La genesi dell'intervista con Vaclav Havel per «Il Giornale di Montanelli» nel 1990
Il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale
Ho conosciuto Vaclav Havel quand’era
dissidente, alla fine degli anni Ottanta. Andare a trovarlo
nell’appartamento lungo la Moldava – dove riceveva volentieri i
giornalisti occidentali – poteva significare guai. Per «il Giornale» di
Montanelli, da Praga, ho seguito tutta la «rivoluzione di velluto» del
1989, forse la più elegante ed entusiasmante tra quelle che hanno
deposto il comunismo nell’Europa centro-orientale. Vaclav Havel se ne
ricordava, e una volta salito al Castello come Presidente, da
galantuomo, ha mantenuto la promessa di concedermi un’intervista. La
prima in Italia, credo. Questa non è la riproduzione di quell’intervista
(pubblicata il 10 maggio 1990), ma la genesi – davvero bizzarra – di
quell’incontro. Spero dia il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo
davvero speciale. Beppe Severgnini, 18.12.2011
Vaclav Havel nella sua Praga nel 1990 (Ap)
Praga, maggio 1990 – Fino a qualche tempo fa l'Europa orientale
era un luogo tranquillo e triste, dove gli italiani andavano a cercare
il socialismo e le ragazze. Non scoprivano mai il primo, ma trovavano
quasi sempre le seconde. Ora è una fiera, un teatro dove va in scena un
lungo dopoguerra. Difficile raccapezzarsi: gli ex-agenti segreti fanno
gli steward sugli aerei, i comunisti fanno i socialdemocratici, i
socialdemocratici fanno i liberali e i liberali fanno confusione. È un
mondo caotico, dove tutti sono stati promossi, o rimossi, o sono in
attesa di una promozione, o sono in ansia per una rimozione. I
dissidenti sono diventati ministri: a Varsavia, un anno fa,
l'ex-carcerato Jacek Kuron chiedeva una bottiglia di Johnny Walker per
un'intervista; oggi è ministro del lavoro, e forse avrà cambiato marca. I
ministri sono diventati dissidenti: a Budapest Imre Pozsgay, stella
spenta socialista, è all'opposizione, praticamente solo. A Bucarest,
nella chiesa italiana sul bulevard Balcescu - finalmente aperta: il
conducator Ceausescu permetteva soltanto due funzioni all'anno, Pasqua e
Natale - padre Molinari celebra la messa con una bellissima sedicenne
romena al fianco, vestita come una novizia: riccioli biondi che sbucano
dal copricapo, occhi azzurri e guance appena arrossate. Al termine tutti
corrono a complimentarsi. «Cara, sei stata deliziosa - sussurra una
signora italiana in visita - Sarai una meravigliosa piccola suora». La
ragazza con i riccioli biondi spalanca gli occhi: «Ma io non voglio fare
la suora. Io voglio fare l'attrice.» A Praga - tra tutte le città
dell'est, la più educata - non si capisce molto di più, e non si fatica
molto di meno. Cercare i protagonisti della rivoluzione di novembre è
più che un lavoro. Più che un dovere. Più che una necessità
professionale. È diventato uno sport.
Fino a sei mesi fa i dissidenti (giornalisti senza giornali,
attori senza scritture e professori senza cattedre) erano a
disposizione: qualcuno implorava un'intervista, qualcun altro si
accontentava di una copia di Newsweek. In novembre, durante la
rivoluzione, tutti ridevano in compagnia, bevendo birra chiara al caffè
Slavia. In gennaio gli stessi dissidenti, diventati ministri e
parlamentari, rispondevano ancora al telefono, ma le voci erano
diventate improvvisamente fredde. In marzo hanno smesso di rispondere al
telefono. Al loro posto parlava una moglie, una segretaria, un'amica:
«Il ministro non c'è. Si rivolga all' ufficio stampa del ministero».
Inutile dire «Guardi che io il ministro lo conosco. Guardi che quand'era
dissidente gli portavamo tutti le sigarette». La voce a quel punto si
fa annoiata, come se tutti quelli che telefonano dicessero la stessa
cosa, come se tutti, un giorno, avessero portato sigarette al ministro:
«Mi spiace. Si rivolga all'ufficio stampa.»
Hanno ragione i ministri di oggi, dissidenti di ieri. I
giornalisti sono troppi, vogliono troppe interviste, fanno troppe
domande. Abbiamo ragione anche noi però, che in dicembre incontravamo il
signor Václav Klaus nel guardaroba di un teatro, e ce ne andavamo con
un indirizzo scritto su un foglietto fotocopiato e ritagliato. Václav
Klaus è diventato ministro delle finanze, l'uomo che dovrebbe portare il
paese nell'economia di mercato: ora avrà un vero biglietto da visita,
ma prima era più simpatico. La difficoltà ad orientarmi in un mondo
capovolto mi ha spinto verso la nuova sede del «Forum dei cittadini» in
piazza Jungamannovo, con il vecchio taccuino in mano. Adesso qualcuno si
siede qui, ho gridato, e mi dice che fine hanno fatto tutti gli amici,
tutta la gente che regalava il numero di telefono, tutti quelli che al
caffè Slavia bevevano in compagnia.
