Lavorare, lavorare, lavorare e competere: ridurre i costi per le imprese alimenta profitti e consumi anche se ora la domanda è carente
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L’unica strada che vediamo per uscire dall’impasse è quella di aumentare la produttività. L’inconveniente di questa proposta sono i tempi. Si parte oggi, ma i risultati si vedono solo domani. E nel frattempo? Se vogliamo essere subito operativi, la variabile su cui operare è quella del costo del lavoro. A invarianza di pressione fiscale, esso può ridursi solo organizzando meglio i fattori della produzione. Maggiore utilizzo degli impianti (il modulo 7 giorni su 7), contratti di secondo livello, aumento delle ore lavorate a parità di salario, ma con l’intesa di recuperarne il carico non appena l’economia si rimetterà in moto. Una linea alternativa, almeno nel breve periodo, alla crescita degli investimenti: la via maestra per recuperare nel tempo la competitività perduta. Perché riteniamo irrealistica questa seconda ipotesi? Per il semplice fatto che i margini operativi (profitti e ammortamenti) non remunerano il capitale investito. E quindi le aziende, che non sono enti di beneficenza, si astengono.
L’obiezione avanzata a questa suggestione è stata sempre la stessa: manca la domanda. Se non si attivano i consumi, ogni sacrificio diventa inutile. Si può anche produrre a un prezzo minore, ma le merci ottenute rimangono nei magazzini. Ma è proprio così?
Dal 2005 l’inflazione italiana è stata di quasi 5 punti superiore a quella tedesca e francese (dati Eurostat). Solo un po’ meno elevata di quella media europea. Riducendo i costi di produzione si ottiene pertanto uno spazio aggiuntivo di mercato che è valutabile intorno a 1 punto di pil all’anno. A sua volta, questo margine si riflette immediatamente nella crescita del prodotto interno, essendo quest’ultimo calcolato al netto dell’inflazione.
Dal 2005 l’inflazione italiana è stata di quasi 5 punti superiore a quella tedesca e francese (dati Eurostat). Solo un po’ meno elevata di quella media europea. Riducendo i costi di produzione si ottiene pertanto uno spazio aggiuntivo di mercato che è valutabile intorno a 1 punto di pil all’anno. A sua volta, questo margine si riflette immediatamente nella crescita del prodotto interno, essendo quest’ultimo calcolato al netto dell’inflazione.
E’ una missione impossibile? Sembrerebbe di no. In tutti questi anni i prezzi dei prodotti destinati all’esportazione sono aumentati meno di quelli relativi ai consumi interni. Unica eccezione il 2011. E il fatturato estero, negli ultimi tre anni, è aumentato in media di quasi il 10 per cento in più rispetto a quello ottenuto sul mercato interno. Ecco allora una possibile quadratura del cerchio. Si riducono i costi di produzione, grazie all’incremento di produttività. Aumentano i margini per le imprese e riprende il processo di investimento, colmando un vuoto di oltre 15 anni. Allora può ripartire l’occupazione e quindi i consumi interni dovuti alla maggiore disponibilità di salario complessivo.
Certo: gli attuali occupati sono chiamati a uno sforzo maggiore, anche se sostenibile, ma con l’idea di investire nel proprio futuro e in quello del paese. Si tratta di una semina, cui seguirà il raccolto. Compito dell’intera collettività sarà quello di vigilare affinché, nel tempo, quell’atto di generosità sia adeguatamente ricompensato. Ma non è forse questo il compito di una politica lungimirante?
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