Per il troppo ottimismo di Banca d’Italia, il paese ha “bruciato” oltre 30 miliardi di riserve auree
L’inazione della Banca d’Italia nel proteggere le riserve auree del paese dalle turbe del mercato è costata (finora) 34 miliardi di euro. Sono perdite virtuali – finché non si vende non si perde – ma per gli analisti specializzati è chiaro che i livelli record di prezzo visti due anni fa non torneranno a breve, o forse mai, e che, quindi, l’Italia ha già “bruciato” parte del suo patrimonio aureo. Banca d’Italia poteva evitarlo già tre anni fa.
L’Istituto centrale infatti non si è “coperto” da eventuali compressioni di prezzo,attraverso un’assicurazione ad hoc, come era stato suggerito ai suoi funzionari e all’allora direttore generale, Fabrizio Saccomanni, oggi ministro dell’Economia, da economisti e banchieri. Banca d’Italia poteva tutelarsi quando il prezzo era a livelli record, e fare pagare la differenza ad altri attori finanziari, come le banche d’affari, stipulando con essi dei contratti d’assicurazione volti a mettere uno “stop” alle perdite, pagando in cambio della protezione dal rischio una somma da versare annualmente; una specie di polizza che in gergo finanziario si chiama “floor” (traduzione: “pavimento” alla stregua dello “stop loss” comunemente usato sui titoli di Borsa). Si stabilisce cioè una soglia limite, sotto la quale scattano i risarcimenti per l’assicurato. Nel caso della Banca d’Italia poteva essere fissata arbitrariamente, ma Saccomanni ha preferito non muoversi e non ascoltare i consigli di coloro che, nel tardo 2010, sono andati in processione a Via Nazionale per convicerlo ad accettare l’operazione di “floor”; forse costosa al momento, ma (rivelatasi a posteriori) conveniente nel lungo periodo. “Il gioco valeva la candela, era meglio agire subito in maniera lungimirante. A conti fatti, non tutelarsi è stato peggio”, confida al Foglio un’autorevole fonte bancaria. Secondo il World Gold Council, l’Italia detiene le terze riserve auree più grandi al mondo: 2.452 tonnellate di lingotti distribuiti in diversi caveau (Stati Uniti, Germania e, ovviamente, Italia). Banca d’Italia ha il dovere di custodirle: non sono di sua proprietà, la proprietà è del popolo sovrano.
Alla fine del 2011, l’oro ha raggiunto il massimo di prezzo a 1.895 dollari l’oncia, oggi ha perso circa il 30 per cento del suo valore arrivando a 1.200 dollari. Se poi nel settembre 2012 l’oro di Banca d’Italia valeva 108 miliardi – di euro – ora ne vale 73, il 32 per cento in meno (sono calcoli riportati dal quotidiano la Notizia il 29 giugno e collimano con le verifiche del Foglio). Un recente rapporto di Thomson Reuters sostiene che sia cominciata una “sostenuta fase ribassista” dell’oro. La banca d’affari americana Goldman Sachs prevede che il valore del metallo giallo si attesterà a 1.050 dollari l’oncia nel 2014. Ergo: la ricchezza non tornerà più. Perché Banca d’Italia non è intervenuta? Secondo quanto ricostruito dal Foglio, ha preferito non fissare una soglia di riferimento per l’oro: sarebbe stato come fornire al mercato un’indicazione sul prezzo che l’Italia aveva in mente per il metallo prezioso. E’ lecito credere che nessuno degli investitori internazionali si sarebbe scomposto più di tanto, ma è altrettanto plausibile il contrario. Va pure considerato che non più di quattro mesi fa erano le case d’affari a preventivare un costante rialzo dell’oro, ed è comprensibile quindi l’ottimismo di Bankitalia. C’è però un’altra occasione in cui l’Istituto centrale non ha ascoltato i suggerimenti altrui: si è verificata nell’estate del 2011 quando lo spread tra bond italiani e tedeschi era vicino ai massimi storici e nelle banche estere si momorava la parola “default” associata all’Italia. In quel caso, il consiglio (inascoltato) riguardava l’opportunità di mettere parte delle riserve auree a garanzia delle emissioni obbligazionarie di stato per renderle più appetibili e ammansire – da subito – Lady Spread.