domenica 18 dicembre 2011

Quell'incontro con un galantuomo nel suo castello da presidente, di Beppe Severgnini

La genesi dell'intervista con Vaclav Havel per «Il Giornale di Montanelli» nel 1990

Il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale

Ho conosciuto Vaclav Havel quand’era dissidente, alla fine degli anni Ottanta. Andare a trovarlo nell’appartamento lungo la Moldava – dove riceveva volentieri i giornalisti occidentali – poteva significare guai. Per «il Giornale» di Montanelli, da Praga, ho seguito tutta la «rivoluzione di velluto» del 1989, forse la più elegante ed entusiasmante tra quelle che hanno deposto il comunismo nell’Europa centro-orientale. Vaclav Havel se ne ricordava, e una volta salito al Castello come Presidente, da galantuomo, ha mantenuto la promessa di concedermi un’intervista. La prima in Italia, credo. Questa non è la riproduzione di quell’intervista (pubblicata il 10 maggio 1990), ma la genesi – davvero bizzarra – di quell’incontro. Spero dia il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale. Beppe Severgnini, 18.12.2011
 
Vaclav Havel nella sua Praga nel 1990 (Ap)Vaclav Havel nella sua Praga nel 1990 (Ap)
Praga, maggio 1990 – Fino a qualche tempo fa l'Europa orientale era un luogo tranquillo e triste, dove gli italiani andavano a cercare il socialismo e le ragazze. Non scoprivano mai il primo, ma trovavano quasi sempre le seconde. Ora è una fiera, un teatro dove va in scena un lungo dopoguerra. Difficile raccapezzarsi: gli ex-agenti segreti fanno gli steward sugli aerei, i comunisti fanno i socialdemocratici, i socialdemocratici fanno i liberali e i liberali fanno confusione. È un mondo caotico, dove tutti sono stati promossi, o rimossi, o sono in attesa di una promozione, o sono in ansia per una rimozione. I dissidenti sono diventati ministri: a Varsavia, un anno fa, l'ex-carcerato Jacek Kuron chiedeva una bottiglia di Johnny Walker per un'intervista; oggi è ministro del lavoro, e forse avrà cambiato marca. I ministri sono diventati dissidenti: a Budapest Imre Pozsgay, stella spenta socialista, è all'opposizione, praticamente solo. A Bucarest, nella chiesa italiana sul bulevard Balcescu - finalmente aperta: il conducator Ceausescu permetteva soltanto due funzioni all'anno, Pasqua e Natale - padre Molinari celebra la messa con una bellissima sedicenne romena al fianco, vestita come una novizia: riccioli biondi che sbucano dal copricapo, occhi azzurri e guance appena arrossate. Al termine tutti corrono a complimentarsi. «Cara, sei stata deliziosa - sussurra una signora italiana in visita - Sarai una meravigliosa piccola suora». La ragazza con i riccioli biondi spalanca gli occhi: «Ma io non voglio fare la suora. Io voglio fare l'attrice.» A Praga - tra tutte le città dell'est, la più educata - non si capisce molto di più, e non si fatica molto di meno. Cercare i protagonisti della rivoluzione di novembre è più che un lavoro. Più che un dovere. Più che una necessità professionale. È diventato uno sport.
Fino a sei mesi fa i dissidenti (giornalisti senza giornali, attori senza scritture e professori senza cattedre) erano a disposizione: qualcuno implorava un'intervista, qualcun altro si accontentava di una copia di Newsweek. In novembre, durante la rivoluzione, tutti ridevano in compagnia, bevendo birra chiara al caffè Slavia. In gennaio gli stessi dissidenti, diventati ministri e parlamentari, rispondevano ancora al telefono, ma le voci erano diventate improvvisamente fredde. In marzo hanno smesso di rispondere al telefono. Al loro posto parlava una moglie, una segretaria, un'amica: «Il ministro non c'è. Si rivolga all' ufficio stampa del ministero». Inutile dire «Guardi che io il ministro lo conosco. Guardi che quand'era dissidente gli portavamo tutti le sigarette». La voce a quel punto si fa annoiata, come se tutti quelli che telefonano dicessero la stessa cosa, come se tutti, un giorno, avessero portato sigarette al ministro: «Mi spiace. Si rivolga all'ufficio stampa.»
Hanno ragione i ministri di oggi, dissidenti di ieri. I giornalisti sono troppi, vogliono troppe interviste, fanno troppe domande. Abbiamo ragione anche noi però, che in dicembre incontravamo il signor Václav Klaus nel guardaroba di un teatro, e ce ne andavamo con un indirizzo scritto su un foglietto fotocopiato e ritagliato. Václav Klaus è diventato ministro delle finanze, l'uomo che dovrebbe portare il paese nell'economia di mercato: ora avrà un vero biglietto da visita, ma prima era più simpatico. La difficoltà ad orientarmi in un mondo capovolto mi ha spinto verso la nuova sede del «Forum dei cittadini» in piazza Jungamannovo, con il vecchio taccuino in mano. Adesso qualcuno si siede qui, ho gridato, e mi dice che fine hanno fatto tutti gli amici, tutta la gente che regalava il numero di telefono, tutti quelli che al caffè Slavia bevevano in compagnia.
