessons-for-african-economic-development-by-joseph-e--stiglitz