martedì 18 giugno 2013

Così Letta rischia di diventare la copia sbiadita del Monti riformatore, di Francesco Forte

La lettura degli 80 articoli del “decreto del Fare” dà l’impressione più di un “mille proroghe” o delle “lenzuolate” di Pier Luigi Bersani, che non di un provvedimento incisivo per la crescita.Non voglio svalutare i decreti di quel genere, che in regime ordinario possono servire. Ma siamo in emergenza. E bisogna evitare che il governo guidato da Enrico Letta diventi solo la sbiadita immagine di quello guidato da Mario Monti.
Questo decreto contiene varie cose buone, specie nel credito alle imprese, ma è anche corposo nel costo: comporta un onere di 4 miliardi di euro per quest’anno e di 8 una volta a regime. Ma non affronta nodi decisivi, come fece, con coraggio e con errori, Monti nella fase iniziale del suo mandato quando prese di petto due temi fondamentali di riforma: le pensioni e il mercato del lavoro. La riforma previdenziale di Elsa Fornero ha generato effetti strutturali positivi di lungo periodo sul debito pensionistico, che è la parte meno visibile del debito pubblico ma altrettanto importante (vale 4-5 punti di pil come gli interessi sul debito pubblico). Ora questo tema è risolto, sebbene gli interessi corporativi abbiano gonfiato il cosiddetto problema degli esodati, che è stato esagerato. L’altro tema preso di petto dal “primo Monti” fu la flessibilità del mercato del lavoro. E’ rimasto irrisolto, soprattutto nella parte riguardante i licenziamenti per cause disciplinari, che non possono essere tutelati dall’articolo 18 se non quando si tratta di precisi diritti civili e di precise libertà sindacali, da specificare.
Con i contratti aziendali anche la tematica dell’articolo 18 si può risolvere: Germania docet. Monti affrontò anche l’equilibrio del bilancio, esagerando sul lato delle imposte. La stella polare che Letta dovrebbe avere, adesso, per non finire nel grigiore, è quella di affrontare questi due temi e quello delle infrastrutture, sostituendo alla durezza non la diluizione ma l’incisività, come a suo tempo fece per esempio Craxi quando tagliò la scala mobile. Per rilanciare la crescita bisogna perciò alleggerire le imposte in genere con taglio delle spese, bisogna rendere flessibile il mercato del lavoro con la contrattazione decentrata tipo Marchionne, rilanciare gli investimenti pubblici di lungo termine, con alto contenuto tecnologico. Ad esempio, le tecnologie internet che danno forza agli Stati Uniti sono il sottoprodotto dei suoi investimenti a lungo termine spaziali e militari. La “mano invisibile” non basta al mercato, ma quella visibile dello stato deve fare ciò che il privato non è in grado di fare. Allora anche le borse di studio servono.
Negli 80 articoli del decreto del Fare non ci sono riduzioni di imposte con tagli di spese: comprese le spese fiscali, ossia gli esoneri particolari. Ci sono, invece, nuove spese per assunzioni di personale, il che sarà anche giusto ma non crea crescita. Un aumento dell’Iva al 22 per cento nell’aliquota ordinaria è assurdo se si vuole rilanciare il lavoro giovanile o la piccola impresa. E lo sfoltimento dei permessi edilizi (con nuove norme di “semplificazione”, scritte in modo tortuoso) non serve a nulla se non si rivede la tassazione immobiliare. Quanto alle opere pubbliche, quelle che il decreto rifinanzia se lo meritano. Ma lo si fa con i fondi che sono stati tolti a due grandi opere, dense di tecnologia: la Tav Torino-Lione e il Ponte sullo Stretto. Queste invece si potrebbero finanziare tutte accrescendo la partecipazione privata e vendendo beni pubblici, statali e locali. Cose che il decreto del Fare non fa.

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