Un funzionario si è commosso. Gentilmente, ha preso un lungo foglio uscito dalla stampante di un computer. «Prenda nota. Jiri Dienstbier, giornalista, ex bruciatorista: ora è ministro degli esteri, e questo lei lo sa. Eda Kriseova, scrittrice, autrice di «La clavicola del pipistrello»: consigliere personale del presidente. Vera Cáslavská, ginnasta olimpica: consigliere del presidente; Michal Kocab, cantante rock - sì quello che girava con gli occhiali neri e il giubbotto di cuoio. Anche lui è consigliere del presidente, e capogruppo del «Forum Civico» in Parlamento. Rita Klimova, quella che traduceva dal ceko all'inglese seduta di fianco a Havel: ambasciatore a Washington. Serve altro?». Senza più conoscenze - o meglio: le conoscenze ci sono ancora, ma sono rinchiuse nei loro uffici, difese dalle loro segretarie - sembrava impossibile arrivare fino a Václav Havel. Pur avendo il suo numero di telefono. Pur essendo stati a casa sua.
Da quando è presidente, vive braccato da giornalisti, diplomatici, politici e questuanti; tutti, rigorosamente, con il suo numero di telefono. Ma nella fiera dell'est c'è sempre una sorpresa in agguato. La mia si chiamava – pensate un po’ - Milan. Niente a che fare con il calcio. Il signor Milan Matous, che viaggia impettito verso i settanta, fuggì dalla Cecoslovacchia nel 1948 perché non voleva vivere agli ordini del comunista Gottwald. Era un atleta (nazionale di hockey su ghiaccio e componente della squadra di coppa Davis), aveva sposato un'atleta e ha una figlia atleta (Elena Matous, campionessa di sci), la quale ha sposato un altro atleta: Fausto Radici, sciatore non boemo, ma bergamasco. Negli anni Cinquanta Matous allenò la nazionale italiana di hockey su ghiaccio. Oggi vive in montagna, a Cortina d'Ampezzo, dove ha fatto amicizia con Giorgio Soavi. Questo - lo ammetto - avrebbe dovuto mettermi in allarme. Quando è tornato in patria dopo quarantadue anni - orgoglioso, con il suo vecchio passaporto - il signor Matous voleva rendersi utile. Utile con tutta la passione, il trasporto e l'irragionevolezza di un boemo che ha deciso di rendersi utile. Utilissimo, insomma. Ci siamo conosciuti per caso.
Matous aveva saputo che volevo incontrare Václav Havel, e ha detto: «Ci penso io». Ho spiegato allora che ottenere un'intervista era complicato. Milan Matous ha ascoltato, poi ha comunicato la sua decisione: sarebbe salito al castello e avrebbe convinto il presidente. Ho ringraziato, ho ripetuto che sarebbe stata una passeggiata inutile. Milan Matous ha sorriso. Il sorriso paziente di chi vive sulle Dolomiti, e sente dire a un milanese che qualcosa è impossibile. Penso che si ricorderanno per un pezzo di Milan Matous a Hradcany, dimora dei re di Boemia, residenza dei presidenti. Dopo essere arrivato fino alla segreteria di Havel, aver abbracciato la ginnasta Vera Cáslavská, aver salutato le guardie del corpo e le dattilografe, Matous ha spiegato a tutti che Havel era un uomo morale, e aveva perciò il dovere morale di concedere un'intervista al «Giornale» di Montanelli, che aveva sempre parlato bene di lui, e male dei comunisti.
Poiché gli ardimentosi sono anche fortunati, Havel è uscito in corridoio. Milan Matous è partito all'attacco: «Presidente, sul muro della sua camera, quand'era bambino, c'erano dipinti alberelli e coniglietti. » Václav Havel, che è abituato a sentirsi dire di tutto, ma non che è cresciuto tra alberelli e coniglietti, si è fermato di colpo: «È vero. Ma lei come lo sa?» «Perché li ha dipinti mia moglie, che era buona amica di sua madre», ha spiegato Matous con la logica rigorosa di chi vive sulle Dolomiti. «E adesso - ha aggiunto con un gran sorriso - lei deve dare un'intervista al Giornale, che su di lei ha scritto tante belle cose». Poiché gli Havel sono estrosi almeno quanto i Matous, l'intervista è stata concessa, e l'abbiamo pubblicata. Oggi volevamo soltanto ringraziare l'amico di Soavi, e i coniglietti del presidente.

http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_18/severgnini-havel_66d3f71c-2978-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml

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