lunedì 26 settembre 2011

Analisi rispettosa e severa delle politiche tremontiane, di Francesco Forte

Giulio Tremonti è arrivato al vertice della cosa pubblica tramite l’autorevolezza acquisita come tecnocrate negli ambienti economici e intellettuali per la sua competenza e grazie alla sponsorizzazione  del Corriere della Sera, al quale a suo tempo collaborava. Un’iniziazione carismatica simile a quella di Marcello Pera e di Mario Monti che gli ha lasciato il segno, consistente nella convinzione di una superiorità intellettuale ed etica, e nella scarsa comunicabilità non solo con i peones del Parlamento, con cui si trova a disagio, e che invece sono il termometro del consenso popolare; ma anche con i vertici delle commissioni parlamentari e con gli intellettuali del partito in cui è assurto a leader economico.

Con i membri dei governi non fa squadra. 
Questo elitismo e anacoretismo politico gli è servito per governare il  ministero con rigore difendendo il bilancio dagli assalti, ma gli ha impedito di svolgere una funzione di leadership e di mediazione fraterna, quale si richiede a chi ha responsabilità gravose di timoniere di una nave che ha bisogno dell’apporto di ciascuno, dall’ultimo mozzo al capitano.

Nel Pdl convivono varie anime
 ma, sostanzialmente, il messaggio è neo liberale, orientato allo sviluppo, alla politica delle cose concrete. L’impostazione  di Tremonti è mutevole, ma ha venature di colbertismo e tende a privilegiare le affermazioni ideologiche astratte: Tremonti ha costantemente idealizzato una sua riforma tributaria, basata su tre aliquote Irpef e cinque imposte, di cui il messaggio principale non è l’orientamento alla produttività,  ma la semplificazione e la generica riduzione della pressione delle imposte dirette, passando dalle persone alle cose.  Non è chiaro se con “cose” si voglia riferire alla tassazione dei consumi o a quella dei beni patrimoniali.

A fronte di questo disegno generale
, ambizioso, ma anche generico, Tremonti non ha affrontato in modo sistematico la questione dello smantellamento dell’Irap e della riduzione strutturale del carico sui redditi di impresa e sui costi del lavoro; due temi su cui insiste la Banca d’Italia. Ha provveduto a ciò con interventi episodici che hanno complicato il sistema. Ha modificato i nomi delle imposte sugli immobili, ha introdotto una parziale cedolare secca sugli affitti ma non si è occupato del catasto.
Ha perseguito il rigore del bilancio con i tagli lineari. E’ così rimasta incompiuta  la riforma del bilancio di Carlo Azeglio Ciampi, che si doveva basare sulla programmazione del  bilancio per obiettivi, con la standardizzazione  dei  conti di tutti i soggetti  del settore statale e dei governi regionali e locali, la classificazione  europea e dell’Ocse delle varie voci di spese e la quantificazione degli obiettivi di ciascuna voce. Solo così si può controllare la spesa pubblica nella sua programmazione  e gestione. Invece di ciò abbiamo avuto una riforma della legge finanziaria di natura prevalentemente formale, il cui unico merito è di avere anticipato a metà anno le manovre di finanza pubblica.

E’ mancata una politica di spesa
 pubblica per le infrastrutture. Poste Italiane, Ferrovie e Anas sono rimaste nel perimetro del settore statale, anziché diventare società miste di economia di mercato. C’è stata una guerra per il latte italiano, ma la Cassa depositi e prestiti non è stata utilizzata per promuovere progetti ad alto contenuto tecnologico come la banda larga.
Il colbertismo tremontiano è difensivo, non sviluppista, mentre la sfida è la crescita in un’economia di mercato aperto.



http://www.ilfoglio.it/soloqui/10520

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