Un funzionario si è commosso. Gentilmente, ha preso un lungo
foglio uscito dalla stampante di un computer. «Prenda nota. Jiri
Dienstbier, giornalista, ex bruciatorista: ora è ministro degli esteri, e
questo lei lo sa. Eda Kriseova, scrittrice, autrice di «La clavicola
del pipistrello»: consigliere personale del presidente. Vera Cáslavská,
ginnasta olimpica: consigliere del presidente; Michal Kocab, cantante
rock - sì quello che girava con gli occhiali neri e il giubbotto di
cuoio. Anche lui è consigliere del presidente, e capogruppo del «Forum
Civico» in Parlamento. Rita Klimova, quella che traduceva dal ceko
all'inglese seduta di fianco a Havel: ambasciatore a Washington. Serve
altro?». Senza più conoscenze - o meglio: le conoscenze ci sono ancora,
ma sono rinchiuse nei loro uffici, difese dalle loro segretarie -
sembrava impossibile arrivare fino a Václav Havel. Pur avendo il suo
numero di telefono. Pur essendo stati a casa sua.
Da quando è presidente, vive braccato da giornalisti,
diplomatici, politici e questuanti; tutti, rigorosamente, con il suo
numero di telefono. Ma nella fiera dell'est c'è sempre una sorpresa in
agguato. La mia si chiamava – pensate un po’ - Milan. Niente a che fare
con il calcio. Il signor Milan Matous, che viaggia impettito verso i
settanta, fuggì dalla Cecoslovacchia nel 1948 perché non voleva vivere
agli ordini del comunista Gottwald. Era un atleta (nazionale di hockey
su ghiaccio e componente della squadra di coppa Davis), aveva sposato
un'atleta e ha una figlia atleta (Elena Matous, campionessa di sci), la
quale ha sposato un altro atleta: Fausto Radici, sciatore non boemo, ma
bergamasco. Negli anni Cinquanta Matous allenò la nazionale italiana di
hockey su ghiaccio. Oggi vive in montagna, a Cortina d'Ampezzo, dove ha
fatto amicizia con Giorgio Soavi. Questo - lo ammetto - avrebbe dovuto
mettermi in allarme. Quando è tornato in patria dopo quarantadue anni -
orgoglioso, con il suo vecchio passaporto - il signor Matous voleva
rendersi utile. Utile con tutta la passione, il trasporto e
l'irragionevolezza di un boemo che ha deciso di rendersi utile.
Utilissimo, insomma. Ci siamo conosciuti per caso.
Matous aveva saputo che volevo incontrare Václav Havel,
e ha detto: «Ci penso io». Ho spiegato allora che ottenere
un'intervista era complicato. Milan Matous ha ascoltato, poi ha
comunicato la sua decisione: sarebbe salito al castello e avrebbe
convinto il presidente. Ho ringraziato, ho ripetuto che sarebbe stata
una passeggiata inutile. Milan Matous ha sorriso. Il sorriso paziente di
chi vive sulle Dolomiti, e sente dire a un milanese che qualcosa è
impossibile. Penso che si ricorderanno per un pezzo di Milan Matous a
Hradcany, dimora dei re di Boemia, residenza dei presidenti. Dopo essere
arrivato fino alla segreteria di Havel, aver abbracciato la ginnasta
Vera Cáslavská, aver salutato le guardie del corpo e le dattilografe,
Matous ha spiegato a tutti che Havel era un uomo morale, e aveva perciò
il dovere morale di concedere un'intervista al «Giornale» di Montanelli,
che aveva sempre parlato bene di lui, e male dei comunisti.
Poiché gli ardimentosi sono anche fortunati, Havel è uscito in
corridoio. Milan Matous è partito all'attacco: «Presidente, sul muro
della sua camera, quand'era bambino, c'erano dipinti alberelli e
coniglietti. » Václav Havel, che è abituato a sentirsi dire di tutto, ma
non che è cresciuto tra alberelli e coniglietti, si è fermato di colpo:
«È vero. Ma lei come lo sa?» «Perché li ha dipinti mia moglie, che era
buona amica di sua madre», ha spiegato Matous con la logica rigorosa di
chi vive sulle Dolomiti. «E adesso - ha aggiunto con un gran sorriso -
lei deve dare un'intervista al Giornale, che su di lei ha scritto
tante belle cose». Poiché gli Havel sono estrosi almeno quanto i
Matous, l'intervista è stata concessa, e l'abbiamo pubblicata. Oggi
volevamo soltanto ringraziare l'amico di Soavi, e i coniglietti del
presidente.
http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_18/severgnini-havel_66d3f71c-2978-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml
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