mercoledì 5 dicembre 2012

Datemi la produttività e risolleverò l’Italia. Le tesi del governo, di Gianfranco Polillo


Lavorare, lavorare, lavorare e competere: ridurre i costi per le imprese alimenta profitti e consumi anche se ora la domanda è carente

Tutti ormai parlano di crescita, ma nessuno è stato finora in grado di dire come rimettere in moto lo stanco motore dell’economia italiana. Dietro questi silenzi vi sono alibi e reticenze. C’è, infatti, chi ritiene che lo stato centrale possa nuovamente allargare i cordoni della borsa con politiche in deficit. E’ il grido di coloro che vorrebbero uscire dalla crisi “da sinistra”. Le reticenze sono, invece, il frutto di un semplice rinvio. Dire come effettivamente stanno le cose non è conveniente: né da un punto di vista politico né programmatico. Ed allora meglio mettere la testa sotto la sabbia. Poi si vedrà. In passato abbiamo cercato di reagire allo stallo proponendo una ricetta, forse, indigesta, ma necessaria. Ad orientarla era un’analisi disincantata della realtà italiana.
L’unica strada che vediamo per uscire dall’impasse è quella di aumentare la produttività. L’inconveniente di questa proposta sono i tempi. Si parte oggi, ma i risultati si vedono solo domani. E nel frattempo? Se vogliamo essere subito operativi, la variabile su cui operare è quella del costo del lavoro. A invarianza di pressione fiscale, esso può ridursi solo organizzando meglio i fattori della produzione. Maggiore utilizzo degli impianti (il modulo 7 giorni su 7), contratti di secondo livello, aumento delle ore lavorate a parità di salario, ma con l’intesa di recuperarne il carico non appena l’economia si rimetterà in moto. Una linea alternativa, almeno nel breve periodo, alla crescita degli investimenti: la via maestra per recuperare nel tempo la competitività perduta. Perché riteniamo irrealistica questa seconda ipotesi? Per il semplice fatto che i margini operativi (profitti e ammortamenti) non remunerano il capitale investito. E quindi le aziende, che non sono enti di beneficenza, si astengono.
L’obiezione avanzata a questa suggestione è stata sempre la stessa: manca la domanda. Se non si attivano i consumi, ogni sacrificio diventa inutile. Si può anche produrre a un prezzo minore, ma le merci ottenute rimangono nei magazzini. Ma è proprio così?
Dal 2005 l’inflazione italiana è stata di quasi 5 punti superiore a quella tedesca e francese (dati Eurostat). Solo un po’ meno elevata di quella media europea. Riducendo i costi di produzione si ottiene pertanto uno spazio aggiuntivo di mercato che è valutabile intorno a 1 punto di pil all’anno. A sua volta, questo margine si riflette immediatamente nella crescita del prodotto interno, essendo quest’ultimo calcolato al netto dell’inflazione.
E’ una missione impossibile? Sembrerebbe di no. In tutti questi anni i prezzi dei prodotti destinati all’esportazione sono aumentati meno di quelli relativi ai consumi interni. Unica eccezione il 2011. E il fatturato estero, negli ultimi tre anni, è aumentato in media di quasi il 10 per cento in più rispetto a quello ottenuto sul mercato interno. Ecco allora una possibile quadratura del cerchio. Si riducono i costi di produzione, grazie all’incremento di produttività. Aumentano i margini per le imprese e riprende il processo di investimento, colmando un vuoto di oltre 15 anni. Allora può ripartire l’occupazione e quindi i consumi interni dovuti alla maggiore disponibilità di salario complessivo.
Certo: gli attuali occupati sono chiamati a uno sforzo maggiore, anche se sostenibile, ma con l’idea di investire nel proprio futuro e in quello del paese. Si tratta di una semina, cui seguirà il raccolto. Compito dell’intera collettività sarà quello di vigilare affinché, nel tempo, quell’atto di generosità sia adeguatamente ricompensato. Ma non è forse questo il compito di una politica lungimirante?

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