sabato 25 agosto 2012

Il peculiare conservatorismo fiscale americano, di Simon Johnson


Nella maggior parte dei paesi del mondo essere "conservatori fiscali" significa avere molto a cuore i temi del disavanzo e del debito, e metterli sempre in cima all'agenda politica. Oggi, in molti paesi dell'Eurozona, i "conservatori fiscali" rappresentano un gruppo potente che spinge per incrementare le entrate statali, mantenendo la spesa sotto controllo. Persino in Gran Bretagna i leader conservatori si sono recentemente detti pronti ad aumentare le tasse e a cercare di contenere la spesa futura.
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Illustration by Paul Lachine
CommentsGli Stati Uniti seguono una linea diversa al riguardo. I leader politici americani che scelgono di definirsi "conservatori fiscali", come Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza a fianco di Mitt Romney, in corsa per la presidenza alle prossime elezioni, pensano più a ridurre le tasse, a prescindere dagli effetti che ciò potrebbe avere sul disavanzo federale e sul totale del debito insoluto. Perché i conservatori fiscali americani si preoccupano così poco del debito pubblico rispetto ai loro colleghi di altri Paesi?
CommentsLe cose non sono sempre andate così. Nel 1960, ad esempio, i consiglieri del Presidente Dwight D. Eisenhower suggerirono a quest'ultimo di ridurre le tasse per spianare la strada all'elezione di Richard Nixon, suo vice, alla presidenza. Eisenhower ignorò il consiglio, un po' perché non nutriva particolare simpatia e fiducia nei confronti di Nixon, ma soprattutto perché riteneva importante consegnare al successore un bilancio quasi in pareggio.
CommentsIl quadro della politica macroeconomica statunitense mutò drasticamente con la crisi monetaria internazionale del 1971. Gli Stati Uniti non furono più in grado di mantenere un rapporto di cambio fisso tra il dollaro e l'oro, che era il pilastro del sistema definito alla conferenza di Bretton Woods nel dopoguerra. L'accordo naufragò perché gli Stati Uniti non accettarono di inasprire la politica monetaria né di adottare una politica fiscale più restrittiva: per il presidente Nixon era, chiaramente, più importante accontentare l'elettorato piuttosto che mantenere un sistema globale di cambi fissi.
CommentsIronicamente, però, la fine degli accordi di Bretton Woods, anziché minare la supremazia del dollaro americano a livello internazionale, ne promosse l'utilizzo in tutto il mondo. Molto si è scritto - e molto ci si è arrovellati - sul declino del biglietto verde negli ultimi quarant'anni, ma resta il fatto che gli asset in dollari detenuti da investitori stranieri sono oggi molti di più che nel 1971.
CommentsQuesta situazione, però, si è rivelata un'arma a doppio taglio perché ha permesso agli Stati Uniti di trascurare i propri conti fiscali. Oggi circa la metà del debito americano è in mano a investitori stranieri, i quali optano per tenerlo anche quando il rendimento in dollari è minimo, e persino quando il dollaro si deprezza.
CommentsDi fatto, ogniqualvolta l'economia mondiale appare instabile, e persino quando gli Stati Uniti sono la causa di tale instabilità, gli investitori puntano sugli asset in dollari. Quando le grandi banche americane sono in difficoltà, o gli stessi americani sono impegnati in una delle loro estenuanti battaglie politiche sulla finanza pubblica, gli investitori di tutto il mondo corrono ad accaparrarsi bond statunitensi. È vero che l'anno scorso il confronto finale sul tetto del debito al Congresso è costato la perdita del rating da tripla A, ma resta il fatto che i costi di indebitamento del governo federale sono oggi inferiori rispetto ad allora.
CommentsCosa ne ha fatto l'America di questa opportunità di finanziamento al costo più basso mai registrato nella storia? Non un granché quanto a investimenti produttivi, miglioramento del sistema educativo o mantenimento delle infrastrutture di base. Tuttavia, molto è stato fatto in termini di sgravi fiscali tesi a incoraggiare i consumi rispetto al reddito e a diminuire le entrate statali in relazione alla spesa, un segno, questo, della persistenza dell''eredità dei tagli fiscali "temporanei" decisi dall'amministrazione Bush nei primi anni del 2000.
Molti americani si sono orientati verso teorie politiche, sia a destra che a sinistra, che considerano il debito pubblico come un semplice diversivo. L'affermazione dell'ex vice presidente Dick Cheney che “Reagan ci ha insegnato che il deficit non conta", vuol dire che l'allora presidente tagliò le tasse, gestì deficit molto più ingenti senza subire alcuna ripercussione politica negativa.
Ryan e alcuni membri del Tea Party, un'ala del partito repubblicano, hanno manifestato l'intenzione di ridimensionare la struttura del governo federale nell'arco dei prossimi decenni. Nel breve periodo, però, la promessa principale riguarda il taglio delle tasse, su cui poggia l'intero programma elettorale. Secondo i loro calcoli, tale progetto avrà successo a livello politico, una previsione forse azzeccata, e faciliterà l'attuazione di tagli alla spesa in una fase successiva, ipotesi, questa, meno scontata. L'aspetto che viene completamente ignorato riguarda la fragilità derivante dall'aumento del debito pubblico nei prossimi decenni.
CommentsPer fare un esempio, Ryan si è dichiarato a favore di una politica improntata alla spesa sfrenata, come quella di George W. Bush, così come del mantenimento delle spese militari ai livelli attuali o quasi, rifiutando i tagli stabiliti dal Budget Control Act nel 2011.
L'ipotesi, implicita e molto discutibile, è che in un prossimo futuro gli Stati Uniti saranno in grado di vendere una quantità illimitata di debito pubblico a un tasso d'interesse basso. Di sicuro non esiste un altro Paese al mondo dove i conservatori fiscali vorrebbero essere accomunati a un simile azzardo.

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