Un sorprendente paper degli economisti della Banca dei regolamenti internazionali.
Numeri, confronti e analisi
Da quarant’anni l’idea che l’iper sviluppo del settore finanziario sia utile alla crescita è stata accreditata dall’accademia come un postulato. Non è più così. Un working paper della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), che ha come azionisti le Banche centrali di tutto il mondo, prova esattamente il contrario e mette in discussione uno dei capisaldi della moderna teoria economica al quale si sono ispirati governatori della Federal Reserve come Alan Greenspan e il suo successore in carica Ben Bernanke per spingere verso una decisa deregolamentazione. “Come succede in molti aspetti della vita, con la finanza si può avere troppo di una cosa positiva. Quindi in misura limitata un sistema finanziario ampio va a braccetto con una crescita della produttività. Ma arrivati a un certo punto – che molte economie avanzate hanno superato molto tempo fa – più banche e più credito portano a una crescita inferiore”, affermano il consigliere economico Stephen Cecchetti e l’economista Enisse Kharroubi che nei ringraziamenti includono anche il capo ricerche Bri, l’italiano Claudio Borio.
Le conclusioni hanno aspetti sorprendenti, come spesso avviene con gli studi della Bri che hanno sempre solide basi. Un sistema finanziario oleato contribuisce infatti ad abbassare i costi delle transazioni, ad aumentare gli investimenti e favorisce un equilibrio nella distribuzione del capitale e dei rischi, ma al contempo fa concorrenza ad altri settori decisivi per l’intera umanità. L’esempio calzante è quello di un ingegnere nucleare che per ottenere il massimo profitto sceglie una carriera nella finanza dei derivati e mette le proprie capacità al servizio di una banca d’affari. Lo stesso può accadere con un medico che avrebbe dedicato la vita alla ricerca sul cancro oppure uno scienziato che sarebbe in grado di fare un salto quantico per favorire l’arrivo dell’uomo su Marte. Sono menti “rubate” alla crescita e allo sviluppo perché inserite nel mondo affollato della finanza che non avrebbe bisogno di loro. La soglia limite di impiego è stabilita dai calcoli della Bri che vigila sui rischi sistemici per l’economia globale: “Quando il settore finanziario rappresenta il 3,5 per cento della forza lavoro totale, ogni altro incremento tende ad essere non solo superfluo ma lesivo per la crescita”. Paesi che hanno superato il limite sono per certi aspetti gli Stati Uniti, poi Canada, Svizzera e Irlanda, dove per inciso la rapidissima crescita del settore finanziario dal 2005 ha pesato per un terzo sulla diminuzione della produttività per lavoratore. Ma altri si stanno avvicinando di gran carriera al punto critico di “massimo profitto” come ad esempio la Gran Bretagna. “La lezione – aggiungono dalla banca di Basilea, nota come la Banca centrale delle banche centrali – è che una forte e rapida espansione del settore finanziario può essere molto costosa per il resto dell’economia. Perché distrae risorse essenziali tali da andare a detrimento della crescita complessiva”.
Anche guardando la questione dal punto di vista del sistema bancario, il risultato non cambia. Sebbene il credito bancario porti effettivi benefici all’economia reale, quando questo supera il 90 per cento del pil risulta deleterio perché è il punto massimo oltre al quale risulta difficile rispondere con prontezza a eventuali choc, come la crisi finanziaria. In India, paese al quale è indirizzato il lavoro della Banca dei regolamenti internazionali, c’è possibilità di trarre ulteriore beneficio dallo sviluppo controllato del credito privato perché rappresenta solo il 50 per cento del pil. Insomma, se non bastassero i fatti e le cronache quotidiane, il mito della finanza come panacea è in parte sfatato: “C’è la pressante necessità – concludono i ricercatori – di rivedere la relazione tra finanza e crescita economica nei sistemi moderni. Per questo più finanza non è sempre un bene”.
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