lunedì 30 settembre 2013

La sinistra impicca pure con le parole, di Giuliano Ferrara

Avrete notato che con il caso di Guido Barilla è emerso il lato autoritario, prescrittivo, del politicamente corretto

Avrete notato che con il caso di Guido Barilla è emerso il lato autoritario, prescrittivo, del politicamente corretto. Tu industriale della pasta non puoi dire alla radio che per te, con rispetto per tutti, quel che conta, quel che importa ai fini dello sviluppo, dell'investimento, dell'immagine, del marketing, è la famiglia tradizionale biparentale, maschio e femmina e bambini al seguito. Il Mulino bianco, lo spaghetto, i biscottini entrano nello spettro delle cose scorrette e discriminatorie se non si combinano con uno spot gay o «favorevole all'integrazione», secondo il linguaggio edulcorato o eufemistico scelto da Dario Fo, già testimonial della pubblicità Barilla. Guido Barilla viene aggredito, non solo in Italia, non solo dai militanti della cultura gay, non solo dai progressisti cosiddetti: ormai il linguaggio della correttezza ideologica è unificato, lo condividono le grandi maggioranze conformiste, è una seconda pelle della nostra cultura. L'aggressione punta a risultati umilianti e li ottiene, Barilla è costretto a scusarsi, anche con i suoi dipendenti, perché certe opinioni sono o stanno per diventare crimine di legge, alla faccia del diritto di pensiero e di parola, alla faccia delle libertà liberali. È un caso Buttiglione undici anni dopo. Ci fu almeno un principio di controversia, si sentirono voci discordanti, quando fu fatto fuori da commissario il politico cattolico che al tribunale della coscienza laica di Bruxelles, fattosi organo della caccia alle streghe sul tema dei diritti gay, rispose di conoscere la differenza tra diritto e morale, ma che in termini di morale la sua cultura cattolica gli suggeriva un giudizio negativo sul comportamento omosessuale. Ora non c'è più nemmeno la controversia, Barilla se lo sono cucinato in pochi istanti, il tempo di cottura di mezzo chilo di fusilli.

Intanto in Francia sono tornati i giacobini. 
Il ministro dell'Istruzione vuole scristianizzare la società e la scuola, formula decaloghi per l'indottrinamento anticattolico, si cancellano le feste religiose, si tolgono di mezzo i santi, si predica apertamente la religione dello Stato laico come l'unica religione ammessa, con i suoi dogmi, le sue certezze, il suo autocontraddittorio farsi dottrina valida per tutti. I politici cattolici e democristiani in giro per l'Europa se ne impipano, i vescovi parlano d'altro, magari interpretano le frequenti interviste e gli interventi di Papa Francesco come un via libera: non giudicare è evangelico, credere è evangelico, avere fede è meglio di niente, ma il diritto all'espressione razionale, la libertà di dire e di pensare quel che sembra giusto non è disponibile, o non dovrebbe esserlo. Eppure un certo grado di autoritarismo repressivo si affaccia come una necessità se si intenda riformare e riaggiustare dalle radici la società e il set più o meno tradizionale di opinioni che la riguardano.
La tecnica è quella dei totalitarismi democratici moderni, che sono cosa diversa dai fascismi e dal nazismo. Si procede negando la realtà, il fatto, e dando tutto il potere alle formule verbali che edulcorano o deformano in modo anche grottesco ciò che è. Il caso Berlusconi non è così diverso. Il politicamente corretto, che costituisce un regime culturale, non può sopportare lo sguardo del reale, del senso comune. È stranoto che c'è un conflitto tra politica e giustizia, che questo conflitto dura dall'epoca in cui furono liquidati i partiti politici, che il partito dei pm e dei giudici ha surrogato gli altri poteri abrogando la divisione dei poteri, che lobby mediatiche e finanziarie e civili importanti hanno costruito sulle avventure della giustizia politicizzata le loro fortune. È tutto lì squadernato davanti agli occhi del pubblico, solo che si voglia guardare: magistrati che fondano partiti o si buttano con risultati mediocri in politica, pm che fanno secco una volta un governo Berlusconi e la volta dopo un governo Prodi in un circuito senza controllo di prepotere e di uso politico della giurisdizione, l'alleanza con i media manettari all'insegna della violazione sistematica del segreto investigativo, e si potrebbe continuare a lungo.

