domenica 9 giugno 2013

Merkel già gioca a braccio di ferro, di Marco Valerio Lo Prete

La proposta choc del Cav. e quelle storture monetarie e fiscali dell’euro che nascono in Germania

Un “braccio di ferro a Berlino” è ciò che occorre, secondo l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per rilanciare il governo di grande coalizione guidato da Enrico Letta. Una trattativa estremamente ardita per rafforzare la potenza di fuoco della Banca centrale europea: “O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”. Euro break up, insomma. Non è affatto casuale che questo “braccio di ferro”, come l’ha chiamato il Cav. nella sua intervista di ieri al Foglio, si debba giocare a Berlino. Non soltanto perché la Germania è la prima potenza economica dell’Unione europea, ma perché per giocare a braccio di ferro bisogna essere in due, e Berlino – nonostante il wishful thinking di chi legge le esternazioni del Cav. soltanto in chiave domestica – in questo gioco si sta cimentando da tempo, come dimostrano alcune evoluzioni della politica monetaria e fiscale dell’Eurozona.
Per decifrare le forti pressioni politiche in arrivo dal governo di Angela Merkel, si parta dalla politica monetaria. Due giorni fa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato e ha fatto deprimere i mercati. Le Borse si riprenderanno, ovvio, ma intanto molti osservatori iniziano a contare i giorni prima che svanisca l’effetto “scudo” della politica monetaria espansiva. Lo spread a quel punto tornerà a salire, con annessi aggravi di spesa per le finanze pubbliche e con ulteriori strette sul credito privato. Ai mercati non è piaciuta la temporanea ammissione di impotenza di Draghi: niente tagli al tasso di riferimento, niente misure straordinarie per le Pmi (rimangono “allo studio”), niente tassi negativi sui depositi bancari. Occorre un’Unione bancaria dotata di un efficace meccanismo di risoluzione delle banche in crisi, ha auspicato Draghi, ma anche su questo nessun passo avanti. Innanzitutto perché il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha chiarito che un’Unione bancaria troppo “unita”, in cui supervisione finanziaria e meccanismo di risoluzione siano gestiti dalla Bce, non va giù ai tedeschi e ai loro banchieri, se non nel lungo periodo. Non solo: mentre Berlino ripete il mantra della necessaria “non interferenza” degli stati membri nella politica monetaria, in Germania è partita un’offensiva contro la scelta finora più coraggiosa ed efficace di Draghi, quella dell’Omt – cioè l’Outright monetary transactions, l’ipotesi di acquisto illimitato di titoli di stato di paesi in crisi – che ha placato lo spread e le aggressioni ai debiti sovrani a partire dalla scorsa estate. La prossima settimana a Karlsruhe si inizia infatti a discutere un ricorso anti Omt depositato da un parlamentare tedesco davanti alla Corte costituzionale federale tedesca. La Banca centrale tedesca, la Bundesbank, azionista di maggioranza relativa della Bce, non si è fatta sfuggire l’occasione e curiosamente ha preso le parti del ricorrente. Così la settimana prossima il presidente Jens Weidmann, ex consigliere di Merkel, sarà in tribunale a censurare pubblicamente Draghi, mentre quest’ultimo dovrà difendersi con tanto di avvocati (vedi articoli sotto). Siamo alla riproposizione dello stallo durato mesi e che caratterizzò il 2012, quando i vertici europei si chiudevano regolarmente con conclusioni ben poco definitive, essendoci allora il timore che i giudici di Karlsruhe facessero saltare il Meccanismo europeo di stabilizzazione, l’Esm. Sul Sole 24 Ore di ieri, Donato Masciandaro, bocconiano pacato e massimo esperto di Banche centrali, ha parlato apertamente di “ostilità tedesche” verso le scelte di Draghi e ha spiegato che dietro “il conservatorismo della Bce” ci possono essere non ragioni economiche ma “ragioni tattiche, legate alla politica interna tedesca”. “E’ un dubbio lecito che andrebbe fugato”, ha concluso Masciandaro, perché “l’incertezza genera incertezza, rischiando di minare la credibilità della Bce come autorità di tutela della moneta europea, indipendente da ogni politica affetta da miopia. Anche se di matrice tedesca”. Da martedì dunque, a Karlsruhe, l’establishment teutonico riprende un nuovo round decisivo a “braccio di ferro”. Chi non vi partecipa, come dimostrano i rendimenti sui bond statali che tornano a salire e il credito bancario che si continua a inaridire nei paesi periferici, ha soltanto da perdere. Certo, anche l’economia tedesca rallenta (ieri la Bundesbank ha detto che il pil crescerà dello 0,3 per cento quest’anno e non dello 0,4, l’anno prossimo dell’1,5 e non più dell’1,9), ma la situazione è anni luce da quella italiana o spagnola, a partire dai prestiti bancari che continuano ad affluire verso imprese che tra l’altro si possono finanziare convenientemente anche sul mercato obbligazionario.
Così la Germania, che pure ha fatto le riforme strutturali per tempo (era l’inizio degli anni 2000, quando Berlino sforò il tetto del rapporto deficit/pil senza ricevere sanzione alcuna), da tempo si può permettere di osannare la prospettiva a lungo termine dell’Unione politica europea, salvo renderla irrealizzabile qui e ora (no all’Unione bancaria, no agli Eurobond, no a più fondi all’Ue, eccetera). Eppure, come ha spiegato al Foglio l’ex vice di Ben Bernanke, Donald Kohn, e come ha detto ieri il premio Nobel Paul Krugman, una Bce che non ha alle spalle una struttura di protezione fiscale unica non può fare molto di più di quanto faccia oggi.
Intanto, anche sulle modalità con cui gestire il coordinamento delle politiche fiscali nazionali, Berlino continua con il suo “braccio di ferro”. Si prenda il caso esemplare della Grecia. Questa settimana il Fondo monetario internazionale ha pubblicato un rapporto su Atene, facendo mea culpa sugli errori commessi nel 2010. Il problema non è soltanto l’eccesso di austerity e i suoi effetti recessivi presi un po’ sottogamba, come vuole la vulgata. Piuttosto, sostiene Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago non etichettabile come neokeynesiano spendaccione, “la vera colpa ammessa dall’Fmi è di non aver tentato, fin dall’inizio, una ristrutturazione del debito”. Cioè un default controllato che riducesse il fardello del debito pubblico di Atene e consentisse di concentrarsi su rigore temperato e riforme strutturali. Allora un coinvolgimento dei privati, tra cui molte banche tedesche e francesi, avrebbe creato più danni che altro, era la tesi dell’Ue a trazione tedesca, accusa il Fmi. Dunque non solo in Grecia, dice Zingales, ma anche in Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, “la Troika ha scelto di imporre tutto il peso dell’aggiustamento sui paesi debitori, senza considerare che l’errore non è solo di chi prende a prestito, ma anche di colui che questi prestiti concede”. Il Fmi ha fatto mea culpa, ma a Berlino quando ci penseranno? Per ora, Cav. o non Cav., la leadership tedesca continua con il braccio di ferro.

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