sabato 14 luglio 2012

Una radicale, utopica e inutile spending review nella Francia del ’700, di Antonio Gurrado


La madre di tutte le spending review risale al 1768, quando il giovane parigino Louis-Sébastien Mercier inizia a scrivere un volume in cui racconta di essere stato colpito dalle critiche mosse da un inglese ai “numerosi e strani abusi” del regno di Luigi XV. Mercier, stupito che la Francia stia ancora in piedi, congeda l’inglese e sogna un futuro migliore. Trattandosi forse del primo esperimento di utopia temporale e non spaziale, non può costruire dal nulla leggi che regolino idealmente gli abitanti di un recesso immaginario – come invece Platone, Moro o Campanella – ma si vede costretto a vagliare quelle che già governano la Francia, rivendendole o rimaneggiandole per metterla al passo con le nazioni europee più civili. Lo ossessionano gli sprechi e, di conseguenza, i tagli; i quarantaquattro capitoli del suo libro sono altrettante proposte radicali di eliminazione di spese inutili mostrate, grazie all’escamotage della visione del futuro, già operative nei loro effetti.
Sorprendono le analogie col giorno d’oggi. Sotto la scure di Mercier cadono i tribunali, “teatro della licenza e della follia” mentre i loro impiegati “muoiono di noia” e di nullafacenza. Per Mercier i processi sono inutili perché “chiariti e giudicati sin dal loro nascere”: se un uomo è colpevole vorrà essere condannato, se è innocente sarà necessariamente assolto, se è reo di omicidio l’esecuzione capitale avverrà seduta stante. Seguono gli ospedali: basta chiuderli perché tutti i malati guariscano, non più avvelenati dalle pozioni di medici incompetenti. Molte malattie dipendono dal lusso, che genera mollezza e infiacchimento: basta impoverire la popolazione perché tutti si sentano meglio. Invece di accorpare le province Mercier elimina i corpi intermedi, i parlamentini che fanno da tramite fra decreti regi e legislazione locale; il Re torna a vivere in mezzo ai cittadini comuni mentre Versailles cade in rovina; a nobili e prelati viene tolta la carrozza, antesignana dell’auto blu. Pezzi storici di demanio statale come il Cabinet du Roi o le Tuileries vengono riattati a scopi più redditizi. Crudeli tagli si abbattono sull’istruzione: niente più latino e greco nei licei e rubinetti chiusi per l’università, “una vecchia zitella che parla una lingua morta spacciandola per nuova, fresca e affascinante”. La Sorbona riceve fondi per la ricerca a patto che le facoltà umanistiche vengano utilizzate come teatro anatomico per sezionare i cadaveri.
In un eccesso di zelo Mercier ribattezza i ponti di Parigi, riordina i sensi unici, abroga il Papato, trasforma i servizi segreti in vigili urbani, costringe gli autori di brutti libri a girare mascherati finché non ne scrivono uno bello, cambia gli impianti di illuminazione stradale e già che c’è taglia anche l’editoria: spariscono Saffo, Aristofane, Lucrezio, Catullo; Ovidio e Orazio vengono epurati, Seneca ridotto a un quarto, Montaigne a un agile libretto mentre non c’è più traccia di Pascal. Solo Rousseau resiste in edizione integrale.
In compenso viene imposta un’aliquota unica al 2 per cento, talmente bassa che i contribuenti fanno la fila per versare spontaneamente le tasse all’erario; non contenti, sovente lasciano ben più del dovuto così che i conti dello stato siano sempre in attivo. Tutto va bene dunque, salvo un dettaglio: perché la spending review vada a regime bisogna armarsi di pazienza, e infatti la visione di Mercier s’intitola “L’anno 2440”. Quando il suo ideatore può vederne gli effetti è costretto a mordersi il labbro: “Ho settecento anni ormai, e tutte le persone che conoscevo sono morte”.

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