Finita la Prima guerra mondiale, pochi grandi, potenti e (ovviamente) avidi capitalisti s’installano nelle stanze dei bottoni. L’estrema concentrazione della ricchezza, e il sadico piacere di vedere una buona fetta della popolazione patire la fame che è tipico dei suoi detentori, conducono inesorabilmente alla crisi del 1929 e di lì alla Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale, come tutte le guerre, viene combattuta essenzialmente dal proletariato. I proletari di tutto il mondo sono divisi e si ammazzano a vicenda – ma quelli che hanno la fortuna di sopravvivere, e d’essere inglesi, traggono dall’esperienza bellica una formidabile lezione. Se lo stato ha potuto organizzare i fattori della produzione in guerra, lo può fare in tempo di pace. E’ questo lo “spirito del ’45” che solo una terribile cospirazione, quella dei pochi, potenti e (ovviamente) avidi capitalisti di cui sopra – tornati inaspettatamente alla ribalta – ha potuto offuscare con l’avvento di Margaret Thatcher.
Questo è il riassunto del secolo scorso secondo Ken Loach, autore di un film che ha lo spessore di uno spot per la party conference del Partito laburista. Loach s’è divertito, da intellettuale pubblico qual è, a giocare coi simboli. Ricama sulla parola “socialismo”, raccontando in elegantissimo bianco e nero una storia dimenticata: c’era una volta la Gran Bretagna socialista, nella quale l’“ordine” vinse sulle forze disordinate dell’anarchia del mercato. In questa spedizione d’archeologia politica, la divisione fra buoni e cattivi è netta. I cattivi sono i “ricchi”, per quanto non proprio precisamente definiti. I buoni sono politici e leader sindacali che riuscirono a “superare avidità ed egoismi”, “tutti per uno e uno per tutti”.
C’è un elemento di grande lucidità, nel film. Loach non presta attenzione alcuna alla formula per cui una cosa sarebbe produrre ricchezza e altra distribuirla. Lo stato sociale e lo stato interventista sono presentati come un tutt’uno. L’uno richiede l’altro.
C’è un elemento di grande lucidità, nel film. Loach non presta attenzione alcuna alla formula per cui una cosa sarebbe produrre ricchezza e altra distribuirla. Lo stato sociale e lo stato interventista sono presentati come un tutt’uno. L’uno richiede l’altro.
Le crescenti bardature che vengono imposte all’azione economica a un certo punto rendono necessaria la nazionalizzazione, perché nessun privato svolge attività che non possono essere profittevoli a norma di legge: ma non è questo a inquietare Loach. Piuttosto egli ci mostra come considerare il capitalismo una pecora che la socialdemocrazia deve limitarsi a tosare è idea che fa a pugni con i più profondi istinti politici dei tosatori. “Gran parte del favore che il socialismo trova”, spiegava Pantaleoni, è dovuto alla speranza che riesca “a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza produce in ogni situazione”. Il film di Loach ne è una illustrazione esemplare.
Lo spettatore che non abbia lasciato la sua onestà intellettuale in biglietteria noterà che i meriti dello stato sociale stanno tutti sul lato delle intenzioni. Che cosa queste intenzioni abbiano prodotto, non è tema che Loach sfiori neanche di striscio. Davvero l’educazione di stato ha reso “l’individuo capace di pensare per sé”? Col Servizio sanitario nazionale, veramente “la migliore sanità possibile” è stata resa accessibile a tutti?
Lo spettatore che non abbia lasciato la sua onestà intellettuale in biglietteria noterà che i meriti dello stato sociale stanno tutti sul lato delle intenzioni. Che cosa queste intenzioni abbiano prodotto, non è tema che Loach sfiori neanche di striscio. Davvero l’educazione di stato ha reso “l’individuo capace di pensare per sé”? Col Servizio sanitario nazionale, veramente “la migliore sanità possibile” è stata resa accessibile a tutti?
“The spirit of ’45” racconta un Dopoguerra che coincide con standard di vita crescenti messi a disposizione di un numero sempre più ampio di persone – e lo racconta come se l’odiato capitalismo non c’entrasse niente, né col miglioramento delle condizioni di vita, né col progresso tecnologico, e nemmeno coi consumi di massa. Biasima la tendenza “monopolistica” dell’imprenditoria privata, e poi accoglie testimonial che argomentano a favore della monopolizzazione pubblica in ragione di economie di scala. Racconta un’Inghilterra che nazionalizza ex abrupto le ferrovie, ignorando come a partire almeno da inizio secolo le strade ferrate fossero tanto minuziosamente regolate, da espellere di fatto ogni spirito imprenditoriale. La loro pre-istoria “mercatista”, che bizzarramente coincide con un periodo di sviluppo tumultuoso, è liquidata come irrazionale. Irrazionale è la disoccupazione: se le imprese vanno male, è perché il privato “non funziona” e “non investe”. Che ci siano problemi altamente specifici, che non sia scritto nella pietra quale è l’utilizzo migliore di una certa risorsa, che l’innovazione avvenga e cambi le carte, che mobilitare risorse a vantaggio dei bisogni e degli scopi di milioni di persone in tempo di pace sia cosa diversa che convogliarle verso l’unico obiettivo della vittoria in guerra, è fuori dall’orizzonte mentale del regista.
Ansioso di imputarne l’assassinio alla Thatcher (che però riesce al massimo ad accusare d’aver esternalizzato le pulizie negli ospedali), Loach non vede che ciò che distingue lo stato sociale “coerente” uscito dalla guerra, dai precedenti tentativi di “assicurare” i più poveri contro vecchiaia e malattia, è che i suoi benefici si estendono alle classi medie. Più che col riscatto degli umili, esso ha coinciso con la burocratizzazione dell’assistenza – e con una straordinaria concentrazione di potere, in pochissime mani. Mani, certo, di funzionari di carriera, non di capitani d’industria. Mani che posero fine sì all’anarchia della produzione, ma spinsero il Regno Unito sulla via di un declino che appariva inesorabile, prima della Lady di ferro.
Emblematiche di “The spirit of ’45” sono le immagini di Clement Attlee. Un omino insignificante, né Churchill né Lenin, che incarnava onestamente, persino nel tono della voce e nel taglio dei vestiti, l’ideale della mediocrità burocratica. A ciascuno le sue nostalgie.
Emblematiche di “The spirit of ’45” sono le immagini di Clement Attlee. Un omino insignificante, né Churchill né Lenin, che incarnava onestamente, persino nel tono della voce e nel taglio dei vestiti, l’ideale della mediocrità burocratica. A ciascuno le sue nostalgie.
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