Ma bisogna resistere alla realtà, evitare di confrontarsi l'evidenza.
 E allora si ricorre al linguaggio, al conformismo del linguaggio interpretativo. Bisogna tenere separata la questione della condanna di Berlusconi dalla politica, oops, ma come si fa se da vent'anni il centrodestra denuncia una manovra mediatico-giudiziaria ai danni della politica e del suo capo politico? Eppure con questi espedienti ideologici fatti di formule si fomenta un'aggressione vasta e aspra all'Arcinemico, accusato di eversione perché protesta contro quella che considera un'ingiustizia capace di svuotare lo Stato di diritto e la democrazia del suo contenuto e della sua forma. Qui non è in questione un cambio di governo o di maggioranza, l'obiettivo dei politicamente corretti è l'instaurazione di un regime mentalmente carcerario, di una grande prigione culturale.
Giuliano Ferrara

Ken Loach e la fine di 50 anni gloriosi per colpa della Spectre thatcheriana, di Alberto Mingardi

Finita la Prima guerra mondiale, pochi grandi, potenti e (ovviamente) avidi capitalisti s’installano nelle stanze dei bottoni. L’estrema concentrazione della ricchezza, e il sadico piacere di vedere una buona fetta della popolazione patire la fame che è tipico dei suoi detentori, conducono inesorabilmente alla crisi del 1929 e di lì alla Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale, come tutte le guerre, viene combattuta essenzialmente dal proletariato. I proletari di tutto il mondo sono divisi e si ammazzano a vicenda – ma quelli che hanno la fortuna di sopravvivere, e d’essere inglesi, traggono dall’esperienza bellica una formidabile lezione.  Se lo stato ha potuto organizzare i fattori della produzione in guerra, lo può fare in tempo di pace. E’ questo lo “spirito del ’45” che solo una terribile cospirazione, quella dei pochi, potenti e (ovviamente) avidi capitalisti di cui sopra – tornati inaspettatamente alla ribalta – ha potuto offuscare con l’avvento di Margaret Thatcher.
Questo è il riassunto del secolo scorso secondo Ken Loach, autore di un film che ha lo spessore di uno spot per la party conference del Partito laburista. Loach s’è divertito, da intellettuale pubblico qual è, a giocare coi simboli. Ricama sulla parola “socialismo”, raccontando in elegantissimo bianco e nero una storia dimenticata: c’era una volta la Gran Bretagna socialista, nella quale l’“ordine” vinse sulle forze disordinate dell’anarchia del mercato. In questa spedizione d’archeologia politica, la divisione fra buoni e cattivi è netta. I cattivi sono i “ricchi”, per quanto non proprio precisamente definiti. I buoni sono politici e leader sindacali che riuscirono a “superare avidità ed egoismi”, “tutti per uno e uno per tutti”.
C’è un elemento di grande lucidità, nel film. Loach non presta attenzione alcuna alla formula per cui una cosa sarebbe produrre ricchezza e altra distribuirla. Lo stato sociale e lo stato interventista sono presentati come un tutt’uno. L’uno richiede l’altro.
