lunedì 6 giugno 2011

Lo tsunami che rischia di travolgere la ripresa, di Ettore Gotti Tedeschi

L’economia dopo Fukushima

L’imprevedibilità dei fenomeni naturali condiziona spesso le scelte degli uomini, apparentemente sicuri di se stessi e delle loro capacità previsionali. Lo tsunami che ha provocato la sciagura nucleare della centrale giapponese di Fukushima ha innescato una spirale di fatti economici che è opportuno comprendere nella loro sequenza.

Fino a ieri il nucleare, in prospettiva, rappresentava la risorsa energetica su cui tutto il mondo contava per soddisfare gran parte del suo fabbisogno. L’incidente giapponese ha richiamato a maggiore prudenza, provocando la chiusura delle centrali vecchie e obsolete e il blocco dell’apertura di nuovi impianti. Ciò sta avvenendo nel mondo occidentale, così come nei Paesi emergenti più industrializzati.

Il petrolio è quindi tornato a essere la fonte energetica principale. Così anche il suo prezzo ha ricominciato subito a crescere, sia per la domanda dovuta all’accumulo di riserve, sia per fenomeni speculativi. Le conseguenze nei Paesi occidentali — che sono consumatori ma non produttori — stanno nell’aumento dei prezzi dei carburanti e del costo della bolletta energetica. Realtà che colpiscono il potere di acquisto e i consumi, rendendo più concreto il rischio di stagnazione e di inflazione.

Nei Paesi orientali emergenti e industrializzati, si corre invece il rischio di un rallentamento della crescita economica e del suo consolidamento. Basti pensare che la Cina è il primo importatore al mondo di petrolio. La speculazione ha aggravato la situazione, estendendo le sue manovre dalle materie prime energetiche a quelle alimentari, generando così una vera emergenza nei Paesi più poveri.

In molti di questi — come quelli nordafricani — ricchi di materie prime ma con una ricchezza concentrata e non distribuita, si sono create tensioni sociali e politiche, sfociate nelle rivolte di queste settimane. Che a loro volta hanno inciso sui flussi migratori in maniera sensibile.

Vanno inoltre valutate le conseguenze dell’enorme trasferimento di ricchezza dai Paesi importatori a quelli produttori di petrolio, con prevedibili cambiamenti degli assetti economici e geopolitici. A favore di regioni con tradizioni culturali e politiche molto diverse da quelle occidentali.

Nei Paesi occidentali, l’emergenza energetica potrà compromettere la ripresa del ciclo economico, segnando negativamente la capacità produttiva, l’occupazione, la produzione di reddito e, di conseguenza, anche la possibile riduzione delle imposte.

E questo potrà anche condizionare la spesa pubblica necessaria alla ripresa, che, nel mondo occidentale, è guidata dai singoli Stati. Oggi, infatti, non ci si domanda più se la ripresa sarà avviata dal mercato o dallo Stato, ma solo da quale tipo di Stato: se esso cioè dovrà fungere da pianificatore o anche da controllore dell’economia.

Si tratta di un processo ormai ineluttabile, ed è auspicabile che i leader — preferibilmente di Stati soltanto pianificatori — che guideranno queste scelte, lo facciano guardando al bene comune. Con le responsabilità che dovrebbero essere di ogni classe dirigente. Come Benedetto XVI ha ricordato nella sua visita ad Aquileia e Venezia.


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