SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA
Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere
approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno.
Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo
che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea
all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo.
La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.
L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra.
Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale.
Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci.
Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?).
Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro.
Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti.
Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati.
La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.
L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra.
Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale.
Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci.
Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?).
Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro.
Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti.
Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati.
http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml
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