Le crescenti bardature che vengono imposte all’azione economica a un certo punto rendono necessaria la nazionalizzazione, perché nessun privato svolge attività che non possono essere profittevoli a norma di legge: ma non è questo a inquietare Loach. Piuttosto egli ci mostra come considerare il capitalismo una pecora che la socialdemocrazia deve limitarsi a tosare è idea che fa a pugni con i più profondi istinti politici dei tosatori. “Gran parte del favore che il socialismo trova”, spiegava Pantaleoni, è dovuto alla speranza che riesca “a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza produce in ogni situazione”. Il film di Loach ne è una illustrazione esemplare.
Lo spettatore che non abbia lasciato la sua onestà intellettuale in biglietteria noterà che i meriti dello stato sociale stanno tutti sul lato delle intenzioni. Che cosa queste intenzioni abbiano prodotto, non è tema che Loach sfiori neanche di striscio. Davvero l’educazione di stato ha reso “l’individuo capace di pensare per sé”? Col Servizio sanitario nazionale, veramente “la migliore sanità possibile” è stata resa accessibile a tutti?
“The spirit of ’45” racconta un Dopoguerra che coincide con standard di vita crescenti messi a disposizione di un numero sempre più ampio di persone – e lo racconta come se l’odiato capitalismo non c’entrasse niente, né col miglioramento delle condizioni di vita, né col progresso tecnologico, e nemmeno coi consumi di massa. Biasima la tendenza “monopolistica” dell’imprenditoria privata, e poi accoglie testimonial che argomentano a favore della monopolizzazione pubblica in ragione di economie di scala. Racconta un’Inghilterra che  nazionalizza ex abrupto le ferrovie, ignorando come a partire almeno da inizio secolo le strade ferrate fossero tanto minuziosamente regolate, da espellere di fatto ogni spirito imprenditoriale. La loro pre-istoria “mercatista”, che bizzarramente coincide con un periodo di sviluppo tumultuoso, è liquidata come irrazionale. Irrazionale è la disoccupazione: se le imprese vanno male, è perché il privato “non funziona” e “non investe”. Che ci siano problemi altamente specifici, che non sia scritto nella pietra quale è l’utilizzo migliore di una certa risorsa, che l’innovazione avvenga e cambi le carte, che mobilitare risorse a vantaggio dei bisogni e degli scopi di milioni di persone in tempo di pace sia cosa diversa che convogliarle verso l’unico obiettivo della vittoria in guerra, è fuori dall’orizzonte mentale del regista.
Ansioso di imputarne l’assassinio alla Thatcher (che però riesce al massimo ad accusare d’aver esternalizzato le pulizie negli ospedali), Loach non vede che ciò che distingue lo stato sociale “coerente” uscito dalla guerra, dai precedenti tentativi di “assicurare” i più poveri contro vecchiaia e malattia, è che i suoi benefici si estendono alle classi medie. Più che col riscatto degli umili, esso ha coinciso con la burocratizzazione dell’assistenza – e con una straordinaria concentrazione di potere, in pochissime mani. Mani, certo, di funzionari di carriera, non di capitani d’industria.  Mani che posero fine sì all’anarchia della produzione, ma spinsero il Regno Unito sulla via di un declino che appariva inesorabile, prima della Lady di ferro.
Emblematiche di “The spirit of ’45” sono le immagini di Clement Attlee. Un omino insignificante, né Churchill né Lenin, che incarnava onestamente, persino nel tono della voce e nel taglio dei vestiti, l’ideale della mediocrità burocratica. A ciascuno le sue nostalgie.

lunedì 16 settembre 2013

The Birth of Fiscal Unions, by Harold James and Jennifer Siegel

Fiscal unification is often an effective way to enhance creditworthiness, and it may also create a new sense of solidarity among diverse peoples living within a large geographic area. For this reason, Europeans have often looked toward the model of the United States. But they have never been able to emulate it, because their motivations for union have been so varied.
This illustration is by Margaret Scott and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Margaret Scott
Desperate countries often consider such unions to be the best way out of an emergency. In 1940, Charles de Gaulle proposed, and Winston Churchill accepted, the idea of a Franco-British union in the face of the Nazi challenge, which had already overwhelmed France.
In 1950, five years after the war, Germany’s first postwar chancellor, Konrad Adenauer, also proposed a union – this time between France and Germany – as a way out of his defeated country’s existential crisis. Political unification was rejected; but economic association has had a brilliant career for more than six decades – until now.
The fundamental idea behind a fiscal union is that poorer, less creditworthy countries can gain from joint debt liability with richer countries. Indeed, one of the most fascinating proposals to this effect came at the beginning of World War I, when the Russian Empire found that its limited capacity to borrow on international capital markets and its low foreign-currency reserves left it unable to create an effective military force.
So the Russian government proposed what would have amounted to a full fiscal union with Britain and France for war-related finances. France latched onto the idea, because its borrowing capacity was also weaker than Britain’s. The British wanted to win the war – but not so much that they were prepared to accept unlimited liability for debt incurred by the French and Russian governments.
In reality, a fiscal union between such diverse political systems would have been unworkable. An autocratic or corrupt regime has a strong incentive to spend in a way that benefits the elite. That incentive increases if it can command the resources of a more democratically governed state, where citizens agree to pay taxes (and pay off future debt) because they also control the government.
The only circumstance in which democracies sign up to such a deal is when a clear security interest is at stake. It was that predicament that gave pre-1914 Russia unique access to the French financial market. Yet, in 1915, the British, even in the face of an ongoing war, were unwilling to assume Russia’s liabilities. Perhaps the sheer degree of uncertainty in pre-war Europe, or the more amorphous nature of the threat, made security concerns trump financial risk.
Russia’s World War I credit arrangements anticipated some of the political maneuvering about debt and its relation to security that occurred in late-twentieth-century Europe. Post-1945 West Germany was vulnerable for a long time, because it sat on the Cold War’s fault line. As a result, West German governments offered neighboring countries financial help in exchange for security and political solidarity, especially at moments when they were uncertain about the reliability and continuity of US support.
But there were limits. In 1979, when West Germany adopted a fixed exchange-rate regime with a support mechanism for its partners (the European Monetary System), the Bundesbank ensured that it was not committed to unlimited currency interventions and that it might stop when the stability of the Deutsche Mark was endangered.
The logic was repeated on an even larger scale at the beginning of the 1990’s, but this time without any pre-determined limits. The European Union’s commitment to monetary union enabled the eurozone’s Mediterranean countries to improve their debt dynamics and public finances dramatically. Their borrowing costs fell as they locked their currencies into a union with countries – Germany, in particular – with a stronger reputation for stability.
At that point, the problem of how to divide the eventual bill when things became costly was not addressed, and the problem of excessive debt was wished away by the establishment of convergence criteria (which were not fully implemented anyway). But, since 2009, when financial distress in the eurozone’s periphery brought such problems to the fore, Europeans have faced the same question as the WWI Allies. Are security and political interests so overwhelming that they justify assuming large and unlimited liabilities incurred by political systems over which they have no control?
Because Europe is at peace, with no singular, overriding security threat, it is likely that when the extent of the bargain becomes clear, voters and politicians in the rich creditor countries will reject it. But the more uncertain security challenges that Europe faces may just demand the kind of strong fiscal link that the French and Russians were willing to forge before 1914, and that the Germans and French embraced in 1950.
The implications for the present are important: the only palatable way in which the necessary balance between liability and security can be achieved is through a process of political reform that dissolves corrupt oligarchies and weakens incentives for fiscal imprudence. One approach might be to ask citizens in all European countries whether they are prepared to accept some sort of fiscal compact involving a hard limit on debt.
Germans refer to this solution as a Schuldenbremse (debt brake). It presupposes a profound process through which institutions and the assumptions underlying them come to be widely shared. But that takes time, as the history of the US – the world’s most successful union born of emergency – amply demonstrates.

http://www.project-syndicate.org/commentary/europe-and-the-birth-of-fiscal-unions-by-harold-james-and-jennifer-siegel

Is Europe Out of the Woods?, by Barry Eichengreen

The eurozone crisis is over, or so we are being told. But can a couple of quarters of economic growth support claims of recovery?
This illustration is by Tim Brinton and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Illustration by Tim Brinton
There is no doubt that the outlook for Europe has brightened since early 2012. Ten eurozone countries had just been downgraded by the ratings agency Standard & Poor’s. Economic activity was spiraling downward, while nervous investors were fleeing southern European banks. The Spanish government was about to nationalize Bankia, the country’s fourth-largest bank, but could not say where it would obtain the funds to recapitalize it. Interest rates on government bonds were racing upward.
In Greece, meanwhile, an election was approaching, amid fears that the new government would reject the country’s financing agreement with the European Union and the International Monetary Fund. At that point, the country might be forced out of the eurozone.
And what happened in Greece would not stay in Greece. Once the process of euro exit had started, there was no telling where it would stop. The general feeling was that the common currency was doomed.
In fairness, this dark prognosis was not universally embraced. My own favorite recollection of this period is from March 2012, when I shared a podium in New York with another, more famous economist. We were asked: “What probability do you attach to Greece leaving the eurozone by the end of the year?” He said 100%. I said 0%. This caused no little amusement in the audience. In the end, one of us was more right than the other.
What those forecasting the eurozone’s collapse overlooked was the commitment of elected officials and their constituents to the European project. In Greece, where tensions ran highest, Syriza, the main leftist anti-euro party, received only 27% of the vote in the 2012 parliamentary election. In the run-up to Germany’s general election later this month, the Christian Democrats and the Social Democrats have indistinguishable pro-euro positions. Alternative für Deutschland, the anti-euro party, is polling a mere 4%. It may yet win a few seats in the Bundestag; but the numbers indicate that euro-skepticism remains a fringe position.
Along with this deep and abiding commitment to the European project, there is fear of the unknown. The consequences of abandoning the euro are highly uncertain, and few European leaders are willing to go there. When push comes to shove, they are prepared to do just enough to hold the eurozone together, even if the necessary steps are economically and politically distasteful.
So what changed in the last year? First, Europe now has a true lender of last resort. In July 2012, European Central Bank President Mario Draghi pledged that the ECB would do “whatever it takes” to preserve the euro. Draghi was still new on the job, so markets interpreted his pledge as signaling the advent of a new regime.
A few days later, the ECB established its “outright monetary transactions” program, which promised potentially unlimited purchases of troubled eurozone governments’ bonds. As a result, a mad dash for the exits by investors could no longer cause European financial markets to collapse.
Eurozone member states then agreed to address their banking problems by creating a single supervisor and a mechanism for winding down bad banks. Spain conducted a systematic audit of its banking system, and €100 billion ($132 billion) of EU and IMF money was made available for recapitalization.
To be sure, there has been only limited progress in establishing the single supervisor – and no progress on the resolution mechanism. But the commitment is important. The specter of a collapse of Europe’s banks, like the specter of a self-fulfilling debt crisis, has been banished, allowing Europe’s nose-diving economies to pull up in time.
But Europe could still suffer a hard landing. The banks remain weak. Now that the European Banking Authority has finally issued new prudential rules, they can get about the business of raising the capital they need as a buffer against losses. Société Générale has moved in this direction, but few other banks have followed so far. So long as European banks remain undercapitalized and overleveraged, a sustainable recovery supported by robust bank lending is unlikely.
Nor has the debt overhang been removed. In the first quarter of this year, the eurozone’s public-debt ratio actually rose, to 92.2% of GDP. Given policymakers’ reluctance to contemplate write-downs, specifically of debt held by official lenders, governments have been forced to levy high taxes to service their obligations, in turn depressing investment. It would be better to give the European Stability Mechanism, the ECB, and other official holders of sovereign debt the haircuts that they deserve.
Doing just enough to prevent the eurozone from collapsing is not the same as setting the stage for sustainable growth. Yes, Europe’s economic performance has improved. But if policymakers fail to complete unfinished business, the prognosis will be bleak.

http://www.project-syndicate.org/commentary/the-case-for-guarded-optimism-in-europe-by-barry-eichengreen